Come mostra un bel dipinto nella basilica romana di Santo Spirito in Sassia, il mistero della sofferenza redentrice è più accessibile attraverso la contemplazione della Madre Addolorata: il cui volto è quieto, rassegnato, e quasi segretamente condiscendente.
Il Signore Nostro Gesù Cristo è il Re dei martiri. E lo è per due motivi fondamentali: il primo è che Egli è il Re di tutto, di tutta la Creazione, dell’Universo, del Cielo, della Terra e quindi anche di quei particolari santi che sono i martiri. Il secondo è più sottile e difficile da comprendere. Innanzitutto non c’è sofferenza sulla terra paragonabile a quella patita da Gesù nella sua Passione e Morte: la morte per fuoco o quella per torture, per mutilazioni o di altri tipi non sono nemmeno paragonabili a quella inflitta al Redentore, e i tormenti di tutti i martiri messi insieme non assommano ad un solo quarto d’ora di Agonia di Gesù. Ma la differenza sostanziale tra Lui e gli altri “eroi” del martirio risiede in questo: Nostro Signore non è mai stato in balìa dei suoi aguzzini, nemmeno in punto di morte. Cioè mentre noi uomini arrivati ad un certo punto di travaglio perdiamo il controllo della situazione e non ci resta altro che aspettare la morte liberatrice, per l’Uomo-Dio Crocifisso sarebbe bastato un solo sospiro o un battito di ciglia per far smettere la sua esecuzione. Essendo Onnipotente per Natura divina un solo suo pensiero sarebbe stato sufficiente per annichilire non solo la turpe plebaglia che strepitava irridente ai piedi della Croce ma l’intera Creazione... Egli invece ha sorbito l’amaro Calice senza ribellione, fino alla fine, per salvarci col suo Sacrificio e dimostrarci l’immensità del suo Amore che non conosce limiti e misura. Si comincia così a penetrare l’insondabile Mistero della croce.
Per coloro che si recano a Roma è quasi inevitabile passare davanti alla Basilica di Santa Croce in Gerusalemme nel rione esquilino, a ridosso delle mura aureliane e dell’anfiteatro castrense, un po’ perché è vicina alla Madre di tutte le Chiese: San Giovanni in Laterano, la Cattedrale della Capitale, un po’ perché funge da crocevia per tutto il traffico che si dipana caotico da e per il centro storico. Se si entra al suo interno si rimane sbigottiti per la ricchezza dei suoi arredi ma soprattutto perché contiene delle straordinarie reliquie: frammenti della Santa Croce tutta tarlata e consumata dai secoli, le Spine della Corona (terribili!), uno dei chiodi che ha squarciato i polsi e i piedi santi del Redentore, la truce iscrizione della sommità vergata a mano da Ponzio Pilato: “Questi è il Re dei Giudei”. Scritta in quattro lingue diverse. Incredibile! La grande sant’Elena madre dell’imperatore Costantino, fece erigere la prima chiesa nel luogo del palazzo imperiale, attorno al 320 d.C. e fu proprio lei a portare a Roma le sante reliquie (la reliquia più famosa, quella che dà il nome alla chiesa, fu rinvenuta, secondo la Tradizione, sul Calvario a Gerusalemme assieme al Titulus Crucis, ma non è la sola: c’è anche il dito di san Tommaso, l’Apostolo che dubitava della Risurrezione di Cristo e una parte della croce del Buon Ladrone).
I visitatori ammirano stupefatti tali reperti che per la loro dignità e importanza sono secondi forse solo alla Sacra Sindone, ma ciò che più li sorprende e li interroga è la grande cura e venerazione con le quali sono custoditi fin dagli albori della cristianità. Perché? Cosa si cela dietro il Mistero della Croce, cosa ci insegna quel pezzo di legno tumefatto dai millenni, quella enigmatica iscrizione, quei conturbanti strumenti di tortura, spiegazzati dal tempo, corrosi dalla ruggine eppur ancor profondamente carichi di “pathos” e di significato?
Prima di abbozzare una risposta o di tentare di dare una spiegazione razionale a ciò che supera la ragione, conviene addentrarci nell’arcano e precisare i lineamenti della nostra ricerca. Proseguendo per le strade e per i vicoli del centro capitolino affollati dai turisti e dai pellegrini, in direzione del colle vaticano, al termine di via dei Penitenzieri, di fronte al borgo Santo Spirito si erge la basilica di Santo Spirito in Sassia. Anche qui si rimane colpiti: gli eleganti portali, il campanile di Baccio Pontelli del 1471, il soffitto a cassettoni coperto d’oro, l’abside magnifico...
Questa chiesa il cui nome deriva dalla Schola saxonum (dei sassoni), venne edificata da papa Leone IV che la consacrò come la Chiesa a Sancta Dei Genitrix (con l’aggiunta in Sassia). Dopo il 1066, quando con la battaglia di Hastings i Normanni sconfissero i Sassoni, l’afflusso dei pellegrini sassoni si ridusse insieme con le offerte. L’intera Scola saxonum incominciò a degradarsi.
Successivamente il papa Innocenzo III (1198-1216) riedificò l’intera Scola nel 1198. Alla costruzione lavorarono architetti come Guidetto Guidetti e Antonio da Sangallo. La struttura si erge su un alto basamento al culmine di una scalinata, opera questa riferita al Mascherino. La parte interna è ornata da forme rinascimentali non fastose ma solenni. Quando è vuota (cosa che accade di rado) la Basilica induce il fedele ad un’assorta meditazione: presenta una unica navata, un ampio presbiterio e cinque cappelle ciascuna con il proprio abside, molto raccolte, separate da transetti. Il soffitto di legno composto di lacunari fu ricoperto d’oro nel 1582. Sia a destra che a sinistra spiccano mirabili opere d’arte che rendono questa chiesa quasi un museo del linguaggio manierista romano: di Antonino Calcagnadoro il dipinto la “Discesa dello Spirito Santo”. Ai lati del dipinto centrale sono collocati due angeli di Cesare Conti del 1590; suoi sono anche i dipinti di San Pietro e San Paolo sui pennacchi e le sibille ai lati dell’occhialone. Sulla parte destra dell’ingresso è rappresentata la Visitazione di Santa Elisabetta di Marco Pino del 1545 e, sul lato opposto, la conversione di San Paolo di Pedro Rubiales. Dalla parte opposta, nell’abside, vi è l’importante dipinto della Pentecoste di Jacopo Zucchi del 15831. Il sottarco è decorato a stucchi e ripropone in chiave ottocentesca i motivi del Cinquecento, epoca alla quale risalgono le figure dei quattro Evangelisti, attribuite a Marcello Venusti. Di particolare importanza è poi la quarta cappella a sinistra dedicata alla Santissima Croce. Riguardo a quest’ultima fu Livio Agresti che eseguì la decorazione pittorica che fu completata nel 1557. L’artista forlivese dipinse ad olio su muro i riquadri del sottarco raffiguranti: Giuditta e Oloferne, la Fenice, l’Uccisione di Abele, il sacrificio di Isacco, il sogno di Giacobbe, Davide e Golia, Santo Stefano e Melchisedec2.
Al di là di tali considerazioni artistiche si resta ammirati dalla terza cappella a sinistra detta “del Crocifisso” il cui catino è ornato di scene della Passione di Cristo: l’incoronazione di spine, Cristo davanti a Pilato, l’andata al Calvario, attribuiti a Pedro Rubiales e datati al 1547. Spicca un quadro posto in primo piano e al livello degli occhi del visitatore – ineludibile, inevitabile – che ritrae la Santissima Vergine Immacolata Maria che stringe tra le mani un orribile chiodo rugginoso, nero ed acuminato: il suo Volto circonfuso di grazia è ritratto in un’espressione di composta sofferenza. I lineamenti non sono tirati, non una ruga, non una lacrima, ma una grande pace traspare dai suoi occhi profondamente tristi, perduti in chissà quali pensieri.
Si affaccia alla mente un quesito analogo a quello suggerito dalla reliquia della Santa Croce: perché questo quadro enigmatico? Quale Mistero nasconde? Come mai l’Addolorata contempla non un fiore o un diadema regale o un libro o un paesaggio campestre, ma un terribile ferro di tortura che ha trapassato le Carni immacolate del Divin Figlio? Perché dal suo sguardo purissimo non traspare contrarietà, ripugnanza o avversione ma solo un senso di quieta rassegnazione, di profonda pace, di segreta condiscendenza perfino? Può l’animo umano superare se stesso, sorpassare la ribelle natura, vincere la repulsione del dolore e immergersi nell’abisso imperscrutabile del Divin Volere, al punto di accettare e perfino amare la Croce? A questo ci spinge la Santa Madre del Cielo. La sua non è una sapienza umana, non segue le leggi della materia o della fisica, di ciò che è corruttibile, terreno, effimero e transeunte. C’è qualcosa di eterno, intangibile, celeste, inalterabile, inafferrabile: è la Sapienza della Croce. La consapevolezza intima sostenuta dalla fede che nelle Mani di Dio quegli orribili strumenti di morte, di tortura e di annichilazione sono stati trasformati miracolosamente in strumenti di Salvezza. Sì, quel chiodo, quella piramide nera di dolore e di sangue – incomprensibile per la mente – che si è infissa nello spazio di Destot di Nostro Signore, la piccola apertura tra i quattro ossicini del polso che gli ha leso il nervo mediano, provocandogli un dolore acutissimo non paragonabile a nessun altro dolore umano, sì quel chiodo che ha torturato per ore il Figlio di Dio prima che fosse ghermito dall’artiglio della Morte, ci ha salvati dalla perdizione eterna.
Gesù «perdonandoci tutti i peccati, annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli [...] lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce» (Col 2,13).
La Chiesa di Santo Spirito in Sassia è il centro di spiritualità della Divina Misericordia ufficialmente istituito dal cardinale Camillo Ruini con decreto del 1994: ebbene non capiremo mai cos’è la Divina Misericordia se non ci fermeremo prima dinanzi a quel quadro di Maria, a quel sottile messaggio che si affaccia sul Mistero della Croce.