Il titolo dell’articolo si rifà a quello di un noto scritto dello stimato autore inglese G. K. Chesterton, dal quale traiamo spunti per interessanti riflessioni. L’Autore parla del vincolo matrimoniale come un “voto” e si domanda: «Un uomo dovrebbe infrangere una promessa?».
Con questo titolo: “La superstizione del divorzio” (rinvenibile in italiano: Edizioni San Paolo, a cura di Pietro Federico), Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) lasciava alle stampe nel 1920 una serie di riflessioni iniziate con la pubblicazione di cinque articoli sul giornale New Witness in merito alla controversia sul divorzio in quegli anni in Inghilterra. Va precisato che, secondo le indicazioni dello stesso Scrittore londinese riportate nella Conclusione, si trattava di un pamphlet ed auspicava, come destino dei libelli polemici sorti per precisare e dirimere circoscritte seppur assai rilevanti questioni, fosse destinato a diventare il prima possibile obsoleto, legato quindi a problemi passeggeri. Così evidentemente, nonostante gli auspici, non fu. Chesterton scelse proprio quel termine – superstizione – solitamente attribuibile a gesti scaramantici spesso irrazionali, per anteporlo alla profonda e vasta ragionevolezza del Matrimonio tra un uomo e una donna: «L’amore di un uomo e di una donna non è un’istituzione che possa essere abolita, o un contratto da potersi rescindere. È qualcosa di più antico di tutte le istituzioni e di tutti i contratti, e che certamente sopravvivrà loro».
Sorprendentemente, a distanza di due anni (1922) dalla sua adesione ufficiale alla Chiesa Cattolica, Chesterton non intendeva affatto argomentare basandosi su temi religiosi ma piuttosto analizzando le ragioni del contendere, sforzandosi di comprendere cosa fosse davvero il Matrimonio: «Ho cominciato chiedendomi cosa sia il matrimonio e siamo ora in condizione di poterci chiedere più chiaramente cosa sia il divorzio». Desiderava in modo schietto e diretto che le indagini fossero condotte in modo approfondito a partire dalla natura, dall’essenza del Matrimonio e lo faceva facendo balenare l’illusorietà del pragmatismo: «Si pensa che cominciare dall’inizio sia davvero poco pratico e produttivo [...] per qualche strana ragione si pensa sia poco pratico aprire il dibattito chiedendosi “cos’è?”».
Lo Scrittore di Beaconsfield osteggiava coloro che avanzavano pretese sulla presunta libertà del divorzio messa a disposizione di tutti e temeva, a ragione, che detti propugnatori non sapessero e non volessero sapere nulla su cosa fosse nella sostanza il Matrimonio: «La prima cosa da dire su questi riformatori è che per loro il matrimonio è un discorso senza capo né coda. Non sanno cosa sia, o cosa significhi; essi non vi danno un’occhiata nemmeno quando vi ci si trovano dentro. Semplicemente si liberano della fatica più vicina [...] non hanno la minima idea di quanto sia vasta l’idea che stanno attaccando». Egli equiparava il triste sforzo di recidere quei sacri vincoli, quei legami naturali ed umani al lavorio dei roditori, metaforicamente espresso con l’istinto animale dei topi: «Non esiste forse peggior consiglio di quello di liberarsi della fatica più vicina [...] sarebbe a dire “rosicchia la prima cosa che ti capita a tiro”. L’uomo, come il topo, tende a scardinare ciò che non comprende e, dato che ha sbattuto contro un ostacolo non importa che questo ostacolo sia il pilastro portante che sostiene il tetto sopra la sua testa [...]. Ci accorgeremo di come la grande massa di uomini e donne moderni, che scrivono e parlano del matrimonio, stiano rosicchiandolo ciecamente come un esercito di topi».
A partire dalla sua grande immaginazione artistica capace di costruire emblematiche metafore come quella dei topi, Chesterton sapeva allargare la ragione e farci intravedere la bellezza del vincolo matrimoniale contro la suggestione ingannevole del divorzio: «I ratti sono sempre pronti ad abbandonare la nave che affonda: esiste una nave [fuor di metafora la famiglia], grande o piccola non fa differenza, che non va abbandonata anche quando si pensa stia affondando». Partendo dall’origine, Chesterton evidenziava il carattere forte della promessa coniugale e stoppava ogni affrettata ed ingiustificata deduzione legata all’emotivismo che squalificasse l’imprudenza di quel voto: «Molti replicheranno immediatamente che è un voto imprudente. Per il momento mi accontenterò di rispondere che tutti i voti sono imprudenti. Non sto difendendo i voti, li sto solo descrivendo». Quello che intendeva mostrare era la natura di quel giuramento e la capacità dell’uomo e della donna di tener fede a quel patto; lo faceva ponendosi questioni fondamentali ancor oggi estremamente attuali: «Un uomo dovrebbe infrangere una promessa? Un uomo dovrebbe farla?». Non erano interrogativi secondari ma basilari che implicavano la spiegazione del giusto concetto di libertà: «La maniera più semplice di porre il quesito è chiedere se essere liberi includa l’essere liberi di legarsi». Chesterton perorava, in quell’arte del paradosso di cui era un eccellente maestro, la libertà di essere liberi di legarsi, di votarsi pienamente e completamente per mantenere fede ad una promessa irrevocabile: «Il punto è che ogni filosofia dell’amore che non dia conto della sua ambizione di stabilità, come delle sue esperienze di fallimento, è destinata a fallire».
Analizzando la storia dei voti, intesi come promesse cui restare fedeli, non poteva non rendere esatto conto di quanto questa tradizione fosse radicata in quelle civiltà, tanto da renderla nota dominante nei costumi, nella fede, nel modo di pensare e di porsi nella società: «Tutta la cultura medievale, che ci ha trasmesso la tradizione del romance [lo spirito romantico, cavalleresco ed eroico] è attraversata dal tema della catena [...] quella società che ci ha tramandato tali festività e tradizioni era pervasa dall’idea del voto [...] ciò che noi chiamiamo cavalleria altro non era che un grande voto [...] tra gli artigiani come tra i piccoli commercianti ritroviamo la stessa vaga eppur vivida presenza di quello spirito che può essere chiamato soltanto voto».
In un capitolo del pamphlet: “La storia del voto”, Chesterton analizzava dal punto di vista storico come fosse stato perduto quello spirito di legarsi a promesse durature che impegnavano la persona stessa a mantenersi leale e fedele, cosa che con l’introduzione del divorzio avrebbe suggellato la definitiva scomparsa: «L’idea, o comunque l’ideale, di ciò che è chiamato voto, è abbastanza ovvia. Essa vuole combinare la stabilità, che è accompagnata dalla finalità, con il rispetto di sé, che può essere accompagnato solo dalla libertà».
Il crollo di questa civiltà dell’onore, del mantener fede alle promesse, prime fra tutte quelle matrimoniali, ricevette un colpo letale da Enrico VIII: «La civiltà dei voti fu distrutta quando Enrico VIII ruppe la promessa matrimoniale [...] I monasteri, costruiti per voto, furono distrutti. Le corporazioni [da ricordare, per inciso, il grido alto e sofferto in difesa delle corporazioni di arti e mestieri contenuto nella Rerum novarum di Leone XIII], reggimenti di volontari, furono disperse. La natura sacramentale del matrimonio fu negata [...] Tutto è cominciato con il divorzio di un re e sta ora finendo in divorzi per un intero regno». Chesterton si chiedeva, ed è imbarazzante riconoscere che a distanza di quasi cento anni avesse colto nel segno, a chi poteva giovare tutto questo? Chi, dall’infrangersi dei voti e dei vincoli determinati dalle promesse che impegnavano le persone, poteva trarne dei benefici? Chi era, in definitiva, il nemico smascherato della famiglia e del Matrimonio e quali erano i suoi veri fini? Chesterton non aveva dubbi, dopo che aveva assistito all’esito della Prima Guerra Mondiale ed all’instaurarsi del comunismo in Russia: «Il capitalismo è in guerra con la famiglia, senza dubbio [...] il capitalismo desidera che le sue vittime siano individui o, in altre parole, atomi [...] I maestri della plutocrazia moderna sanno il fatto loro. Un istinto radicato e ben preciso li ha spinti a individuare nella famiglia l’ostacolo principale al loro progresso disumano. Senza la famiglia siamo indifesi di fronte allo Stato».
Ora che sono crollati altrettanti disumani ed efferati sistemi ideologici (comunismo, nazismo), il solo che conserva il vero volto brutale è esattamente quello additato da Chesterton, quel capitalismo che s’avvantaggia sempre dell’atomizzazione individualistica e spinge nella specializzazione e nella competitività, nel perseguire divorzi a catena, cuori infranti, divisioni e contraddizioni. Cosa fare dinanzi ad una battaglia feroce che ci vede coinvolti tutti nella sopravvivenza fisica e spirituale? Chesterton invitava a considerare il ruolo determinante della famiglia, visto come un piccolo stato da difendere ad oltranza contro i distruttori dell’ordine, contro i superstiziosi fautori del divorzio: «Il piccolo stato fondato sui due sessi è allo stesso tempo il più volontario e il più naturale degli stati autonomi [...] il ponte antico lanciato tra le torri dei due sessi sia la più degna delle grandi opere della terra [...] altrimenti lungo il freddo e triste corridoio del progresso (con il suo bel pavimento smaltato), le porte della morte e del divorzio saranno le sole a rimanere aperte, anzi a spalancarsi sempre di più».
In un’epoca, come la nostra, dove si sono inanellate sconfitte storiche sulle battaglie perdute del divorzio e dell’aborto e che dinanzi alle sfide odierne di altri cortocircuiti del pensiero che producono aberrazioni umane sconvolgenti, basti pensare alla sola ideologia del gender, questo testo rimane sconvolgente nei principi di fondo e nelle conseguenze etiche. Alto e vibrante rimanga il monito conclusivo di Chesterton, a rafforzare innanzitutto la nostra mente, a riscaldare il nostro cuore nella difesa della famiglia, del voto e della vita: «Le leggi fondamentali degli uomini si trovano nei valori assoluti della vita, quei valori comuni a tutti i tempi e a tutti i luoghi [...] è forse in questo senso che dobbiamo riflettere, con timore e gravità, sul futuro del nostro paese».