È uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa. A 20 anni abbandonò ogni cosa per condurre vita anacoretica per più di 80 anni, morendo ultracentenario. Già in vita godeva di grande fama di santità, mai venuta meno.
Fondatore del monachesimo cristiano, nonché primo abate della storia della Chiesa è stato sant’Antonio abate, detto anche sant’Antonio il Grande, d’Egitto o del fuoco oppure del deserto o, ancora, l’Anacoreta. Nacque a Qumans, nel basso Egitto, il 12 gennaio 251.
Si ha certezza della sua biografia grazie alla Vita Antonii, scritta e resa pubblica già nel 357 dal santo e grande vescovo di Alessandria Atanasio, che conobbe personalmente il monaco Antonio, il quale sostenne fortemente il vescovo nella lotta contro l’eresia ariana. L’opera venne tradotta in diverse lingue e si diffuse capillarmente sia in Oriente che in Occidente, dando un contributo fondamentale all’affermazione degli ideali della vita monastica.
Oltre alla Vita Antonii, un’altra autorevole fonte è presente nella Vita Sancti Pauli primi eremitæ scritta dal Padre e Dottore della Chiesa san Girolamo negli anni 375-377; in essa si descrive l’incontro, avvenuto nel deserto della Tebaide, di Antonio con il più anziano Paolo di Tebe, di cui abbiamo parlato la scorsa volta. Gli episodi riportati, che rappresentano la loro amicizia e la loro condivisione nel ricevere miracolosamente dal corvo il pane per sfamarsi fino ad arrivare alla sepoltura di Paolo di Tebe da parte di sant’Antonio, furono poi ripresi nelle biografie medievali, in particolare nella celebre Legenda Aurea di Jacopo da Varazze.
Antonio apparteneva ad una famiglia cristiana benestante, proprietaria di molti terreni coltivabili. Prima di compiere 20 anni gli morirono i genitori e si trovò un ingente patrimonio da amministrare, ma presto diede ascolto alle parole del Vangelo: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri» (Mt 19,21); allora donò ai miseri i suoi averi e intraprese una vita eremitica di preghiera, povertà, castità e di silenzio sull’esempio di altri anacoreti che vivevano isolati nei deserti che circondavano Qumans.
Nella sua biografia viene presentata una sua visione in cui un eremita riempiva la giornata dividendo il tempo fra preghiera e l’intreccio di una corda: interpretò quel messaggio divino come rivolto proprio a lui, comprendendo che era giunto il momento che oltre alla preghiera doveva dedicarsi anche al lavoro. Proseguì, quindi, nella vita ritirata, ma si mise a lavorare e i suoi frutti servivano per sopravvivere e per fare carità. In quel periodo venne assalito da fortissime tentazioni demoniache e molti dubbi sulla validità di questa vita solitaria lo tormentavano. Si confidò con altri eremiti e venne spronato a continuare e perseverare staccandosi ancora di più dal mondo. A questo punto si ricoprì di rude saio e si chiuse in una tomba scavata nella roccia nei pressi del villaggio di Coma. Proprio qui venne aggredito e percosso dal demonio: privo di sensi venne preso da alcune persone che si recavano alla tomba per portargli del cibo e fu trasportato nella chiesa del villaggio, dove riprese forze e vigore.
In seguito Antonio si spostò verso il Mar Rosso sul monte Pispir, dove esisteva una fortezza romana abbandonata, con una fonte di acqua. Era il 285 e rimase in questo luogo per vent’anni, nutrendosi solo con il pane che gli veniva calato due volte all’anno. In questo contesto proseguì la sua purificazione, continuando ad essere oggetto delle aggressioni demoniache, ma allo stesso tempo la sua fama di santità si diffondeva e sempre più persone si recavano da lui, perciò si decise di demolire le mura del fortino per liberarlo dal suo rifugio; così facendo sant’Antonio volle assistere i sofferenti, che spesso guariva miracolosamente sia nel corpo che nell’anima.
Venne a crearsi intorno a lui un gruppo di discepoli, i quali si divisero in due comunità, una a oriente e l’altra a occidente del fiume Nilo: stiamo parlando dei Padri del deserto, che furono determinanti per la loro vita di preghiera e di estremo sacrificio per il bene della diffusione della Chiesa di Cristo in terra. Essi vivevano in grotte e anfratti, ma sotto la guida di un eremita più anziano e con sant’Antonio come guida spirituale, ed ecco che fu proprio lui il fautore dell’espansione dell’anacoretismo in contrapposizione al cenobitismo. L’anachòresis (dal greco ??????????, anach?r?t?s, derivato da ?????????, anach?rêin: “ritirarsi”) è l’abbandono della società e la fuga nel deserto. Nello sviluppo del monachesimo, è una forma intermedia tra ascetismo e cenobitismo che prevede l’isolamento, ma non sempre totale, oltre alla preghiera, la contemplazione, l’ascesi spirituale e il lavoro per il proprio sostentamento e austerità della vita. Il cenobitismo, invece, che deriva dal latino cœnobium, a sua volta dal greco ?????????? (comune) e ???? (vita), è una forma comunitaria di monachesimo, praticata in monasteri (cenobi), sotto la guida di un’autorità spirituale, secondo una disciplina fissata da una regola. I cenobiti sono monaci cristiani le cui prime comunità risalgono al IV secolo e si differenziano dagli eremiti in quanto praticano una vita comunitaria anziché solitaria. Fondatore del cenobitismo è considerato san Pacomio, monaco egiziano vissuto a cavallo fra III e IV secolo, del quale tratteremo la prossima volta.
L’anacoretismo sorse in prossimità del deserto di Fayum, proprio in Egitto, a partire dalla seconda metà del III secolo, anche a seguito della persecuzione dei cristiani da parte degli imperatori romani Decio e Valeriano, per poi estendersi anche in Siria e in Palestina. L’arte bizantina è solita raffigurare gli anacoreti nei sottarchi che sorreggono gli edifici sacri in posizione orante, a indicare che con la loro ascesi reggono il peso della Chiesa.
Nel 311, durante la persecuzione dell’imperatore Massimino Daia, sant’Antonio si recò ad Alessandria per sostenere e confortare i cristiani perseguitati e proprio in quell’occasione il suo amico d’anima sant’Atanasio scrisse una lettera all’imperatore Costantino I per intercedere nei suoi confronti. Tornata la pace, Antonio, pur restando sempre in contatto con Atanasio e sostenendolo nella lotta contro l’arianesimo, visse i suoi ultimi anni nel deserto della Tebaide dove, pregando e coltivando un piccolo orto per il proprio sostentamento, morì, all’età di 105 anni, probabilmente nel 356, e venne sepolto dai suoi discepoli in un luogo segreto.
Tuttavia la sepoltura fu scoperta. La storia della traslazione delle reliquie di sant’Antonio in Occidente si basa principalmente sulla ricostruzione elaborata nel XVI secolo da Aymar Falco, storico ufficiale dell’Ordine dei Canonici Antoniani. Secondo questa ricostruzione, le reliquie vennero prima traslate nella città di Alessandria (numerosi martirologi medievali datano l’accadimento al tempo di Giustiniano, 527-565). Con l’occupazione araba dell’Egitto, furono portate a Costantinopoli (670 circa). Nell’XI secolo il nobile francese Jaucelin, signore di Châteauneuf, nella diocesi di Vienne, le ottenne in dono dall’imperatore di Costantinopoli e le portò in Francia nel Delfinato. Qui il nobile Guigues de Didier fece poi costruire, nel villaggio di La Motte aux Bois che in seguito prese il nome di Saint-Antoine-l’Abbaye, una chiesa che accolse le reliquie poste sotto la tutela del priorato benedettino che faceva capo all’abbazia di Montmajour, vicino ad Arles, in Provenza. In questo stesso sito ebbe origine il primo nucleo dell’Ordine degli Ospedalieri Antoniani, la cui vocazione originaria era quella dell’accoglienza delle persone affette dal fuoco di sant’Antonio.
Dall’XI secolo iniziò a svilupparsi il culto taumaturgico nella città di Saint-Antoine-l’Abbaye, attorno alle spoglie di sant’Antonio, ma nello stesso periodo prese a circolare la notizia della presenza del corpo del Santo all’interno dell’abbazia di Lézat-sur-Lèze. Dunque le reliquie delle sue spoglie sono un po’ disseminate, presenti anche in Italia: la reliquia di un frammento del braccio del santo anacoreta è conservata a Novoli, in Puglia, nel santuario a lui dedicato. La cittadina riserva ogni anno al santo patrono grandiosi festeggiamenti. Altro frammento del braccio del Santo è custodito a Tricarico, in Basilicata, sede di una diocesi millenaria, nella cattedrale della città.
Vastissima è la produzione artistica nel corso dei secoli che raffigura sant’Antonio abate. Una delle più antiche testimonianze iconografiche risale all’VIII secolo ed è contenuta in un frammento di affresco proveniente dal monastero di Baouit, in Egitto. Solitamente egli è rappresentato come un anziano monaco dalla lunga barba bianca nei codici miniati, nei capitelli, nelle vetrate – pensiamo, per esempio, a quelle del Coro della cattedrale di Chartres –, nelle sculture lignee destinate agli altari e alle cappelle, negli affreschi, nelle tavole e nelle pale poste nei luoghi di culto. Con l’avvento della stampa, nel XV secolo, la sua immagine comparve anche in molte incisioni che i devoti appendevano sia nelle loro case che nelle stalle.
Nel Medioevo il culto di sant’Antonio si propagò in maniera esponenziale soprattutto grazie all’Ordine degli Ospedalieri Antoniani, i quali dettarono le linee iconografiche: il santo anziano mentre cammina scuotendo un campanello – proprio come usavano fare gli Antoniani – in compagnia di un maiale: animale dal quale essi ricavavano il grasso per preparare emollienti da spalmare sulle piaghe del fuoco di sant’Antonio. Inoltre, il bastone da pellegrino termina spesso, come nel dipinto di Matthias Grünewald per l’altare antoniano di Issenheim, nell’Alto Reno, con una croce a forma di tau che gli Antoniani portavano cucita sul loro abito: thauma in greco antico significa “stupore, meraviglia” di fronte al prodigio. In Italia ricordiamo l’antico insediamento dei monaci Antoniani nella precettoria di Sant’Antonio in Ranverso, nei pressi di Torino, dove si conservano preziosissimi affreschi con le storie del santo abate dipinte nel 1426 circa da Giacomo Jaquerio di Torino, pittore italiano, maggior rappresentante della pittura tardo-gotica in Piemonte.