VITA DELLA CHIESA
Lumen Fidei. Analisi e sintesi dell’enciclica
dal Numero 29 del 21 luglio 2013
di Fabrizio Cannone

Lumen Fidei, la prima Lettera enciclica del Sommo Pontefice Francesco I è stata recentemente pubblicata. Proponiamo un’attenta analisi del Documento, utile alla formazione cattolica di ogni fedele.

Come noto ai più, papa Francesco ha pubblicato la sua prima Lettera enciclica, con il bel titolo di Lumen Fidei, il 29 giugno 2013, in occasione della Solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo. Presentata alla stampa il 5 luglio seguente, è stata pubblicata integralmente dal quotidiano della CEI Avvenire, e da L’Osservatore Romano, in un apposito supplemento uscito il 6 luglio.
Più che indulgere a valutazioni teologiche di ordine generale, preferiamo offrire al lettore del Settimanale l’analisi pacata e quasi lineare – punto per punto – di un testo comunque significativo, di notevole spessore magisteriale e di (incompreso o trascurato) valore apologetico. Nell’analisi che proporremo, ci fondiamo sul principio cattolico dell’obbedienza all’autorità ecclesiastica e al Magistero di Pietro (nei limiti di ciò che il Magistero stesso indica), ma anche su quel senso critico che è richiesto a tutti i fedeli, specie dopo il Vaticano II e la promulgazione del nuovo Codice di diritto canonico del 1983 (cf. m.p. Ad tuendam fidem, Istruzione Donum veritatis, nn. 11-12, e spec. 23-24-25-30).
L’Enciclica si apre con un riferimento, quanto mai opportuno, alla «Tradizione della Chiesa», la quale usa l’espressione di Lumen Fidei, la «luce della fede» citando Gesù che nel Vangelo di Giovanni disse d’esser «venuto nel mondo come luce» (12,46) (n. 1). Ed è bella la contrapposizione proposta dal testo tra la luce vera che viene da Cristo e dalla Verità, e la falsa luce che il mondo pagano, pur «affamato di luce», cercava nel «culto al dio Sole, Sol invictus» (n. 1). Ma come notava san Giustino martire, più volte citato nel Documento, per la fede nel sole «non si è mai visto nessuno pronto a morire» (Dialogus cum Tryphone Iudaeo, cit. al n. 1). Già questo primo punto dell’Enciclica è istruttivo a più di un titolo, poiché implicitamente insegna: la fede in Cristo porta quella luce che i culti umani, antichi moderni e contemporanei, non sapranno mai dare; la Tradizione della Chiesa (scritta con la maiuscola in tutta l’Enciclica all’opposto di come fanno i novatori) esiste e resta attuale, anche nelle sue lezioni più scomode e meno à la page (Giustino infatti polemizza sia coi pagani che coi giudei mostrando la verità del Cristianesimo e la falsità delle religioni umane). Al n. 2 si inizia a scorgere il grande nemico dell’Enciclica, nemico trattato coi guanti bianchi certo, ma sempre nemico. Esso è, né più né meno, «l’epoca moderna» (n. 2), ben rappresentata dai suoi autori di riferimento (l’Enciclica richiama e critica Nietzsche, Rousseau, Wittgenstein, ecc. a cui si contrappongono ben altri autori come sant’Agostino, il più citato, san Giustino, san Tommaso, san Gregorio Magno, sant’Ireneo, san Bonaventura, san Leone Magno, san Tertulliano, Dante, Guglielmo di Saint Thierry, Romano Guardini, Eliot, Newman...).
«Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce [quella della fede] potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro» (n. 2). In queste tre righe, ma anche in altri passaggi, l’Enciclica definisce l’epoca moderna, iniziata pienamente solo nel XVI secolo, per quello che essa è: un’epoca in cui l’esaltazione dell’uomo e del mondo hanno portato all’oblio di Dio, dello spirito e della fede. Questa visione della modernità, ben ancorata ai fatti, è stata criticata dopo il Concilio, poiché, si diceva, non esistono epoche di fede ed epoche di non-fede, ma le due realtà si fondono sempre; e poi non bisogna condannare nulla, neppure la secolarizzante e laicissima modernità occidentale. Il Papa però individua bene, seppur con pacatezza, la dimensione principale dell’era moderna nell’allontanamento progressivo dalla fede cristiana. In proposito viene citato Nietzsche, un pensatore contemporaneo che porta alle estreme conseguenze le linee filosofiche della secolarizzazione (cf. L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo). 
Secondo l’Enciclica, «in questo processo [storico e di pensiero] la fede ha finito per essere associata al buio [...]. La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di scaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino» (n. 3). Questa è in estrema sintesi la filosofia moderna, pur nelle variegatissime sue componenti e diversi contraddittori filoni. Essa vanifica la realtà oggettiva della fede e la dichiara una pia fraus. Noi siamo chiamati a fare l’opposto, illuminando il mondo, la cultura e la società con la fede, «virtù teologale» (n. 7), «dono di Dio, virtù soprannaturale da Lui infusa» (n. 7). «è urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore» (n. 4): in primis la luce della ragione, come ben si vede oggi, in un mondo che, per eccesso di razionalismo scientista, è divenuto schiavo dell’istinto, delle pulsioni, delle fobie e dell’irrazionalità. Questa luce che illumina la vita e la società, «non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio» (n. 4). Essa è definita, rigorosamente, «dono soprannaturale» (n. 4): essa non è una elucubrazione della ragione, ma viene gratuitamente dall’Alto.
I nn. 5 e 6 ribadiscono nettamente il primato di Pietro (rigettato sia dagli eretici di ogni risma, che da larga parte della teologia che si dice moderna o conciliare). Ricorda il Papa che Gesù prima della Passione disse al solo Pietro: «Ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno» (Lc 22,32, corsivo mio). Nella storia non è raro il caso di Vescovi, Successori degli Apostoli, passati all’eresia e allo scisma, e solo il Successore di Pietro resta centro stabile del dogma. «Poi gli ha chiesto di “confermare i fratelli” in quella stessa fede» (n. 5). E non potrebbe farlo se non l’avesse e neppure se mancasse di un ruolo unico, superiore a tutti gli altri nella Chiesa, ovvero del Primato di giurisdizione (che alcuni vorrebbero sopprimere in nome di una malintesa collegialità) e dell’Infallibilità dottrinale (che i medesimi considerano già abolita de facto, ripetendo l’errore dei “vecchi cattolici” dopo il Vaticano I).

Fine prima parte

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