RELIGIONE
L’esperienza della Verna: tra luci e ombre, il sangue e la gloria
dal Numero 34 del 15 settembre 2024
di Mario Caldararo

Per entrare nel mistero della festa dell’Impressione delle stimmate di san Francesco contempliamo questo momento solenne nel dipinto di Gentile da Fabriano, in cui tutto è investito dalla luce che proviene dal Serafino in cielo, e accostiamo quest’opera artistica alla lettura di un inno della liturgia di questa solenne celebrazione.

San Francesco, uomo “novello”, e dopo di lui l’Ordine dei Minori, ha rappresentato uno snodo fondamentale della storia del Medioevo che ha toccato molti aspetti della cultura e della civiltà. Certamente l’esperienza e la predicazione di san Francesco segnano una rivoluzione irreversibile nella storia dell’arte: dopo di lui non si può più fare arte come fino ad allora, e Giotto raccoglie tutta la portata immensa della predicazione del Poverello trasformando il suo Cristocentrismo radicale in colori e forme, ma soprattutto in gesti, emozioni, volti in estasi, addolorati, sorridenti, piangenti, sereni e sofferenti: è la grande rivoluzione dell’umanità e delle emozioni, insomma dell’Incarnazione, mistero che se già molto ben chiaro nella teologia, non aveva ancora avuto un riscontro nell’arte.
Scegliere un’opera adatta a prepararci alla festa dell’Impressione delle stimmate di san Francesco è stata impresa non facilissima, perché l’evento ha colpito la fantasia di molti artisti, che in ottocento anni di storia lo hanno rappresentato in molte e diverse forme, puntando l’attenzione di volta in volta su aspetti ed elementi diversi di quest’evento, ma per poter seguire un percorso di catechesi con l’arte prendiamo in considerazione due sole opere che appartengono a secoli diversi e raffigurano tempi diversi dell’unica storia. 


L’opera che decidiamo di leggere insieme è stata eseguita nel 1420 circa da Gentile da Fabriano, al secolo Gentile di Niccolò di Giovanni di Massio, come lato posteriore di un gonfalone che nel recto raffigurava l’incoronazione di Maria, oggi purtroppo conservata al “Getty Center” di Los Angeles, al contrario del dipinto di san Francesco conservato, dopo molte e varie traversie, nella Fondazione Magnani-Rocca di Mamiano di Traversetolo (Parma). 
Il dipinto, di non notevoli dimensioni, 87x64 cm, è eseguito a tempera su tavola su committenza della confraternita che aveva sede nel convento di San Francesco della stessa città natale dell’artista, Fabriano, e pensiamo che egli, per la sua città, abbia voluto dare il meglio. L’impostazione della tavola è molto semplice e tipicamente giottesca tanto da richiamare in modo forte le diverse opere nelle quali Giotto raffigura la stessa scena, nonostante Gentile sia vissuto due secoli dopo e sia stato uno dei più alti esponenti del gotico internazionale. Accosteremo alla lettura artistica le strofe dell’inno Crucis Christi, proprio della liturgia dell’Impressione delle stimmate, la cui melodia è la stessa dell’inno Crux fidelis, scritto da Venanzio Fortunato nel 570 e cantato nella liturgia del Venerdì Santo, del tempo di Passione e delle feste della Santa Croce, a sottolineare anche con un richiamo musicale il legame tra Christus e alter Christus, e già solo l’inno potrebbe essere un commento fruttuoso all’opera.
Lo riportiamo in traduzione.

Il Monte della Verna / rivive i misteri della Croce di Cristo / là dove vengono elargiti / gli stessi privilegi che donano la salvezza eterna, / mentre Francesco volge / tutta la sua attenzione alla lucerna che è la Croce.

Tre quarti della tavola sono riempiti dall’imponente massiccio della Verna, il “crudo sasso intra Tevere ed Arno” raccontato da Dante, decorato con file di alberelli che rispecchiano tutto il gusto gotico del lavorare fogliolina per fogliolina, stelo d’erba per stelo d’erba. Sulla destra, invece, una cappelletta con tetto a spiovente rivestito di tegole e decorata in facciata da un rosoncino spiralato e dal dipinto di un’Annunciazione. San Francesco giunge su questo monte, donatogli da Orlando conte di Chiusi della Verna, nelle foreste del Casentino, per vivere la Quaresima di preghiera e digiuno in onore e preparazione alla festa dell’arcangelo san Michele, del quale san Francesco era devotissimo. Secondo la leggenda, le ampie fenditure del monte si erano create durante il terremoto seguito allo spirare di Cristo.

Su questo monte l’uomo di Dio, / in una caverna solitaria, / povero, separato dal mondo, / moltiplica i digiuni. / Nelle veglie notturne, pur nudo, è tutto ardente, / e si scioglie in lacrime con frequenza. // Recluso con sé solo, dunque, prega, / con la mente si innalza, / piange meditando le sofferenze della Croce. / È trapassato dalla compassione: / implorando i frutti stessi della croce / nella sua anima si va consumando.

In primo piano sulla sinistra vediamo san Francesco che, genuflesso alla visione che gli si mostra, alza lo sguardo e si volge all’apparizione. Gli occhi socchiusi del Santo e le rughe di espressione sulla fronte e la bocca che sembra si stia aprendo alla meraviglia, lasciano trasudare il dolore e l’amore e lo sforzo fisico dell’esperienza mistica della stimmatizzazione che non è solo spirituale, ma fortemente “incarnata”. Interessante è quello che san Bonaventura dice, cioè che “a quella vista si stupì fortemente, mentre gioia e tristezza gli inondavano il cuore”. Sulla sinistra invece, in piccolo, vediamo frate Leone che, attratto da lontano dalla luce che si sprigiona dal monte, mette la mano davanti agli occhi per vederci meglio e per ripararsi da quella luce. Sempre san Bonaventura nella Leggenda Maggiore racconta che «l’ardore serafico del desiderio, dunque, lo rapiva in Dio e un tenero sentimento di compassione lo trasformava in Colui che volle, per eccesso di carità, essere crocifisso».

A lui viene il Re dal cielo / in forma di Serafino, / nascosto dal velo delle sei ali / con volto pieno di pace: / è confitto al legno di una Croce. / Miracolo degno di stupore. // Il servo vede il Redentore, / 
l’impassibile che soffre, / la luce e splendore del Padre, / così pio, così umile: / e ascolta parole di un tale tenore / che un uomo non può proferire.

Nella fenditura disegnata sull’oro fra il monte e la cappella, quella fenditura che si insinua fino al basso del dipinto e spacca la roccia separando e consacrando, cioè rendendo sacro quel luogo e quella persona, trova spazio il Crocifisso, il Re che viene dal Cielo coperto da sei ali, come un serafino, e con un volto sereno. In realtà notiamo che questo Serafino di Gentile potenzia le sue ali da sei a dieci, e come mai? Potremmo forse pensare che se sei sono le ali dei serafini, la più alta delle schiere angeliche, e nove sono i cori angelici, san Francesco è alla presenza di qualcuno che è più che un angelo, qualcuno che è al di sopra degli angeli per potenza, dignità ed essenza: Cristo. E san Francesco fissa gli occhi, con tutta la fatica che può fare un uomo nel contemplare Dio, e vede il suo Redentore che ha smesso di soffrire e appare ora glorioso pur nel dolore.

La cima del monte è tutta in fiamme / e i vicini lo vedono: / il cuore di Francesco è trasformato / dagli ardori dell’amore. / E anche il corpo in realtà viene ornato / da stimmate stupefacenti.

Veniamo ora al vero protagonista del dipinto: la luce, luce che nel racconto delle leggende di san Francesco era visibile anche ai lontani. Tutto è investito, inondato, permeato da questa luce caldissima che si sprigiona dal Cristo e tutto diventa di oro appena lambito dalla luce serafica. I fili d’erba diventano fili di luce, ciascuno nella sua singolarità, le coste del monte, dal nero, sfumano indistintamente confondendosi nell’oro, la veste di san Francesco e di frate Leone diventa d’oro, insomma tutto è trasfigurato dalla divina luce. E, in modo più acuto, dei raggi di luce partono dal Serafino e vanno ad infiggersi nelle mani e nei piedi di san Francesco. La luce, tra le creature più somiglianti al Creatore tanto da esserne l’attributo tra i migliori, creatura delicata senza la quale nulla può fiorire, diventa lama che trapassa la carne di san Francesco, così che luce e amore diventano lame taglienti, anzi chiodi che crocifiggono il cuore e il corpo dell’uomo poverello trasformando l’amante nell’immagine dell’Amato. Cristo, che non disdegna di ascoltare le preghiere dei figli quando sono conformi al suo volere, dà così compimento alla preghiera di san Francesco tramandata dai Fioretti che dice: «O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti priego che tu mi faccia, innanzi che io muoia: la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nella ora della tua acerbissima passione, la seconda si è ch’io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, Figliuolo di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori».  

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