Il Magistero di Giovanni Paolo II è stato provvidenzialmente illuminante e determinante per dirimere l’acceso dibattito circa la corretta impostazione teologica da attribuire alla Morale.
La canonizzazione di Giovanni Paolo II, il Papa del Totus Tuus, è motivo per tutti noi di riflessione ancora più attenta e accurata sul suo prezioso magistero, così attuale per la Chiesa. Papa Francesco ha voluto indicare in papa Woytila, dichiarandolo santo, ancor prima che un modello di intercessore per noi nel Cielo, un profeta di Dio, che ha offerto alla Chiesa chiare coordinate entro cui muoversi.
Il magistero di papa Giovanni Paolo II è veramente poliedrico. Basti pensare che solo le Lettere encicliche sono 14, e che la mole di tutto il suo insegnamento, comprendente catechesi, omelie, testi all’Angelus domenicale, Lettere apostoliche, ecc., è raccolto in 28 volumi. Di questo ricco insegnamento ci piace scegliere alcuni temi e mostrare così la loro profezia.
Proprio di recente, in un libro a più mani, dal titolo Accanto a Giovanni Paolo II. Gli amici e i collaboratori raccontano (Ares, Milano 2014), il Papa emerito ha rotto il suo silenzio e ha voluto offrire una testimonianza personale sul suo Predecessore, al quale era particolarmente legato essendo stato chiamato proprio da lui a presiedere il Dicastero vaticano per la Dottrina della Fede. Benedetto XVI vede un «criterio di prim’ordine» della santità di Giovanni Paolo II nel suo «coraggio per la verità», coraggio che non è mai mancato al Pontefice venuto dall’Est del mondo. Coraggio e verità che Benedetto XVI evidenzia particolarmente mettendo in luce l’insegnamento di «immutata attualità» offerto nella Lettera enciclica sui problemi morali, Veritatis splendor, del 1993.
L’impostazione teologica che finì con l’imporsi, al fine di dirsi rinnovata e più biblica, perseguiva l’intento di liberarsi in Morale di un’impostazione giusnaturalistica: vedere il fondamento del diritto nella natura dell’uomo e quindi partire dai principi-valori morali naturali per capire l’agire morale dell’uomo, per ritrovare nella Bibbia il vero fondamento dell’agire dell’uomo. Siccome però negli studi biblici imperava fortemente il metodo storico-critico: una rigorosa critica delle fonti e quindi un’indagine storica sull’origine dei testi, con il rischio di lasciarli indietro, nel loro ambiente originario, senza più nessun legame con l’intera Scrittura e con l’oggi della fede, il fondamento biblico della Morale non fu trovato.
Molti studiosi della Teologia morale erano dell’idea che la Bibbia non ci fornisse una base etico-morale per lo studio dell’agire dell’uomo in riferimento a Dio, alla legge morale naturale e alla legge positiva. Una Morale biblica non si dava. La Morale non era questione di fede, si diceva, ma solo di ragione. Difatti però la forte critica alla Morale giusnaturalistica causò progressivamente un disorientamento anche della ragione. Alla fine la Teologia morale si trovò da un lato senza l’ausilio forte della ragione e soprattutto della metafisica, che offre i principi basilari per distinguere ciò che è bene e ciò che è male, dall’altro senza l’appoggio della fede e quindi della Sacra Scrittura su questioni concernenti i criteri oggettivi per giudicare l’azione morale.
Temi come la coscienza, la legge, il fine dell’uomo, si ritrovarono così senza più un substrato di riflessione naturale, illuminato dalla fede. La conseguenza più rovinosa fu l’affermarsi di una morale della situazione: si poteva giudicare la verità o la falsità di un’azione non più in ragione dell’in sé, ovvero dell’intenzione o fine dell’azione, dell’oggetto morale e delle conseguenze, ma solo in ragione delle conseguenze immediate. La prassi si impose sulla verità, la vita così come vissuta sull’orientamento di fondo che ogni uomo deve avere verso il bene, rifiutando il male. La Morale era ridotta a un giudizio circa la convenienza o meno di un’azione in ragione del risultato conseguito, senza essere più capace di vedere il bene o il male intrinseco. Bene e male erano così questioni di opportunità: parametri della coscienza soggettiva non più in grado di un giudizio pratico, fondato sulla ragione illuminata dalla fede, per cui fare o non fare un’azione.
La provvidenza della Veritatis splendor di Giovanni Paolo II si rivelò proprio nell’aver riaffermato, senza mezzi termini, la necessità di una base metafisica per la Morale cristiana, offrendo al contempo anche una panoramica illuminante sull’insegnamento morale delle Scritture, radicato in ultima analisi su Cristo, sulla nuova Legge della grazia da Lui donata quale compimento e universalizzazione definitiva della “legge d’oro”, conosciuta da sempre: fai agli altri quello che vuoi che gli altri facciano a te. Fai all’altro ciò che Cristo ha fatto a te. Si può fare il bene e lo si può fare ad ogni uomo perché il comandamento cristiano dell’amore non è puro fideismo ma è un bene radicato nella verità dell’uomo, di ciò che l’uomo è al cospetto di Dio.
Così prese una nuova lena il discorso sui beni o principi naturali della Morale cristiana, definiti poi in modo lungimirante da Benedetto XVI «non negoziabili». È opportuno definire i beni o principi morali naturali non negoziabili perché non tutti i beni o valori dell’uomo sono tali, sono cioè non negoziabili. La salute fisica per esempio è negoziabile, quando ad essa devo premettere e preferire quella spirituale ed eterna. La Salvezza eterna, che si radica sulla dignità dell’uomo, sulla distinzione naturale tra maschio e femmina, ecc., non è mai negoziabile.
Un altro tema, che promana da questa impostazione teologico-morale, e quello della famiglia. Giustamente lo stesso papa Francesco, nell’omelia di canonizzazione, ha definito Giovanni Paolo II «il Papa della famiglia». Paradigmatica e attuale rimane l’Esortazione apostolica post-sinodale di papa Woytila: Familiaris consortio, del 1981. Qui il Pontefice ribadiva che il Matrimonio e la famiglia voluti da Dio con la stessa creazione dell’uomo e della donna (cf. Gen 1-2) sono interiormente ordinati a compiersi in Cristo (cf. Ef 5), e hanno bisogno della sua grazia per essere guariti dalle ferite del peccato e per essere riportati al loro principio (cf. Familiaris consortio, n. 3). Il Matrimonio e la famiglia esigono sempre che si ritorni al principio, a quanto Dio ha fatto creando l’uomo e la donna. Certo, si potrebbe rimproverare a questo documento di non essere così attuale perché non affronta la tematica piuttosto recente del “gender”, con il quale si pretende di scardinare la distinzione biologico-naturale dell’uomo in maschio e femmina, riducendola a una sopraggiunta sovrastruttura culturale, ma non gli si può rimproverare di non aver già studiato accuratamente il tema all’ordine del giorno e dei prossimi sinodi, quello dei divorziati risposati e di aver già offerto la soluzione pastorale alla luce dell’intera Tradizione della Chiesa.
Giovanni Paolo II dedica a questo tema l’intero n. 84, in cui si ribadisce la prassi della Chiesa consolidata nel tempo perché «fondata sulla Sacra Scrittura». Riportiamo il passo saliente, oggi purtroppo messo in discussione, nella speranza che guidi anche i prossimi lavori sinodali, così che Giovanni Paolo II divenga un vero “Patrono della famiglia”: «La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del Matrimonio.
La riconciliazione nel sacramento della Penitenza – che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico – può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione, “assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi” (Giovanni Paolo II, Omelia per la chiusura del VI Sinodo dei Vescovi, 25 ottobre 1980)».
Dal 1981 a oggi la situazione della famiglia non è così cambiata da dover ritenere questa prassi pastorale ormai inidonea, incapace di rispondere al vero problema, che consisterebbe nel fatto che si è creato un fossato tra la vita dei fedeli e l’insegnamento della Chiesa, come dice il card. Kasper. L’Eucaristia non è un dono per farci sentire più vicini alla Chiesa o al suo insegnamento, ma il Corpo e il Sangue di Cristo che significano il dono nell’unione sponsale, unica e indissolubile, di Cristo, lo Sposo, con la Chiesa, la Sposa.
L’insegnamento di Giovanni Paolo II è ricco e variegato come dicevamo. Potremmo richiamare quell’altra preziosa enciclica che fu la Redemptoris missio, del 1987, la quale riaffermava il dovere missionario della Chiesa, quale suo fine essenziale, in un momento in cui ormai la teologia provava a convincere i pastori e i missionari a starsene comodi nei loro conventi o Parrocchie perché in fondo gli uomini erano già tutti cristiani, anche senza saperlo.
Non possiamo non ricordare, infine, la Mariologia sviluppata da Giovanni Paolo II, apportatrice di una rinnovata marianità per tutta la Chiesa, sintetizzata nel motto di san Luigi M. Grignion di Montfort, Totus Tuus: Tutto tuo Maria io sono e tutto ciò che è mio ti appartiene. Una Mariologia radicata nel mistero della Mediazione materna della Beata Vergine, cooperatrice attiva alla Redenzione, vera Corredentrice, non poteva non avere come conseguenza pratica la consacrazione alla Vergine. Il cristiano rinasce alla fede, come Cristo nasce dal Grembo verginale e materno di Maria. Un cristiano rinasce veramente come figlio di Dio, perché generato da Maria, la Madre di Cristo e la Madre della Chiesa. Apparteniamo perciò a Cristo e a Maria.
Dovremmo tutti accostarci a questo lungimirante insegnamento, nel tempo che il Signore ora ci dona e per le sfide pastorali che ci attendono.