Il comune denominatore della spinta creativa di ogni artista è, a ben vedere, il desiderio di attingere all’Infinito, all’Eterno: un nascosto tentativo di raggiungere e conoscere Dio. Non è un caso che i temi più universali nell’arte siano quelli più estremi dell’Amore e della Morte.
Chiunque si sia trovato davanti ad un affresco o ad un quadro del Caravaggio (Michelangelo Merisi) rimane sbigottito per il realismo delle immagini e delle figure, al punto tale che sembra di trovarsi di fronte ad un’immensa fotografia nella quale si colgono non soltanto le istantanee dei corpi fissati in plastiche posture, ma vi si leggono anche le passioni, i travagli, che agitano gli spiriti dei personaggi raffigurati, quasi sempre avvolti da luci violente che squarciano le tenebre, contornati da arcane ambientazioni che fanno da sfondo. La Conversione di san Paolo, La Crocifissione di san Pietro, la Chiamata di Levi... sono capolavori immortali che hanno segnato la Storia dell’arte pittorica. Analogamente nella musica quanti apprezzano l’opera di Beethoven o quella di Mozart, quanti si perdono nei notturni di Chopin, o nelle armonie di Grieg, trovano che vi sia qualcosa di universale, di misterioso, di metafisico, perfino, per cui queste opere che attingono alle note più profonde e sensibili dell’animo umano si trasformano da prodotto “artigianale” del singolo artista a patrimonio comune ed inestimabile dell’umanità. La stessa cosa si potrebbe dire della poesia cominciando dalla drammaticità e dall’afflato universale della Divina Commedia, risalendo fino all’opera allegorica di Petrarca, quella epica dell’Ariosto, passando per Ugo Foscolo poi per il pessimismo di Giacomo Leopardi, per arrivare infine alla stringata e dolente lirica di Ungaretti, Quasimodo, Montale, Saba e tanti altri. Anche nella poesia – in quella vera, ovviamente – v’è qualcosa di inconscio, di accomunante, di intracoscienziale per cui un capolavoro è un capolavoro e basta. Ben difficilmente si può trovare qualcuno che dissenta, che non sia d’accordo e che disprezzi ciò che gli altri esaltano.
Cos’hanno in comune le attività degli artisti figurativi, della musica, della parola, dell’architettura, del cinema o della “computer art”, perfino, se riguardiamo alle forme più moderne ed avanzate d’arte? Ebbene il comune denominatore, ciò che “spinge” l’artista a creare, ciò che informa la sua produzione è senz’altro il desiderio di attingere all’Infinito, di trovare nell’ordinario qualcosa che trascende l’ordinario, di scandagliare le soglie del Tempo fino a trovare ciò che è Eterno.
In definitiva la “molla”, il “motore”, la pulsione di ogni attività creativa non soltanto artistica ma – potremmo ben dire – qualsiasi attività intrinsecamente umana è il desiderio di Dio, di conoscere Dio, di trovare Dio nella Creazione seguendo le sue labili tracce disseminate come gemme preziose nell’arida quotidianità del mondo. Questa è la sfida dell’Animo umano: non ci rassegniamo alla perdita della familiarità col Creatore che abbiamo dissipato col peccato originale. È come se il nostro cuore fosse rimasto lì, nel paradiso terrestre, a sperare di rincontrarLo, ad implorare il Suo perdono. È come se una parte di noi stessi, la più nobile, non si sia mai rassegnata al buio e al silenzio di una terra devastata dal peccato, intrisa di dolore, pervasa dalla caducità e schiava della morte. «Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (Sap 3,23). Che tragico destino quello umano: avere nel cuore il seme dell’Infinito e non poterlo raggiungere se non a prezzo della Morte. Ecco che i temi universali dell’Amore e della Morte si intrecciano, si dissolvono l’uno nell’altro, si combattono, si respingono, si riuniscono in una danza senza fine. Nell’arte, nella letteratura, ovunque.
William Shakespeare ha magistralmente delineato in Romeo e Giulietta – peraltro uno dei capolavori indiscussi della letteratura di tutti i tempi – questo conflitto insanabile, questa febbre corrosiva, il tormento di due giovani sposi che, consapevoli di non poter attingere alla coppa dell’amore alla quale aspiravano ardentemente ma che il mondo negava loro si sono lasciati scivolare nel sonno della morte. Nell’altra vita avrebbero coronato il loro sogno innocente d’Amore. Non sfugge l’allegoria con la condizione umana che si dibatte diuturnamente tra le concupiscenze di una natura corruttibile e i desideri elevati dello Spirito che anelano verso le realtà più rarefatte. Bene afferma l’Apostolo delle genti: «Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm 7,21).
E così la nostra vita si consuma alternando slanci e disillusioni, desideri e delusioni, vittorie e sconfitte alla continua ricerca di un Amore che sulla terra non esiste ma che ci aspetta nei Cieli. Bramiamo la felicità ma non riusciamo ad ottenerla. La ricerchiamo inutilmente nelle creature ed immancabilmente mastichiamo fiele. Alziamo gli occhi nel buio della notte e il nostro sguardo si perde nel brulichio di miriadi di stelle lontane e di migliaia di mondi sconosciuti... non si vede la fine, è un abisso incolmabile, un Universo immenso che annebbia la vista e smarrisce il pensiero: l’Infinito! Come sarà Dio Infinito? Giacomo Leopardi ben descrisse quest’intimo tormento:
«Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo; ove per poco / il cor non si spaura. E come il vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando: e mi sovvien l’eterno, / e le morte stagioni, e la presente / e viva, e il suon di lei. Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: / e il naufragar m’è dolce in questo mare» (L’Infinito).
L’Immacolata Madre tenerissima ci assiste in questo travaglio intellettuale e spirituale, ci accompagna come una Mamma che conduce i suoi piccoli al Padre che ora è lontano. Ci consola, ci capisce, ci perdona se in questa ricerca spasmodica del tempo perduto commettiamo errori e mancanze. Ha uno sguardo compassionevole e comprende le nostre miserie. Ha ragione sant’Agostino: «Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te». Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te (Confessioni 1, 1, 1).