Ci è richiesta una letizia più profonda e più duratura di qualsiasi gioia di questa vita: quella che sa trasformare l’amaro in dolce, capace di sorgere anche nelle contrarietà.
Ultima caratteristica della via d’infanzia spirituale è la letizia interiore, frutto di superamento e di conquista.
La stessa vita di Gesù, che non fu altro che croce e martirio, si apre con un annuncio di gaudio. Gli angeli cantano gloria a Dio e invitano gli uomini alla gioia della venuta del Signore. E davvero è una grande gioia per noi uomini, che eravamo stati condannati all’esilio dopo il peccato originale, mentre Dio ora è disceso sulla terra per rivelare nuovamente il suo Volto amabile, per ridonarci la speranza del Paradiso, la prospettiva di ricostituire in noi la divina somiglianza perduta. Ma c’è di più: il Signore, assumendo la nostra carne, si fa nostro fratello e nostro consorte, condivide cioè con noi la nostra vita, le nostre sofferenze, santificando la nostra esistenza in tutti i suoi aspetti. Quale gioia più grande? Gesù è il Salvatore, il «Dio con noi» (Mt 1,23). Egli ci porta un dono meraviglioso: non solo il perdono di Dio, ma anche l’adozione divina. In Lui diveniamo figli di Dio.
Ma la nostra letizia è molto più profonda e va al di là delle gioie sensibili e anche spirituali della vita. La letizia è una gioia intima che si alimenta di tutto ciò che Dio manda e dispone, sia pure la croce e la sofferenza. I santi facevano sempre il contrario di ciò che era loro naturale, per cui guardavano con dispiacere a ciò che assecondava la loro natura, e ritenevano con gioia ciò che invece li contrariava. L’arte di san Francesco d’Assisi, difatti, consisteva nel “cambiare in dolce l’amaro e l’amaro in dolce”.
Il Serafino d’Assisi, in effetti, è stato maestro eccelso della “perfetta letizia”, e forse nessuno meglio di lui sa spiegarci in cosa consista questa virtù preziosa. Nelle Fonti Francescane, al n. 278, leggiamo infatti un racconto che il Santo volle dettare a frate Leone, suo devoto compagno, nel quale egli spiega cosa sia la perfetta letizia. «Frate Leone, scrivi», disse al compagno. E cominciò: «Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell’Ordine, scrivi: non è vera letizia. Così, pure che sono entrati nell’Ordine tutti i prelati d’Oltralpe, arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il re di Francia e il re d’Inghilterra; scrivi: non è vera letizia. E se ti giunge ancora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede, oppure che io ho ricevuto da Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da fare molti miracoli; ebbene io ti dico: in tutte queste cose non è la vera letizia». «Ma qual è la vera letizia?», chiese allora frate Leone. «Ecco – proseguì il Santo –, io torno da Perugia e, a notte profonda, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che, all’estremità della tonaca, si formano dei ghiaccioli d’acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e, dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: “Chi è?”. Io rispondo: “Frate Francesco”. E quegli dice: “Vattene, non è ora decente questa, di andare in giro, non entrerai”. E poiché io insisto ancora, l’altro risponde: “Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te”. E io sempre resto davanti alla porta e dico: “Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte”. E quegli risponde: “Non lo farò. Vattene al luogo dei Crociferi e chiedi lì”. Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell’anima».
Anche santa Teresina era esperta in quest’arte. Era talmente esercitata nella virtù della letizia, ossia nel saper guardare con gioia alle amarezze della vita, che ciò le era divenuto quasi del tutto connaturale, e risultava ormai impossibile riuscire a distinguere cosa realmente le apportasse piacere e cosa invece costasse alla sua natura. Ciò era senz’altro il risultato del suo amore intimo e profondo a Gesù.
A testimoniare questa sua virtù si potrebbero riportare molti episodi. Accontentiamoci di qualcuno di essi.
Una volta la sorella Celina, sua novizia, le confidò il suo disappunto di fronte alle osservazioni o riprensioni ingiuste che talvolta le capitava di ricevere. «Io voglio ben accettare le osservazioni quando sono giuste – diceva –; appena ho torto lo riconosco; ma non posso proprio sopportare i rimproveri se non sono in colpa». «Per me – rispose invece la Santa – è tutto il contrario; preferisco essere accusata ingiustamente, perché non ho niente da rimproverarmi e l’offro al buon Dio con gioia; poi mi umilio al pensiero che sarei ben capace di fare ciò di cui vengo accusata» (CR 33) [1]. Era dunque una grande gioia per lei essere accusata o ripresa ingiustamente, per due ragioni: la prima, è che sapeva di essere innocente, e quindi di non aver arrecato alcuna offesa a Gesù; la seconda è che, con tale riprensione ingiusta o falsa, aveva l’occasione di offrire un grande atto di amore a Gesù, tacendo e prendendosi una colpa immeritata. Gesù doveva gradire molto una virtù così rara e nascosta... Anche questa è perfetta letizia!
Sapeva gioire in modo santo anche delle proprie imperfezioni e piccole miserie, sapendo trarre da esse la virtù di riconoscersi per quello che realmente si è agli occhi di Dio, eliminando ogni sentimento di vana compiacenza che spesso può sorgere nel cuore anche di persone sante, non potendo fare a meno di constatare il bene che si compie. Una volta santa Teresina non seppe frenare del tutto un moto naturale verso una consorella. In realtà all’esterno non apparve nulla, si trattava solo di un moto che ella però aveva avvertito, nella delicatezza della sua coscienza, e benché avesse lottato contro di esso, non lo aveva vinto del tutto. Invece di scoraggiarsi o adirarsi contro se stessa, seppe gioire di quella miseriola, perché – disse – «mi colma di gioia il constatare di essere stata imperfetta; oggi il buon Dio mi ha fatto grandi grazie, è una buona giornata...» (CR 36). La sorella Celina le domandò come potesse provare simili sentimenti, quando la reazione naturale sarebbe quella opposta. «Il mio piccolo sistema – rispose – è di essere sempre lieta, di sorridere sempre, tanto quando cado che quando riporto una vittoria» (ibidem).
«In Dio solo è il riposo – affermava –, e la vera gioia che non stanca mai è quella che si attinge nel disprezzo di se stessi. Così, a proposito della sua debolezza di ieri sera – disse rivolta a Celina, che la sera prima aveva pianto perché le costava molto andare a visitare le sorelle ammalate, poiché era molto stanca, e una suora aveva scorto quella mancanza di virtù –, se la Sorella che l’ha sorpresa la giudica senza virtù e lei stessa ne conviene dal fondo del cuore: ecco la vera gioia!» (CR 37-38). Sì, vera gioia, perché non ha nulla che possa alimentare l’amor proprio.
Avanti, dunque! La nostra vita è costellata di piccole croci, spine, sofferenze, incomprensioni, tradimenti, disprezzi... spesso, poi, si aggiunge la croce del nostro carattere, delle nostre imperfezioni, delle nostre miserie fisiche o morali. La tentazione più comune ci induce a ribellarci contro tutto ciò. È invece una virtù preziosa quella di saper accettare tutto con serenità e letizia, di saper sorridere di fronte alle prove che ci si presentano, anche di fronte alle nostre miserie (intendiamo quelle non volute, ma combattute, nonostante l’insuccesso). Se, come la piccola Teresa e il Serafino di Assisi, sapremo accogliere tutto questo con un sorriso, renderemo la vita più lieta e progrediremo senza accorgercene nel cammino di santità.
Nota
1) Le sigle utilizzate in questo articolo sono le seguenti: CR: Consigli e ricordi (Editrice Àncora, Milano 19634), seguita dalla pagina.