Non solo le battaglie spirituali si vincono con la grazia divina: la storia conosce battaglie concrete, materiali, vinte per l’intercessione della Vergine Santissima, che perciò ha meritato il titolo di “Regina delle Vittorie”. Così fu a Lepanto, così a Vienna...
La Madonna è stata adornata del titolo di Regina delle Vittorie perché nel XVI secolo fu attribuita a Lei, alla sua potente intercessione, alla forza travolgente del Santo Rosario pregato con fede, la Vittoria nello storico scontro navale che si svolse il 7 ottobre del 1571 tra le flotte musulmane dell’Impero ottomano e quelle cristiane della Lega Santa a Lepanto (vicino alle Echinadi, l’arcipelago situato a poca distanza dalla costa continentale greca).
In effetti nel 1500 c’era un clima di lotta generalizzata per il dominio dell’Africa del Nord e per il controllo del Mediterraneo. Da una parte il crescente espansionismo ottomano preoccupava l’Occidente, dall’altra la potenza navale e commerciale di Venezia non ammetteva ostacoli e concorrenti, ma veniva continuamente minacciata nelle sue colonie di Cipro e nei suoi possedimenti sulle coste occidentali del Mare Nostrum. Il papa Pio V (lo stesso che perfezionò la liturgia della Santa Messa “vetus ordo”) [1] dopo la presa di Famagosta eroicamente difesa dal veneziano Marcantonio Bragadin (il quale dopo la resa fu scuoiato vivo dai Turchi!), sospinto anche da tali orrori, decise che fosse arrivato il momento di opporsi all’avanzata ottomana formando una Lega Santa che riunisse le forze navali della Repubblica di Venezia, dell’Impero spagnolo (Regno di Napoli e di Sicilia), dello Stato Pontificio, della Repubblica di Genova, dei Cavalieri di Malta, del Ducato di Savoia, del Granducato di Toscana confederate sotto il vessillo glorioso delle insegne pontificie.
Prima della partenza alla volta dello Ionio, il Pontefice stesso benedisse lo stendardo raffigurante Gesù Crocifisso tra gli apostoli Pietro e Paolo e sormontato dal motto costantiniano «In hoc signo vinces», insieme con l’Immagine della Madonna e la scritta «Sancta Maria succurre miseris» e li consegnò al principe Don Giovanni d’Austria, ammiraglio supremo della flotta cristiana. Lo scontro si accese violentissimo lungo le coste greche; dopo qualche ora di lotta cruenta le forze ottomane (essendo in superiorità numerica) cominciarono a prevalere. A sostenere i combattenti, i cristiani d’Europa si unirono tutti in una fervida preghiera di intercessione a Gesù Cristo e alla Vergine Maria con la Corona del Santo Rosario ed avvenne qualcosa di umanamente e (forse) scientificamente inspiegabile: il vento fino allora stabile e continuo cambiò repentinamente direzione: le vele dei turchi si afflosciarono e quelle dei cristiani si gonfiarono. Don Giovanni d’Austria puntò fulmineamente diritto contro la “Sultana”, la nave ammiraglia di Alì Pascià su cui sventolava il vessillo verde sul quale era stato scritto 28.900 volte a caratteri d’oro il nome di Allah... Il reggimento di Sardegna diede per primo l’arrembaggio alla nave turca, che divenne il campo di battaglia. Dopo un drammatico scontro all’arma bianca, il comandante in capo ottomano Müezzinzade Alì Pascià, ferito gravemente, cadde combattendo. La nave ammiraglia ottomana fu successivamente abbordata dalle galee toscane Capitana e Grifona [2] e, nonostante il volere contrario di Don Giovanni, il cadavere dell’ammiraglio ottomano Alì Pascià fu decapitato e la sua testa esposta sull’albero maestro dell’ammiraglia spagnola.
La visione del condottiero ottomano decapitato contribuì enormemente a demolire il morale dei turchi. Di lì a poco, infatti, alle quattro del pomeriggio, le navi ottomane rimaste abbandonavano il campo, ritirandosi definitivamente. Il teatro della battaglia si presentava come uno spettacolo apocalittico: relitti in fiamme, galee ricoperte di sangue, morti o uomini agonizzanti. Erano trascorse quasi cinque ore quando infine la battaglia ebbe termine con la vittoria cristiana.
Lepanto è stata definita «l’ultima grande battaglia navale della storia, un evento epico anche nei numeri: 150.000 uomini imbarcati, 400 navi, milioni di scudi spesi e 30.000 morti!... La vittoria fu attribuita all’intercessione della Vergine Maria, tanto che papa Pio V nel 1572 istituì la festa di Santa Maria della Vittoria, successivamente trasformata nella festa del Santissimo Rosario, per celebrare l’anniversario della storica vittoria ottenuta per intercessione dell’augusta Madre del Salvatore, Maria».
Qualcosa di analogo avvenne circa cento anni dopo, sul Monte Calvo, alle porte di Vienna, tra l’11 e il 12 settembre 1683 quando uno scontro armato pose fine a due mesi di assedio posto dall’esercito turco alla capitale austriaca. Questa battaglia campale fu combattuta dall’esercito polacco-austro-tedesco comandato dal re polacco Giovanni III Sobieski contro l’esercito dell’Impero ottomano comandato dal Gran Visir Merzifonlu Kara Mustafa Pasha (che per la sua crudeltà era detto “il Nero”...), e costituì l’atto finale della guerra contro i Turchi, conclusasi definitivamente con la firma del Trattato di Karlowitz. Tutto cominciò con l’assedio di Vienna che fu iniziato il 14 luglio 1683 dall’esercito dell’Impero ottomano forte di circa 140.000 uomini contro le forze europee che contavano in tutto su 75-80.000 uomini. Dunque anche in questo caso – come si dice “sulla carta” – eravamo soccombenti. L’assedio ovviamente fu durissimo e spietato: malattie, fame e morte decimavano la popolazione ogni giorno di più. Ormai il destino de “la mela d’oro” (così i Turchi chiamavano Vienna) sembrava segnato. I comandanti in campo aspettavano solo di penetrarvi dalla porta principale o da una breccia praticata nelle mura. La loro sicumera e tracotanza era arrivata al punto tale che discutevano animatamente se fosse stato meglio saccheggiarla subito, passando a fil di spada gli abitanti stremati dall’assedio, oppure occuparla, senza distruggerla, lasciando una nutrita guarnigione per il suo controllo. Si compiva così il sogno strategico ottomano di annettere l’Austria orientale al loro Impero: ma non avevano fatto i conti con l’Immacolata!
All’esterno il Duca Carlo V di Lorena al comando di 18.500 tra austriaci e italiani (toscani, veneziani e mantovani), compiva numerose incursioni e movimenti in appoggio alla capitale disturbando i rifornimenti ottomani. Kara Mustafa quindi diede ordine di procedere all’abbattimento della cinta di fortificazione con delle cariche esplosive e ingiunse alle sue truppe di prepararsi all’assalto finale. In previsione di una imminente apertura di una breccia, i viennesi si prepararono al combattimento strada per strada pronti a morire martirizzati, vendendo cara la pelle. Gli storici sostengono che, a questo punto, Kara Mustafa commise un gravissimo errore, già notato dai giannizzeri (le sue truppe scelte) e dai suoi generali, e cioè quello di non fortificare il campo d’assedio con bastioni e muraglioni di terra e legno per respingere un’eventuale sortita degli assediati. Il gran Visir riteneva infatti che non era conveniente sottrarre i genieri impegnati alla costruzione di trincee d’attacco per rafforzare la difesa dell’accampamento.
Nel frattempo Sobieski varcò il Danubio (il 6 settembre) su un ponte di barche costruito a tempo di record dagli imperiali a Tulln, 30 km da Vienna, e si mise al comando di una formidabile armata che si era riunita sotto il vessillo cristiano. La battaglia decisiva si accese l’11 settembre (guarda caso anche allora fu una data fatidica!), all’alba, subito dopo la Messa celebrata dal Beato Marco d’Aviano [3]. Padre Marco celebrò la Santa Messa nel campo allestito sul Kahlenberg (Monte Calvo), la collina che sovrasta Vienna. Al suo fianco sull’altare c’erano Giovanni III e Carlo V di Lorena. Terminato il rito, il frate tenne uno dei suoi più fervidi «sermoni in quel misto di italiano, latino e tedesco, caratteristico delle sue prediche» [4]. Furono proprio i Turchi a dare inizio alle ostilità nel tentativo di interrompere il dispiegamento di forze che la Lega Santa stava approntando. Carlo di Lorena ed i tedeschi respinsero l’attacco.
Come nella Battaglia di Lepanto avvenne anche qui qualcosa di sconcertante: i Turchi non erano affatto dei “pivelli” e l’abile Visir Kara Mustafa aveva fama di condottiero valoroso e molto scaltro eppure inspiegabilmente rinunciò ad ingaggiar battaglia sperando di riuscire a entrare in Vienna in extremis prima dell’arrivo dei rinforzi cristiani. Un errore fatale perché così Sobieski ebbe altro tempo per ultimare il dispiegamento. Nonostante la schiacciante superiorità numerica degli Ottomani le sorti del conflitto si volsero decisamente in favore degli occidentali, e addirittura gli assediati, galvanizzati dall’arrivo dei nostri, attaccavano le file turche. La battaglia cominciò furibonda come e più del previsto. I turchi pagarono subito l’errore di non essersi preparati a difendersi dalle forze provenienti dal Nord, trovandosi di fatto con l’élite dell’esercito (i Giannizzeri) schierati dove non serviva, cioè presso le mura che erano ancora in piedi. Le retroguardie invece erano difese solo da truppe poco preparate. A questo punto Kara Mustafa capì che la battaglia era perduta, ma tentò ostinatamente di prendere Vienna, sfidando la Lega Santa nella vana speranza di infliggerle l’umiliazione e lo smacco di entrare in città proprio mentre la battaglia volgeva a favore dei cristiani. Entrò quindi in gioco la cavalleria polacca, quattro corpi di cavalleria, che si lanciarono all’attacco a passo di carica. L’assalto fu condotto da Sobieski in persona e dai suoi 3.000 Ussari. A seguito di quest’urto poderoso l’esercito turco fu prima scompaginato e poi definitivamente sbaragliato, nel mentre gli assediati aprirono le porte e uscirono a dar manforte ai rinforzi che già inseguivano gli Ottomani in rotta. La disfatta fu talmente scottante che perfino il cronista turco Mehmed, der Silihdar così commentò l’arrivo dell’armata del Sobieski: «Gli infedeli spuntarono sui pendii con le loro divisioni come nuvole di un temporale, ricoperti di un metallo blu. Arrivavano con un’ala di fronte ai valacchi e moldavi addossati ad una riva del Danubio e con l’altra ala fino all’estremità delle divisioni tartare, coprivano il monte ed il piano formando un fronte di combattimento simile ad una falce. Era come se si riversasse un torrente di nera pece che soffoca e brucia tutto ciò che gli si para innanzi» [5].
I turchi persero così circa 15.000 uomini, a fronte dei 2.000 dei cristiani. Ancora una volta, dopo 112 anni, arrivò una vittoria del tutto insperata ma fortemente invocata con la preghiera. Una vittoria di cruciale importanza per la formazione socio-politica dell’Europa che ne ha deciso l’identità religiosa e i confini che attualmente possediamo. Il Papa dell’epoca, il beato Innocenzo XI, decise di estendere alla Chiesa universale la festa liturgica del Nome di Maria, dapprima celebrata solo in alcune regioni. Il Santo Padre era fiducioso e convinto che la liberazione di Vienna, e la disfatta dell’esercito turco fosse stata un evento del tutto prodigioso e fosse stato ottenuto per l’intercessione di Maria, proprio il 12 settembre di quel lontano 1683.
Cosa ci insegna la Storia e la cronaca tumultuosa di questi due titanici scontri, iniziati sotto una prospettiva infausta, che si tramutarono invece in due strepitose Vittorie contro l’Impero ottomano? Forse non molto a giudicare da come guardiamo gli eventi passati e da come affrontiamo quelli presenti. Un’errata ermeneutica del cammino dell’umanità nei secoli ci può costare molto cara e addirittura esserci fatale. Questo gli storici lo sanno bene. Senza voler per forza drammatizzare o esasperare l’attuale quadro geo-politico stabilitosi del Nord dell’Africa (Algeria, Tunisia, Libia, Egitto) o le vicende dell’ISIS (Siria, Iraq, Turchia) nello scacchiere mediorientale, si può affermare che “non c’è niente di nuovo sotto il sole”. Ci risiamo: sono passati secoli ma ce li abbiamo di nuovo alle costole. Il dramma non sta tanto nel mutato quadro strategico internazionale o nel fattore tattico: oggi ci troviamo di fronte a dei guerriglieri, a dei vili attentatori nascosti nel buio, a degli spietati esecutori, più che ad un esercito palesemente e dichiaratamente schierato contro di noi. Però nella sostanza nulla pare che sia mutato. Le intenzioni sono sempre quelle di un tempo: invadere l’Occidente, distruggere la Cristianità, uccidere il Papa, far sventolare la bandiera nera e la mezzaluna sulla sommità del Colle più alto di Roma e perfino convertirci all’islam a suon di scudisciate. I metodi pure non sono cambiati granché: prima tagliavano le teste con la scimitarra, oggi si industriano a farlo con un temperino... Cos’è cambiato allora? Che cos’è che ci rende fragili, imbelli, proni alla sudditanza, per non dire disarmati contro il dilagare dell’apostasia?
La novità vera è purtroppo riscontrabile nel nostro schieramento e tra le nostre fila: non preghiamo più, non crediamo più nel potere della Madonna e del Santo Rosario, non riconosciamo più negli eventi storici il castigo di Dio. Per questo non ci resta ancora molto tempo.
Note
1] Egli curò la pubblicazione del catechismo romano, del breviario romano riformato oltre che del messale romano.
2] Marcella Aglietti, La partecipazione delle galere toscane alla battaglia di Lepanto (1571), in Toscana e Spagna nell’età moderna e contemporanea, ETS, Pisa 1998, pp. 55-146
3] Marco d’Aviano, al secolo Carlo Domenico Cristofori (Villotta di Aviano, 17 novembre 1631 – Vienna, 13 agosto 1699), è stato presbitero, religioso e predicatore italiano al quale si deve il sostegno religioso delle truppe della Lega.
4] Si veda per esempio il testo di Arrigo Petacco: L’ultima crociata: quando gli Ottomani arrivarono alle porte dell’Europa, A. Mondadori Ed., 2007.
5] Mehmed, der Silihdar, così da Richard F. Kreutel, Karamustapha vor Wien. Das türkische Tagebuch der Belagerung (Graz 1955).