Il Triduo pasquale, con la Risurrezione di Gesù, segna la sconfitta della morte, ma è la sconfitta di quella Morte che dona la Vita, e la Risposta all’umana sofferenza e all’apparente perdita del proprio essere e del proprio umano.
Il “paradosso”
Ne L’incredulità di San Tommaso di Giovan Francesco Barbieri, detto il Guercino (1591-1666), opera che si trova nella Sala XII della Pinacoteca Vaticana, il dito dell’apostolo Tommaso va dentro la piaga del Costato di Gesù. Il Maestro non avverte dolore (né potrebbe essere altrimenti), mentre altri due apostoli seguono meravigliati il movimento della mano di Tommaso.
Gli occhi di quest’ultimo manifestano sorpresa, ma, nello stesso tempo, significano bene l’espressione di chi vuol capire, di chi vuol constatare: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (Gv 20,25).
Sappiamo che Gesù non lodò l’incredulità di Tommaso, tutt’altro: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto, crederanno» (Gv 20,29). Sappiamo anche che il Maestro rimproverò Tommaso teneramente: «...non essere più incredulo ma credente!» (Gv 20,27). Non si può però negare il fatto che il Cristianesimo fondi la sua credibilità proprio sulla Risurrezione di Gesù. San Paolo lo dice chiaramente: «Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra predicazione e vana la vostra fede» (1Cor 15,14).
Il Cristianesimo è l’unica religione che fonda la sua credibilità sulla sconfitta della morte. D’altronde, se quel Sepolcro non fosse rimasto vuoto, Gesù sarebbe da ritenersi un buon pensatore, uno che avrebbe, sì, detto cose importanti, ma tutto sommato un filosofo e nulla più. Ciò che ha reso Gesù vero e credibile è l’aver suffragato tutto ciò che ha compiuto in vita con la Risurrezione, con la dissoluzione della morte, vero miracolo-dei-miracoli.
Questo fondare la credibilità sulla sconfitta della morte diviene ancora più significativo se si considera che la Redenzione si realizza principalmente con la morte del Verbo Incarnato. Dalla morte la vita: «In verità in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
Da una parte, la morte genera la vita (la Pasqua non è solo il giorno della Risurrezione ma l’intero Triduo ed è proprio il Venerdì Santo il giorno della “risurrezione spirituale”); dunque dicevamo: da una parte, la morte genera vita; dall’altra, la vita della Verità cristiana è proprio nella sconfitta della morte, perché – come abbiamo già detto – è proprio nella Risurrezione di Cristo che tutto si fonda.
Questo apparente (solo apparente) paradosso fa sì che il Cristianesimo vada a risolvere due questioni fondamentali della vita di ogni uomo.
La prima questione è quella relativa alla sofferenza. La seconda, quella dell’integrità del proprio essere e quindi dell’affezione del proprio umano.
La risposta alla sofferenza
La convinzione secondo cui, dopo il peccato originale, è dalla Croce che viene generata la Vera Vita, rende il Cristianesimo capace di offrire ad ognuno il senso del proprio vivere e del proprio soffrire.
Si sa che la felicità che è data in questa vita non è alternativa alla sofferenza (perché la sofferenza è ineliminabile) ma è alternativa alla disperazione, cioè all’incapacità di dare un senso alla sofferenza.
Ebbene, la fede nella Vita eterna, ma soprattutto il sapere quanto Cristo abbia indicato nella sofferenza il mezzo (misterioso, ma vero) per la salvezza propria ed altrui: «Chi vuol seguirmi, rinneghi se stesso (via purgativa), prenda la sua croce (via illuminativa) e mi segua (via unitiva)» (Mt 16,24), rende il Cristianesimo la religione che, più di ogni altra, persuade su questa grande questione dell’uomo, aiutandolo a capire che se anche non è dato conoscere le singole risposte per ogni umana sofferenza, senz’altro se ne può cogliere la Risposta: che è appunto la Croce su cui fu inchiodato il Verbo Incarnato: «Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,25).
La risposta alla distruzione del proprio essere e del proprio umano
Veniamo adesso all’altra grande questione che viene risolta dall’apparente paradosso cristiano. Ovvero la soluzione del vedere infrangere, con la perdita del proprio corpo, ogni umana integrità, il proprio umano, intendendo per “umano” ciò che l’uomo costruisce di buono nella propria vita, con i propri affetti e con le proprie fatiche.
La risposta a questa questione è proprio nella Risurrezione di Gesù, che è sconfitta vera e completa della morte, sconfitta che avviene non con una ricreazione ma con una restituzione del proprio corpo.
Nel bellissimo canto XIV del Paradiso, Dante vuol dirci proprio questo. Dal verso 61 al verso 66 è scritto: «Tanto mi parver subiti e accorti / e l’uno e l’altro coro a dicer “Amme!” / che ben mostrar disio de’ corpi morti; / forse non pur per lor, ma per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari, / anzi che fosser sempiterne fiamme». Le anime beate rispondono “Amen!” alla spiegazione di Salomone su come si potrà conservare la luminosità dell’anima beata quando ad essa si riunirà il corpo. Esse rispondono con entusiasmo perché hanno desiderio che avvenga al più presto questa riunificazione. E Dante aggiunge: il desiderio forse non è tanto per se stessi, ma per le mamme (sì, per le mamme!), per i padri, per gli altri, che erano stati loro cari, prima di diventare eterni lumi in Cielo.
Insomma, Dante tiene a sottolineare tutta la bellezza della risoluzione; una bellezza che è apertura di affettività e di sensibilità esistenziali: può andar perduto l’abbraccio della mamma o una carezza al proprio figlio?
Il Cristianesimo, con la Risurrezione di Gesù, legittima il desiderio di recuperare tutto l’umano.
Torniamo al Canto XIV del Paradiso. Dunque, da una parte, il giusto desiderio del corpo: che ben mostrar desìo de’ corpi morti; dall’altra, il corpo come maggiore possibilità di restituire e completare l’affezione: forse non pur per lor, ma per le mamme, per li padri e per li altri che fuor cari, anzi che fosser sempiterne fiamme.
Il card. Giacomo Biffi, forzando certamente i concetti, come sa fare molto bene, ma indubbiamente in maniera incisiva, disse in una sua lezione sul Paradiso: «Il Paradiso non è rinunciare ai tortellini o spiritualizzare le lasagne, ma mangiare tutti i giorni tortellini e lasagne senza la paura del colesterolo e della bilancia!». Che significa: il Paradiso cristiano non è né un vuoto, con annullamento dell’individualità, né un vago esistere in una separatezza totale di ciò che si è costruito nella vita terrena, ma il recupero e la sublimazione di tutto l’umano.
E questo soprattutto grazie alla risurrezione dei corpi, che è esito della Risurrezione di Gesù.
Tutto trova risposta in quella Resurrezione e in quel Costato che si fa toccare
Ritorniamo all’opera del Guercino. Fissiamo l’espressione di san Pietro, apostolo che è proprio dietro a Gesù. Il suo sguardo parla agli altri Apostoli, che ancora non riescono a credere, e dice chiaramente di non temere: per ogni ansia c’è una risposta, non c’è problema che non può essere risolto... e la risoluzione è proprio in quel Costato ferito che si fa toccare... in quell’impossibile sconfitta della morte. Sconfitta che è concretamente e carnalmente dinanzi... senza tema di smentita!
Questa opera sembra proprio esprimere un concetto che, da un certo punto di vista, possiamo definire un tratto caratteristico del Cristianesimo; ovvero che la fede non può prescindere da una constatazione. Un desiderio di constatazione che per quanto eccessiva nell’apostolo Tommaso (tanto è vero che fu da Gesù rimproverata) è comunque nell’ordine naturale delle cose.
San Bernardo nell’Epistola 11 scrive: «[...] poiché siamo carnali, Dio fa che il nostro desiderio e il nostro amore comincino dalla carne». E Gesù tiene a dimostrare che la salvezza passa attraverso la sua corporeità. Alcuni suoi miracoli sembrano essere compiuti “magicamente”, ma invece vogliono avere un valore simbolico proprio in questa prospettiva: «[...] gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano. E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effatà” cioè: “Apriti!”. E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente» (Mc 7,32-35). Certamente la saliva di Gesù non è fondamentale per la guarigione, ma serve a far capire come il Signore salva anche attraverso la sua corporeità, la sua Incarnazione.
E anche qui ritorna il recupero e la sublimazione di tutto l’umano. Isaia lo predisse: la Divina Carne, risorta, saprà asciugare le lacrime; quelle lacrime versate per tutto ciò che si credeva irrimediabilmente perduto: «Eliminerà la morte per sempre; il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto...» (Is 25,8).