RELIGIONE
«Ut queant laxis» Breve lettura dell’inno sulla natività di Giovanni Battista
dal Numero 25 del 23 giugno 2024
di Mario Caldararo

Un inno composto nell’VIII secolo, in onore della natività di san Giovanni Battista, ha dato il nome alle note: il Battista ha così ispirato il sistema musicale in uso ancora oggi.

Ut queant laxis 
resonare fibris 
mira gestorum 
famuli tuorum,
solve polluti labii reatum, 
sancte Iohanmes.


 

Testo italiano

Perché i fedeli sulla lenta lira
possano cantare la tue grandi gesta,
sciogli la colpa dell'impuro labbro, o San Giovanni.

Un angelo disceso dall'alto Olimpo
rivela al padre la tua grande nascita,
ed il nome e, per ordine, le gesta della tua vita.

Egli dubbioso della promessa divina,
perdette l'uso della pronta favella,
ma tu nascendo gli ridonasti l'organo della perduta voce.

Nascosto ancora nel seno della madre,
sentisti il Re che giaceva nel talamo;
ed ecco ambo le madri, per merito del figlio,
schiudono il pondo ascoso.

Dalla tenera età, lasciando i luoghi abitati,
ti rifugiasti negli antri del deserto,
per non macchiare la tua vita con una sola parola leggera.

Il cammello ti offrì una dura veste al casto fianco,
gli agnelli una cintura, a te, cui l'acqua fu bevanda,
e furono cibo miele e locuste.

Gli altri profeti vaticinarono soltanto
presagendo nel cuore la luce ventura;
ma tu mostri col dito Colui che toglie la colpa del mondo.

Non nacque per lo spazio del vasto mondo
alcun altro più santo di Giovanni,
che meritò lavare coll'acqua Colui che lava i peccati della terra.

O te felice, adorno di alti meriti,
che non conosci macchia, al niveo pudore,
potente martire, ed anacoreta, massimo dei profeti!

Trenta serti coronano alcuni santi,
il doppio di questi ne corona altri, ma il triplo ti adorna,
aumentato del frutto, con cento corone.

Perciò, ricco di tanti meriti,
sciogli la durezza del nostro cuore di pietra
appianando l'aspro cammino; drizza il nostro storto sentiero,

affinché il Fattore e Redentore del mondo
alle anime purificate da macchia di colpa si degni,
venendo, guidare, pietoso, i santi passi.

Te i cittadini del cielo con lodi celebrino,
Dio uno e trino, supplici anche noi ti chiediamo perdono:
abbi pietà dei redenti.
Amen.

 

«Fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista» (Mt 11,11): è Gesù stesso nel parlare alle folle a cantare il primo inno a Giovanni Battista, figlio di Elisabetta e Zaccaria, cugino di Gesù e nipote di Maria Vergine. Così grande ed importante è la nascita di Giovanni il Battista che la liturgia solo di lui ricorda e festeggia non solo la morte, ma anche la nascita; solo di Gesù e di Maria si ricordano entrambe le date. 


Il ricordo della sua nascita, fissato nel calendario liturgico al 24 giugno, viene celebrato con grado di solennità. Il giorno 24 giugno è a distanza di tre mesi dall’Annunciazione a Maria (25 marzo) e se a Maria viene detto dall’Angelo che la cugina, Elisabetta, era già incinta di sei mesi e che Maria sarebbe restata con lei fino al parto si deduce che la natività di Giovanni sarebbe avvenuta il 25 giugno e quella di Gesù il 25 dicembre. Inutile dire che la preoccupazione non è celebrare l’evento nell’esatto giorno (ammesso che lo si possa sapere) del suo accadimento, ma voler celebrare l’evento ed il mistero in esso realizzato anche mediante sovrapposizioni e sostituzioni simboliche con il paganesimo. Infatti, se la data del Natale viene fissata al solstizio d’inverno (tralasciamo i problemi di date con il passaggio tra calendario giuliano e gregoriano), giorno in cui le ore di luce cominciano a crescere, la data della natività di Giovanni viene stabilita il giorno del solstizio d’estate, a distanza di sei mesi, in cui le ore di luce cominciano a decrescere. In ciò l’evidente parallelismo astronomico con quanto riportato nel Vangelo di Giovanni, 3,30: «Egli deve crescere e io invece diminuire». La data del Natale viene fissata definitivamente agli inizi del IV secolo; si presume allora che la festa della natività del Battista sia stata fissata non molto tempo dopo, tra IV e V secolo. Ma se il Concilio, convocato da Alarico II, re dei visigoti, celebrato ad Agde in Linguadoca nel 506 e presieduto da san Cesario di Arles, menziona tra le più importanti feste dell’anno liturgico la natività di Giovanni, vuol dire che gia da tempo era conosciuta e celebrata. Il rito bizantino ricorda il Battista anche in altre feste che ricordano le scoperte delle sue reliquie ed il suo concepimento.


Per questa antichissima solennità, Paolo diacono che fu monaco, poeta, storico e scrittore longobardo, vissuto nell’VIII secolo, al servizio anche di Carlo Magno e morto a Montecassino nel 799, compose l’inno Ut queant laxis. In uso ancora oggi nella liturgia, questo lungo inno era diviso in tre parti per tre momenti diversi dell’Ufficio divino: per il Mattutino, le Lodi e i Vespri. 


La prima parte è strettamente narrativa, dunque, e fa memoria della vita del Battista: si canta dell’annuncio da parte di un angelo a Zaccaria della nascita di Giovanni, della sua nascita, dell’incontro tra Maria ed Elisabetta, della vita ritirata nel deserto per preservare la purezza, del vestiario e del cibo. Fin qui la storia, ma la sua missione (il suo martirio verrà celebrato in un’altra data del calendario liturgico) la troviamo solo nella strofa settima e solo nell’ultimo verso nel quale con grande asciuttezza si delinea il compito del Battista: «Tu mostri col dito colui che toglie la colpa del mondo». Assottigliando al massimo la descrizione di Giovanni, resta la sua missione che in lui fa corpo unico con la sua essenza, cioè un dito puntato verso il Messia e che dice: «Ecco l’Agnello di Dio». 


Con la terzultima strofa si giunge al nucleo della richiesta: sciogliere la durezza del cuore di pietra, appianare l’aspro cammino e drizzare il sentiero storto, tutto ciò affinché il Creatore e Redentore del mondo si degni, venendo, di dirigere i nostri santi passi una volta purificati dalla colpa. E con la strofa tredicesima si chiude questa magnifica ode.


Questo meraviglioso testo è diventato famoso perché la prima strofa fornì nell’XI secolo al monaco camaldolese Guido d’Arezzo il nome delle note musicali. Quando nell’abbazia di Pomposa gli venne dato il compito di maestro di coro, si trovò davanti la difficoltà del sistema di apprendimento del canto gregoriano basato sulla ripetizione, da parte del maestro, fino alla memorizzazione da parte degli allievi. La notazione adiastematica, cioè senza riferimenti che rendessero sicura l’intonazione (come saranno poi il tetragramma ed il pentagramma), rendeva difficile la lettura ed il canto. In questo sistema i neumi, semplici segni grafici che segnalavano il disegno della linea melodica, erano posti sulle sillabe del testo. Il monaco riuscì a trovare un modo per segnare e leggere in modo chiaro gli intervalli. Il Capitolo di Pomposa non fu pronto ad accogliere la sua intuizione, così che Guido dovette trovare riparo ad Arezzo presso il vescovo Tedaldo, amico dell’abate di Pomposa, a cui dedicò il famoso ed importantissimo trattato Micrologus. Qui fu libero di poter insegnare ed applicare il metodo da lui trovato. Guido utilizzò la prima strofa dell’Ut queant laxis (che veniva usata dai cantori anche come preghiera per essere preservati dai mali della gola) e con le iniziali dei versi ed emiversi denotò le note dell’esacordo: UT, RE, MI, FA, SOL, LA. Le iniziali delle parole corrispondevano ad un innalzarsi crescente della melodia per toni e semitoni, quindi un modo perfetto per memorizzare una scala. Questo sistema, detto “solmisazione”, non indicava l’altezza assoluta, ma il modo per collocare al posto giusto il semitono fra MI e FA, ed era un sistema mobile. Nel 1500 venne aggiunto il settimo grado, il SI, unendo le iniziali di Sancte Iohanne, e solo nel 1600 il sistema di Guido verrà usato per indicare delle altezze assolute. La notazione di Guido soppianterà quella alfabetica ancora in uso nei paesi non latini, dopo aver sostituito, ad opera di Pietro Aretino, per ragioni eufoniche, l’UT con il DO, iniziale di Dominus. 


Così Giovanni Battista, che nel Vangelo di Giovanni dice di se stesso di essere «Voce di uno che grida nel deserto» (Gv 1,23), è diventato l’ispiratore del modo di far musica che ancora oggi usiamo: il canto della verità non può che fiorire in bellezza.  

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