SPIRITUALITÀ
Martire per la famiglia: il card. John Fisher
dal Numero 24 del 18 giugno 2023
di Paolo Risso

«Popolo cristiano, vado a morire per la mia fedeltà alla santa Chiesa Cattolica di Cristo» (san John Fisher).

Enrico VIII, re d’Inghilterra, si era così invaghito della sua cortigiana Anna Bolena, che non solo era deciso a divorziare dalla legittima moglie Caterina, ma anche a pretendere il riconoscimento di tale atto dal papa Clemente VII e a staccare la Chiesa Cattolica della sua nazione dall’obbedienza al Pontefice di Roma. Da quegli anni, nella prima metà del ’500, da parte di Enrico VIII, di sua figlia, la regina Elisabetta I, e poi dai loro successori, fino oltre alla metà del ’600: «Il terrore inglese è paragonabile soltanto a quello della dittatura di Robespierre», come si esprime il prof. Green, il grande storico del popolo inglese. Decine di migliaia di martiri cattolici che non vollero sottomettersi all’iniquità furono uccisi per la difesa dell’indissolubilità del matrimonio e la santità della famiglia, martiri per la Messa cattolica, che mai accettarono di negare per scegliere il rito protestante e scismatico fabbricato dall’arcivescovo Cramner; martiri per la Chiesa Cattolica.
Un uomo d’élite
Questa “era dei martiri” fu inaugurata dal cardinale inglese John Fisher (1469-1535), il quale, benché amico intimo di Enrico VIII, proprio per il bene vero che portava al re, gli rifiutò ogni giuramento che approvasse le sue empie pretese. Egli era senza alcun dubbio il più notevole rappresentante di quella “elite” episcopale inglese che promuoveva la riforma interna della Chiesa, e senza attenderla dal di fuori, ne praticava i principi e gli ideali evangelici e cattolici. «Il suo palazzo episcopale di Rochester – si diceva –, per la regolarità di vita religiosa, rassomigliava a un chiostro, per la scienza a una università».
Umanista cristiano raffinato – simile in questo a Tommaso Moro, il primo ministro del re, fervente cattolico, così da essere il secondo martire fatto uccidere da Enrico – restauratore degli studi all’università di Cambridge, appassionato della classicità antica, in particolare del greco, John Fisher era anche un uomo di indole squisita, in cui la nobilità e la santità, l’amore intenso all’Eucaristia e al sacerdozio, si tingevano volentieri e spesso di fine umorismo. 
Confessore della buona e pia regina Caterina, prese subito posizione contro Anna Bolena, la cortigiana per la quale il re aveva perso la ragione, e contro le insensate pretese del re, il quale lo fece arrestare una prima volta nel 1530 per aver disapprovato le leggi sui “benefici ecclesiastici”; una seconda volta nel 1533 per aver pubblicamente criticato il divorzio del re. Tuttavia godeva di un tale prestigio che era assai difficile abbatterlo. Quando l’“atto di supremazia” arrivò a stabilire il re come capo della Chiesa inglese, John Fisher, fedele al Papa, si oppose al re con tutte le sue energie e gli negò ogni adesione. Arrestato per la terza volta, era sempre più chiaro che non ne sarebbe più uscito vivo.
Il papa Paolo III le escogitò tutte per salvargli la vita: gli conferì persino i cappello cardinalizio, sperando che quella prestigiosa nomina potesse intimorire il re, e salvargli la vita. Enrico VIII, sprezzante e ingiurioso come sanno esserlo i despoti, rispose al Papa: «Gli invii pure quel cappello di porpora, ma quando arriverà, non ci sarà più la testa su cui metterlo». Il card. John Fisher, deferito a un tribunale speciale, fu condannato a morte per “alto tradimento” dopo un simulacro di processo, simile a “un assassinio preceduto da una mascherata” come sanno inscenare i tiranni.
Fino all’ultimo, il suo atteggiamento fu quello di un martire antico e andò preparandosi al supplizio come a un giorno di nozze e consolava, scherzando, il suo domestico affranto. Le sue ultime parole furono il versetto del Salmo 30: «In te, Domine speravi». Egli stesso posò la testa sul ceppo... e scese la mannaia del carnefice. Anna Bolena volle avere la testa insanguinata del santo vescovo e la prese a schiaffi. Era il 22 giugno 1535. In seguito, messa su una picca, la testa di Fisher fu esposta per Londra, e vi rimase fino a quando, pochi giorni dopo, non venne sostituita con la testa di Tommaso Moro, primo ministro che pure non si era piegato ad approvare le malefatte.
Giorni densi
Giovanni Fisher era nato a Beverley nel 1469. A 22 anni, era stato ordinato sacerdote. Uomo di grande intelligenza, studioso profondo e brillante umanista cristiano che credeva nell’uomo redento da Cristo, secondo il progetto di Dio. Fu prima consigliere e confessore di Margherita di Beaufort, madre di Enrico VIII, poi preside dell’università di Cambridge, che trasformò in un centro di cultura europea. Vi aprì nuovi collegi e vi istituì le cattedre di greco e di ebraico. Al culmine della sua luminosa carriera accademica, fu consacrato vescovo di Roschester.
Con l’intento di portare a tutti la luce di Cristo, ebbe contatti con notissimi studiosi quali Reuchlin ed Erasmo da Rotterdam. Quando Lutero si buttò nella ribellione alla Chiesa Cattolica, mons. Fisher, vedendo come costui stesse per devastare la Sacra Tradizione cattolica, come scatenato “aper de silva” (cinghiale della foresta!), prese decisamente posizione contro di lui e la sua pessima “riforma”. Su questa linea sostenne re Enrico VIII quando scrisse un saggio contro Lutero, in difesa della fede e dei sacramenti cattolici; per questo il Papa gli regalò una rosa d’oro e lo definì “defensor fidei”.
Tutto bene tra il vescovo e re Enrico fino a quando quest’ultimo non perse la ragione per Anna Bolena, per la quale sarà disposto anche a staccare l’Inghilterra, fino allora cattolica, dall’obbedienza alla Chiesa di Roma, come abbiamo già raccontato. Mons. Fisher gli mandò a dire che mai avrebbe seguito nella ribellione e nello scisma, la sua iniqua avventura. Il 13 aprile 1534, il re chiamò il santo vescovo a prestare giuramento all’atto di supremazia, con cui si staccava da Roma. Fisher rifiutò solennemente, in difesa della famiglia basata sul matrimonio indissolubile e del primato della Chiesa Cattolica.
Fisher sapeva di andare incontro alla morte, come “reo di tradimento”. Il 22 giugno 1534, alle prime luci dell’alba, il luogotenente della Torre di Londra si recò a svegliare il vescovo che dormiva tranquillamente e gli disse: «Il re vuole che lei sia giustiziato oggi stesso». «A che ora?», chiese Fisher. «Alle 9.00». «Allora mi conceda di dormire ancora un po’, non perché io abbia paura della morte, ma a causa della mia età e della mia debolezza». Ebbe ancora tre ore di riposo. 
Alle 9.00, vestito della porpora cardinalizia che gli aveva conferito il papa Paolo III, disse a chi lo assisteva: «Oggi è il giorno delle mie nozze con Cristo». Salì il patibolo, leggendo l’inizio della preghiera sacerdotale di Gesù: «Padre, questa è la vita eterna, che conoscano te, unico vero Dio, e colui che hai mandato» (Gv 17,1-2). Poi, rivolto alla folla che era andata a vedere come sa morire un vescovo cattolico, disse: «Popolo cristiano, vado a morire per la mia fedeltà alla Santa Chiesa Cattolica di Cristo!». Prima di posare il capo sul ceppo, intonò il Te Deum di lode a Dio che lo glorificava con il martirio.
Sempre venerato come vescovo e martire, quattrocento anni dopo, nel 1935, papa Pio XI lo iscrisse tra i santi. I santi John Fisher e Tommaso Moro, festeggiati insieme il 22 giugno, segnano in Inghilterra l’inizio dell’era dei martiri, durata per più di un secolo, fin oltre la metà del ’600. Un vero inno di lode e di fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, da parte di coloro che hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel Sangue dell’Agnello.

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