FEDE E RAGIONE
Vaghe stelle dell’orsa...
dal Numero 45 del 16 novembre 2014
di Antonio Farina

Tutte le facoltà dell’anima, memoria, intelletto, volontà, cooperano all’unisono nel contemplare il cielo. Il cielo fisico, ammantato di stelle, eleva l’anima e la porta al desiderio del Cielo eterno e intangibile, al desiderio di Dio. Tutto ci è dato in dono e può condurci facilmente a Lui.

Il Cantico di Daniele che si recita nella liturgia delle Lodi si conclude con il versetto 56: «Benedetto sei tu nel firmamento del cielo, degno di lode e di gloria nei secoli». E alla fine non si recita neanche il Gloria, come si usa fare dopo ogni Salmo dell’Ufficio Divino. Il motivo è ben evidente: oltre al fatto che al capoverso precedente si benedice già la Santissima Trinità, rammentare il firmamento, le stelle del cielo, i pianeti, le galassie, il Cosmo, l’Universo intero evoca nel nostro spirito la Gloria di Dio più di ogni altra cosa creata e non v’è necessità di aggiungere parole umane.
Come mai l’abisso notturno di spazi infiniti, ma anche il sorgere e il tramontare del sole e della luna, il movimento armonioso degli astri ci comunicano così efficacemente la Gloria e l’Onnipotenza di Dio Creatore? Quest’attrattività è un fatto che riguarda esclusivamente le creature intelligenti, infatti gli animali (che hanno gli occhi anche loro come noi) guardano, sì, il cielo, ma – almeno così sembra – non sono in grado di cogliere alcunché di sovrannaturale, di trascendente, di metafisico, dietro il silenzioso scorrere della notte: continuano a brucare la loro erbetta, o a ruminare pacificamente, o a sonnecchiare indifferenti allo spettacolo che scorre sopra le loro teste.
Il cielo è stato creato per l’uomo, per far appello al suo intelletto, per muovere l’anima verso il Creatore, per far smarrire il suo sguardo nei sentieri che scorrono misteriosi tra le stelle, per far desiderare di raggiungere la patria lontana, la Patria celeste e la Perfezione eterna. Il firmamento è veramente una sorta di “firma”, di timbro, di suggello della Mano creatrice di Dio. È necessario un atto congiunto di tutte e tre le potenze dell’anima per apprezzare il messaggio scritto nel Cosmo. La nostra sensitività (quella che san Giovanni della Croce chiama “memoria” sensibile) attraverso l’apertura dei sensi ci informa della realtà fisica del cielo, poi il nostro intelletto (secondo la visione tradizionale aristotelica-tomistica) “elabora” la nozione appresa dai sensi e ne apprezza la logica interna, ne coglie l’aspetto contingente e l’ordine ad esso soggiacente ma è solo attraverso un atto della volontà libera (naturalmente inclinata al Bene) che nasce in noi il desiderio di incontrare Dio.
È infatti la volontà che ci fa cogliere il meraviglioso disegno di Amore che si cela nelle cose create. Ciò che avviene è ben descritto nel Libro dell’Esodo quando Mosè si trova al cospetto del roveto ardente: «Ora Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: “Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?”. Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: “Mosè, Mosè!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!”. E disse: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3,1). Si potrebbe dire che il Signore tende una sorta di “imboscata” d’amore a Mosè, lo attira, lo seduce, lo ammalia con lo spettacolo naturale, lo incuriosisce ed infine si rivela a lui come l’Eterno, come Colui che è il Dio dei suoi padri, come l’Essere che abita “una luce inaccessibile”, e Mosè ricambia immediatamente l’iniziativa di Dio, si prostra al suo cospetto velandosi il volto per non rimanere folgorato.
La volta stellata, il firmamento, l’Universo e tutti gli spettacoli naturali agiscono proprio in questo modo sia sul singolo individuo come anche sull’immaginario collettivo. Ancorché frastornati dalla falsa scienza che pretende di sostituirsi a Dio e disorientati dagli spettacoli pirotecnici di una tecnologia sempre più proterva e invadente per cui niente ci sembra veramente strano o fuori del comprensibile, si deve ammettere che, anche oggi, in pieno decadentismo spirituale, la scenografia celeste esercita il suo fascino irresistibile sull’animo umano.
In televisione passano molte trasmissioni dedicate a questi temi e tutte invariabilmente riscuotono successo, consensi e innalzano l’audience del canale che le ospita; è normale: Universo = Interesse. Grazie soprattutto alle immagini coloratissime e ad alta definizione fornite dai telescopi spaziali, il cielo sembra svelare i suoi più reconditi misteri: galassie roteanti, nubi di polveri multicolori in cui si formano protostelle, pianeti giganti rispetto ai quali la terra è un granello di sabbia, per non parlare della varietà fantastica delle stelle, immense, rosse, arancioni, blu, verdi... e poi le pulsar, le stelle di neutroni, le misteriose sorgenti di raggi X, i sistemi binari composti da due “soli” che orbitano uno intorno all’altro in una danza colossale, i confini del Cosmo, fino ai Quasars, agli oggetti così lontani nell’abisso dello spazio che la luce impiega miliardi di anni per arrivare fino a noi. Ecco in lontananza la radiazione di fondo, l’eco lontano del Big-Bang... l’enigma insondabile dell’Atto della Creazione...
«Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1Cor 2,9). Oltre a costituire un potente aiuto alla fede, l’immensità e l’ordine del Cosmo ci portano a considerare quali sono le giuste proporzioni vigenti tra Dio e l’uomo. Spesso la nostra superbia “antropocentrica” ci porta a valutare gli atti di Dio e la sua Altissima Volontà con un metro di giudizio limitato e umano quasi che Egli fosse un Essere simile a noi o pari. Un grave errore che falsa la prospettiva spirituale perché «i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (Is 55,8).
Giobbe, uomo retto e giusto dell’Antico Testamento, oltremodo provato da una serie impressionante di disgrazie, dolori, perdite ed eventi infausti era diventato “l’accusatore di Dio” e si sentì apostrofare dal Signore in questi termini: «Puoi tu annodare i legami delle Plèiadi o sciogliere i vincoli di Orione? Fai tu spuntare a suo tempo la stella del mattino o puoi guidare l’Orsa insieme con i suoi figli? Conosci tu le leggi del cielo o ne applichi le norme sulla terra?» (Gb 38,31ss). L’Orsa Maggiore (e quella Minore) sono l’immagine fantastica delle stelle che circondano la stella polare, ricordano un “carro”, o una pigra orsa che pascola i suoi piccoli in un prato celeste costellato non di fiori ma di astri! Noi la vediamo come un “disegno” punteggiato su un manto di velluto nero ma in realtà un baratro immenso di spazio separa una stella dall’altra (si parla di migliaia di miliardi di chilometri). Ogni notte come umili pecorelle obbedienti al comando silenzioso del Pastore supremo esse si presentano precise ed ordinate all’appuntamento celeste. Una Legge (quella della gravitazione universale scoperta da Newton) immutabile e perfetta governa l’eterna carovana che si snoda nella trapunta di stelle.
Anche i grandi poeti sono rimasti conquistati e soggiogati da questo carosello di astri che sembrano immobili ma sfrecciano velocissimi nello spazio. Giacomo Leopardi, poeta coltissimo ed inclinato alla mestizia con il suo “pessimismo cosmico”, pur non approdando al porto sicuro e consolatorio di una fede matura, ne Le Ricordanze si dimostra sensibile alla suggestione del manto notturno animato e popolato dalle figure più fantasiose partorite dalla mente umana e così si esprime: «Vaghe stelle dell’Orsa, / io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi / sul paterno giardino scintillanti, / e ragionar con voi dalle finestre / di questo albergo ove abitai fanciullo, / e delle gioie mie vidi la fine...».
Quando lo sguardo dell’uomo si affaccia sulla notte e si perde «nei sempiterni colli» del firmamento infinito, una voce sommessa, indistinta, impercettibile si fa sentire nel cuore: è la voce di Colui che ci ama oltre ogni limite e al termine del Tempo ci attende in Paradiso.

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