Il Papa della “Riforma gregoriana” fu una figura insigne e valorosa nell’ambito del suo tempo, con note che la rendono molto attuale. Ben le si addicono le parole di uno storico francese: “La barca di San Pietro non è mai così salda che quando affronta coraggiosamente le tempeste”.
Certamente tra i Papi del Medioevo la storia è solita ricordare con particolare attenzione Gregorio VII, il quale con la sua decisiva “Riforma gregoriana”, segna lo spartiacque del Medioevo e introduce la Cristianità nel periodo del suo apogeo.
È singolare osservare però come un Pontefice cui tanta parte è riservata dai libri di storia, anche quelli ferventemente laici, invece trovi poco spazio all’interno della devozione popolare e della stessa memoria agiografica: anzi, forse solo alcuni sanno che effettivamente Gregorio VII è un Santo canonizzato dalla Chiesa Cattolica.
Eppure la sua figura di straordinario combattente per la libertas Ecclesiae contro le indebite ingerenze imperiali, per cui ebbe tanto a penare e soffrire, fino a morire in esilio, risulta quanto mai attuale e a questa, come a poche altre figure di Pontefici, sono consone le parole del famoso storico della Chiesa, Jacques Crétineau Joly: «La barca di san Pietro non è mai così salda che quando affronta coraggiosamente le tempeste».
Il monaco Ildebrando e il partito dei riformatori
Riguardo a Ildebrando Aldobrandeschi di Soana, in realtà, molti dati risultano oscuri: nato tra il 1025 e il 1030 nei pressi di Grosseto, divenne monaco a Cluny o a Santa Maria sull’Aventino, a Roma, dove ebbe occasione di conoscere il futuro Papa Gregorio VI.
Erano anni di vera crisi per il Papato, scosso e in balia delle liti tra famiglie romane che si accaparravano di volta in volta la carica di Sommo Pontefice per accrescere il loro potere e danaro, lasciando in tal modo la Chiesa allo sbando: i Vescovi, spesso eletti dal potere civile, erano perlopiù avidi e carrieristi, e tra il Clero era largamente diffuso il matrimonio, il concubinato e la simonia. La misura e lo scandalo divennero talmente colmi che l’Imperatore Enrico III decise di intervenire, premendo per l’abdicazione del Papa e di un antipapa e favorendo l’ascesa di Bernone di Toul, che prese il nome di Leone IX. Nonostante l’ingerenza imperiale, Leone IX apparteneva a quella schiera di Ecclesiastici che, cresciuti all’ombra del chiostro monastico, desideravano una seria e profonda riforma spirituale della Chiesa, perché tornasse ad essere luce per il mondo e ancora di salvezza per l’umanità decaduta.
A questo schieramento “riformatore”, che contava tra i suoi sostenitori san Pier Damiani e il Cardinale Umberto da Silvacandida, ben presto si legò il giovane Ildebrando, che sotto il Papato di Leone IX divenne Suddiacono e venne incaricato di diverse missioni diplomatiche. Alla morte di Leone IX, a meno di trent’anni, Ildebrando aveva già acquisito un prestigio indiscusso all’interno della Chiesa di Roma e anche di fronte agli Imperatori; sotto Papa Niccolò II, in particolare alla sua azione, si devono i buoni rapporti con l’Imperatore, la pacificazione con i normanni e soprattutto il decreto In Coena Domini (1059), col quale l’elezione del Papa veniva riservata ai soli Cardinali della Chiesa di Roma, e veniva così sottratta al potere delle fazioni romane ma anche a quello imperiale.
L’Arcidiacono di Roma Ildebrando era ormai, alla fine degli anni ’50, il “dominus Papae”, come lo definiva san Pier Damiani, cioè signore dello stesso Papa. Proprio alla morte di Papa Niccolò II, Ildebrando dovette per la prima volta affrontare direttamente il potere imperiale: in seguito alla morte del Papa, nel 1061, infatti molti nobili romani, opposti al partito riformatore di Ildebrando anche a causa della loro estromissione dalla nomina del successore al Soglio Pontificio, diedero vita a tumulti nella città per impedire l’elezione e inviarono una legazione in Germania per conferire il patriziato all’undicenne Imperatore Enrico IV, in modo che egli stesso potesse nominare un Papa a loro gradito. Con l’aiuto dei normanni però i Cardinali poterono riunirsi e venne eletto Anselmo da Baggio, grande compagno di Ildebrando, col nome di Alessandro II; allo stesso tempo però patrizi romani, signori tedeschi e alcuni vescovi di territori imperiali, sotto la copertura dell’Imperatore minorenne, avevano eletto a Papa Cadalo, Vescovo di Parma, col nome di Onorio II, il quale ben presto decise col supporto imperiale di venire a conquistare Roma.
Il nemico giurato di Ildebrando
Proprio qui compare uno dei protagonisti della nostra storia, Cencio, un violento e ambizioso capofazione romano di famiglia ragguardevole che possedeva, tra le altre cose, la Turris Crescentii, attuale Castel Sant’Angelo, e la Turris Sancti Petri, sull’altra riva del fiume, in modo da poter controllare il passaggio del Tevere e soprattutto l’ingresso alla Città leonina, all’incirca l’attuale Città del Vaticano.
Questo Cencio, nei mesi di tumulto successivi all’elezione di Alessandro II, aveva approfittato della situazione di confusione per uccidere il suo padrino, «senza alcuna ragione», come ci riferiscono le fonti. Per questo, su intervento dello stesso Ildebrando, Alessandro II nel 1061 lo aveva scomunicato con, in aggiunta, l’interdizione a ricevere uffici pubblici: se il primo punto forse non toccava molto l’anima di questo “malefactorum omnium primicerium” (primicerio, ovvero capo, di tutte le malefatte), il secondo ne comprometteva l’ambiziosa voglia di arricchirsi e l’arrogante ricerca del potere. Per questo motivo Cencio si buttò a capofitto nella questione della successione papale: si recò in Germania dove offrì i suoi servigi a Onorio II, mettendogli a disposizione le sue armi, le sue truppe e, soprattutto, l’ospitalità nelle sue torri, strategicamente assai importanti.
Nei due assalti che Onorio II provò a dare alla Città Santa (1062-’63), arrivando in un’occasione a occupare l’intera Città leonina con la Basilica di san Pietro, Cencio, con spregiudicatezza, partecipò attivamente a tali battaglie anche se, una volta che, a causa dell’abbandono dell’imperatore, all’antipapa risultò chiara l’impossibilità di avere successo, Cencio decise di non lasciarlo ritirare ma di prenderlo in ostaggio finché non avesse restituito le spese che si era sobbarcato per questa guerra.
Ecco però che cambiato vento, con la definitiva rinuncia di Onorio II, anche Cencio, alla costante ricerca di coperture e vantaggi politici, scoprì in realtà di essere un fervoroso sostenitore di Papa Alessandro e del monaco Ildebrando. Tanto è vero che il suo nome compare nelle cronache riguardo l’“insurrezione” pacifica con cui il popolo romano, alla morte di Alessandro II, volle, proprio durante il funerale del Papa, pacificamente impedire il voto dei Cardinali per nominare a furor di popolo Ildebrando alla carica di Sommo Pontefice, con il nome di Gregorio VII (1073), al quale Cencio promise immediatamente obbedienza con un giuramento.
Cencio contro Gregorio VII
Il fedele servitore Cencio però, mai pago, non seppe preservare il suo giuramento dalla brama di ricchezze e di potere: furti a danno della Chiesa e vessazioni verso i Romani, costrinsero le autorità a condannarlo a morte, e solo l’intervento di Gregorio VII (su richiesta forse di Matilde di Canossa) gli salvò la vita, costringendolo però ad un nuovo umiliante giuramento e a veder abbattuta una delle sue torri sul Tevere. Davanti alla certezza che dal Papa non avrebbe potuto trarre alcun vantaggio per le sue tasche, il pur sempre influente Cencio si gettò nuovamente nel partito avverso, approfittando delle forti tensioni causate dalla nomina imperiale di vari Vescovi italiani, tra i quali quello di Milano, in aperto contrasto con le ultime decisioni papali (1075).
Il Cencio immediatamente rimise in moto la sua macchina diplomatica e riuscì ad avere contatti con le fazioni imperiali, con i Vescovi legati all’Imperatore, come Guiberto di Ravenna, e con i normanni, allora scomunicati dal Papa per le loro conquiste territoriali ai danni della Chiesa: il Cencio, ben sicuro di sé e privo di ogni scrupolo, promise a tutti questi di consegnar loro il Papa prigioniero o addirittura morto, forse per riceverne in cambio un effettivo potere su Roma (con la carica di prefetto dell’Urbe alla quale da sempre ambiva) oppure per mera cieca e sanguinaria vendetta contro l’intransigente Pontefice.
Non sappiamo se l’azione di Cencio avesse ricevuto realmente una qualche approvazione dall’Imperatore o da qualche Vescovo, fatto sta che il malfattore si sentì incaricato di questa missione speciale e non tardò a congegnarla, anche se dallo svolgimento si deduce come la furia cieca della sua ira spesso non prevedeva piani ben stabiliti ma piuttosto sortite prive di pianificazione.
L’attentato di Natale
Era tradizione antica, almeno sin dal 336, quando sappiamo certamente che il Santo Natale compare nel calendario romano, che le funzioni pontificali natalizie seguissero questo svolgimento: si iniziava con la Santa Messa della notte in Santa Maria Maggiore (allora chiamata Santa Maria ad nivem), per poi spostarsi a piedi con tutto il popolo presso la chiesa di Sant’Anastasia, dove si celebrava quella dell’aurora, e infine giungere a San Pietro, dove il Papa concludeva le celebrazioni natalizie con la Santa Messa del giorno.
Particolarmente significativa è la prima tappa in quanto Santa Maria Maggiore, la prima chiesa dedicata alla Madonna in Occidente, non è solo per questo motivo una significativa immagine del Grembo verginale da cui nacque Gesù Bambino, ma, custodendo sin dal IV-VII secolo le reliquie della mangiatoia di Betlemme, è veramente una Basilica natalizia, nella quale il mistero della Natività rifulge in tutto il suo splendore: Santa Maria Maggiore è la nuova stalla di Betlemme nel quale il Santo Padre, ogni anno, ricorda l’avvenimento di quella antica Notte nella quale ebbe la sua umile origine la somma opera dell’Incarnazione e Redenzione.
Ecco che anche in quell’anno 1075 il santo Pontefice Gregorio VII non trasgredì la consueta usanza e, nel culmine della notte, si recò a celebrare il Santo Sacrificio sopra le sacre reliquie della Natività alla presenza del popolo romano. La commovente cerimonia, giunta al momento della distribuzione della Comunione, venne però interrotta dal vile Cencio, violento profanatore della notte in cui la pace e l’amore brillarono sopra la stalla di Betlemme, che con un gruppo di sgherri armati si recò all’altare e strappando con violenza le Sacre Specie al Santo Padre, lo spogliò dei paramenti e lo caricò a dorso di cavallo, rapendolo davanti alla schiera di tutti i suoi fedeli per portarlo come prigioniero in una delle sue torri. Le scene dei Pontefici martiri dell’epoca pagana si rinnovavano nella cristianissima sede del Cattolicesimo, lasciando sbalorditi i fedeli che mai si sarebbero aspettati un tale affronto al Vicario di Cristo proprio durante il Santo Sacrificio dell’altare.
Non conosciamo precisamente se l’azione di Cencio avesse un piano oppure no, fatto sta che egli non si era affatto aspettato una reazione così decisa da parte del popolo romano: i fedeli cattolici, appena visto il fattaccio, immediatamente si mobilitarono facendo chiudere le porte della città per impedire la fuga al rapitore. Poi, radunatosi al Campidoglio, il popolo romano, all’unanimità, decise di recarsi a liberare con la forza il suo amato Gregorio VII e, conosciuto il luogo dove era tenuto rinchiuso, non tardò a recarsi in massa a minacciare lo sciagurato rapitore. I buoni Cattolici di Roma non temettero la difesa armata della torre di Cencio nel quartiere Parione, ma rispondendo a colpi con altri colpi, assediarono manu armata l’improvvisato carcere del Pontefice. Messo alle strette e senza alcuna possibilità di fuga, Cencio prima tentò di estorcere denaro a Gregorio VII e poi, davanti alla strenua resistenza di questi, decise di fingere un pentimento quanto mai interessato.
Nel frattempo il buon popolo romano irruppe nel fortilizio e immediatamente si mise alla ricerca del ben conosciuto Cencio: scovatolo in mezzo ai suoi armati avrebbe voluto portarlo al giudizio perché venisse condannato a morte (come sarebbe sicuramente avvenuto) sennonché lo stesso Gregorio VII, col corpo livido dalle botte ricevute e le vesti imbrattate dal sangue perso a causa dei maltrattamenti, con il suo mantello coprì Cencio in ginocchio.
Il gesto del Sommo Pontefice ebbe un’eloquenza ben compresa dal popolo: nonostante tutto quello che era successo nelle ultime ore, Gregorio VII perdonava a Cencio tutte le sue malefatte e gli rendeva la grazia della vita e della libertà, in nome di quel Bambinello misericordioso che proprio in quella Notte santa veniva nuovamente a calcare la terra insudiciata dai nostri peccati. A quel punto, sedato il violento tentativo della soldataglia di Cencio, con tutta tranquillità e serenità Gregorio VII seguito dal popolo romano ritornò con passo veloce e solenne alla Basilica di Santa Maria Maggiore per concludere la funzione natalizia e continuare a dirigere le lodi dell’Urbe verso la culla che accoglieva il Redentore.
La Notte di Natale è capace anche di regalarci queste sorprese e queste storie meravigliose, anche se purtroppo la nostra storia non terminò del tutto con un lieto fine: se per Gregorio VII quest’avventura non fu che la prima di una serie di sofferenze da patire per la Chiesa e per il nome di Cristo, Cencio, fuggito immediatamente da Roma, non cambiò la sua vita anzi, alleatosi nuovamente all’Imperatore tedesco, continuò da fuori le mura della città a minacciare la libertà della Chiesa e la tranquillità del popolo romano, per morire due anni dopo poi di un tumore alla gola. Nonostante Cristo, Vita e Luce, fosse venuto in quella notte anche per Cencio, «tenebrae eam non comprehenderunt», le tenebre non l’accolsero (Gv 1,5).