L’Agnello è il grande protagonista delle visioni di san Giovanni a Patmos. Raffigurato con la bandiera crociata e il libro della vita, è entrato in molte raffigurazioni pittoriche a partire dai primi secoli cristiani e in tante tradizioni popolari, fino a diventare l’emblema vero e proprio della Pasqua. È interessante perciò indagare attorno a questo misterioso Agnello delle visioni dell’Apocalisse.
Abbiamo visto come l’agnello pasquale sia un segno eminente della Passione di Cristo, in quanto nel sacrificio della croce Cristo compie in sé tutti i sacrifici dell’Antico Testamento. Al contempo esso si ricollega con la cena pasquale ebraica, nel quale l’agnello imbandito ricordava la cena della notte della fuga e della liberazione dalla schiavitù egiziana. È il Nuovo Testamento a indicarci questa lettura, in particolare la prima Lettera di san Pietro e la Lettera di san Paolo agli Ebrei.
L’agnello però è anche il grande protagonista delle visioni avute da san Giovanni a Patmos, e confluite nel libro biblico dell’Apocalisse. Il centro di questa visione è nei capitoli 4 e 5 quando, in una grandiosa e simbolica epifania, i ventiquattro vegliardi assisi e i quattro viventi aspettano «colui che è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli» (Ap 5,2). Infatti il trono era occupato da un essere «simile nell’aspetto al diaspro e alla cornalina» (Ap 4,3) – da tutti adorato con canti di lode e con il Trisagio (Santo, Santo, Santo) –, il quale aveva nella mano destra un libro a forma di rotolo, che nessuno era in grado di ricevere e di leggere.
Chiaro che questo rotolo è “il libro della vita”, ovvero il senso dell’intera storia, delle vicende di tutta l’umanità nel suo insieme e di quelle di ogni singolo uomo. Davanti all’impossibilità di trovare qualcuno che sia capace di comprendere il senso della storia («Nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo», Ap 5,3) san Giovanni scoppia in un pianto a dirotto. Solo la venuta dell’agnello permette di aprire il libro e leggere sul libro «le cose che devono avvenire in seguito» (Ap 5,2).
Al di là delle rappresentazioni puntuali del racconto apocalittico – come quella famosa della cripta della cattedrale di Anagni –, l’agnello dell’Apocalisse giovannea con il libro della vita è entrato in molte raffigurazioni pittoriche a partire dai primi secoli cristiani e in tante tradizioni popolari e gastronomiche, fino a diventare l’emblema vero e proprio della Pasqua. Non è inutile perciò indagare attorno a questo misterioso Agnello delle visioni dell’Apocalisse.
Agnello immolato ma ritto
Il racconto apocalittico indica chiaramente che l’agnello assiso sul trono, circondato dai quattro viventi e dai vegliardi, è «come immolato» (Ap 5,6). Il riferimento al sacrificio di Cristo è evidente: Cristo è l’agnello immolato, ovvero Egli nel suo Sacrificio sulla croce completa in sé tutti i sacrifici dell’Antico Testamento – come quello di Isacco, l’olocausto dello Yom Kippur e i sacrifici quotidiani di agnelli nel Tempio – come anche il sacrificio “di comunione” degli agnelli per la cena della Pesach ebraica.
L’elemento però che il racconto apocalittico rende molto più esplicito è contenuto nell’inno che i viventi e i vegliardi cantano all’agnello: «Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (Ap 5,9). Dunque è evidente che l’agnello è in grado di avvicinarsi al trono, prendere il libro e svelare il senso dell’intera vicenda umana solo perché è stato immolato, anzi perché ha voluto essere immolato: è il sacrificio cosciente e volontariamente scelto a renderlo degno degli onori regali e divini che l’umanità gli tributa. L’agnello regna ed è vincitore proprio perché si è sacrificato per l’umanità peccatrice, perché ha redento e salvato l’umanità perduta e ha dato una svolta decisiva – anzi la svolta ultima e decisiva – alla storia umana, che ora si avvia decisamente verso il suo compimento definitivo, verso la fine dei tempi.
Per questo l’agnello, pur essendo immolato, non sta soffrendo e non giace dissanguato su un’ara, e nemmeno in un freddo sepolcro, anzi le piaghe della sua Passione divengono i segni del suo trionfo glorioso, quasi come le cicatrici di un vecchio soldato non sono vergognosi segni della sua sconfitta ma distintivi gloriosi della sua vittoria. Per questo san Giovanni ci tiene a far notare non solo che l’agnello sta in trono, ma che sta “ritto”, ovvero non è rimasto oppresso e indebolito dalla sua Passione e Morte, ma trionfa vittorioso su di essa: in altre parole Cristo è risorto e l’agnello che sta presso il trono di Dio è proprio Cristo che risorge nella sua umanità gloriosa. Una natura che porta ancora i segni della sua Passione ma che non compromette la vita dell’agnello che vive e, anzi, è in grado di leggere nel libro della vita.
Agnello o leone?
Non è banale notare come, prima della comparsa sulla scena dell’agnello risorto, ad essere evocato non è affatto un agnello mansueto, bensì quello che tra gli animali è considerato la sua feroce antitesi, ovvero il fiero leone. Davanti al pianto di san Giovanni, che non vede chi possa prendere il libro e aprire i sigilli, uno dei ventiquattro vegliardi esclama: «Non piangere più; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli» (Ap 5,5). Dunque di un agnello o di un leone si tratta? Risponde con sicurezza san Bernardo di Chiaravalle: «Giovanni sentì parlare di un leone e vide un agnello. L’agnello aprì il libro e sembrò un leone: è così degno di non rinunciare alla sua mansuetudine ma di ricevere anzi la fortezza, così che rimanga agnello e divenga un leone» (Sermo 1 de Paschate). Il Dottor mellifluo come sempre ha colto nel segno: l’essere leone non esclude l’essere agnello, e l’essere agnello non esclude l’essere leone. Il riferimento al leone di Giuda è chiaramente tratto dalla benedizione che il patriarca Giacobbe rivolse ai suoi dodici figli (o Testamento di Giacobbe), fondatori delle dodici tribù di Israele. In questa si legge: «Un giovane leone è Giuda [...]Non sarà tolto lo scettro da Giuda, né il bastone del comando dai suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli» (Gen 49,9-10). Il senso generale del testo è quello di profetizzare che il Messia sarebbe nato dalla tribù di Giuda ma ciò che ci interessa – e che l’Apocalisse testimonia – è l’associazione della stirpe messianica con la figura del leone, evocata anche nelle profezie di Balaam (cf. Nm 24,9). Ma perché il leone? Il leone è simbolo della forza, del trionfo e del dominio e in ciò possiamo dire che effettivamente il Messia avrebbe dovuto continuare il dominio che la tribù di Giuda (a cui apparteneva il re Davide e la sua discendenza) aveva per secoli avuto sul popolo ebreo. Nella figura di Cristo e nell’agnello-leone dell’Apocalisse però si riuniscono due linee che nell’Antico Testamento erano distinte: quella del Messia vittorioso, il leone, e quella del Messia sofferente, come nel famoso testo del “servo sofferente” di Isaia, in cui si cita esplicitamente l’agnello. È dunque evidente il significato: l’agnello è anche un leone, non perché questi si travesta da agnello per ingannare (come il lupo di evangelica memoria), ma perché la sua forza sta nella mitezza, la sua grandezza nell’umiltà e il suo dominio nel servizio. In tal modo le figure antitetiche dell’agnello e del leone si riuniscono in Cristo, agnello e leone di Giuda, che vince perdendo e domina servendo.
L’agnello vincitore: liberatore, redentore e santificatore
L’arrivo dell’agnello risorto dunque colma l’aspettativa della vittoria del leone e attorno a lui i quattro esseri e i ventiquattro vegliardi prima, e gli angeli del Cielo poi, si assiepano per cantare le lodi di gloria dell’agnello. «L’agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione», rispondono gli angeli al primo coro dei vegliardi. E poi tutti insieme: «A Colui che siede sul trono e all’agnello lode, onore, gloria e potenza nei secoli dei secoli». Come fanno notare molti commentatori, la scena è evidentemente una sorta di intronizzazione del sovrano in stile orientale, anche se l’agnello, effettivamente, non ascende al trono ma sta presso al trono e si limita a prendere il libro e ad aprirne i sigilli.
L’agnello – Cristo nella sua umanità – è degno di onori divini, ma al contempo intercede e media tra l’umanità e Dio onnipotente. Ma in cosa consiste principalmente il trionfo dell’agnello? Il suo trionfo è anzitutto la sua Risurrezione, ovvero la vittoria sulla morte, per questo in tante raffigurazioni le sue zampe sostengono una bandiera con croce rossa in campo bianco, che simboleggia la croce della vita che si impone sulla morte. Interessante è però notare che al capitolo 15 dell’Apocalisse gli eletti «accompagnando il canto con le arpe divine, cantavano il cantico di Mosè, servo di Dio, e il cantico dell’Agnello» (Ap 15,2-3). Il cantico di vittoria dell’Agnello regale («Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente; giuste e veraci le tue vie, o Re delle genti!», Ap 15,3) si sovrappone al canto di liberazione di Mosè, il che non è certo casuale ma indica chiaramente che la vittoria dell’Agnello risorto è innanzitutto la vera liberazione del popolo d’Israele. Una liberazione che non doveva essere politica o mondana – come quella avvenuta in Egitto “in figura” – bensì spirituale, ovvero la liberazione dal peccato e dalla schiavitù di Satana.
Questa liberazione comporta però al contempo il pagamento di un riscatto, costato il prezzo del sangue dell’agnello, tanto è vero che si dice che gli eletti «hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,15). Anche qui un riferimento piuttosto chiaro ai riti pasquali ebraici, dato che sugli eletti viene impresso un «sigillo del nostro Dio» (Ap 7,3), così come prima della fuga dall’Egitto gli stipiti delle porte erano stati segnati con il sangue dell’agnello per evitare l’angelo sterminatore. Evidenziando come le vesti sono sicuramente le loro anime, ciò rende già l’idea di un importante approfondimento rispetto al senso della salvezza, della purificazione e della liberazione rispetto all’Antico Testamento: tutti questi termini vanno intesi in senso interiore e non meramente esteriore e legale, ovvero la salvezza compiuta dall’agnello cambia gli uomini nel loro interno, nella loro anima, e non gli fornisce solo una purezza legale. Per questo la salvezza e redenzione diviene una vera e propria santificazione interiore: «Hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra» (Ap 15,10). Lavati nel sangue dell’agnello, salvati dal peccato e “risorti” spiritualmente a vita nuova, gli uomini sono fatti partecipi della natura divina di Cristo, prendendo parte così al suo sacerdozio e al suo dominio.
L’agnello e la sua sposa
I redenti dunque sono un popolo sacerdotale, nozione diversamente intesa tra gli ebrei: nel popolo eletto infatti Dio si era riservata una delle dodici tribù, quella di Levi, perché i suoi membri servissero Jahvè nel culto divino. Lavati dal sangue dell’agnello, invece, tutti i redenti divengono un popolo sacerdotale – e come aggiunge san Pietro «stirpe eletta e nazione santa» (1Pt 2,9) –, il che significa anche che la vittoria dell’Agnello, la Risurrezione di Cristo, pone fine all’esclusivismo ebraico. Non i soli giudei secondo il sangue sono il popolo eletto ma dall’albero della Croce scaturisce il germoglio del Nuovo Israele, l’Israele secondo la fede, un popolo non tenuto insieme da legami di sangue ma dal legame spirituale della grazia, e potenzialmente aperto a tutte le genti. Per questo è continuo il richiamo al fatto che al popolo dei redenti appartengono «uomini di ogni nazione, razza, popolo e lingua» (Ap 7,9).
Ma anche sotto i veli della simbologia e dei numeri è evidente l’apertura universale della Redenzione a tutti i popoli. Molti commentatori si sono interrogati sia sul numero dei vegliardi, ventiquattro, sia su quello degli eletti, centoquarantaquattro mila. Ora, è evidente che entrambe le cifre giocano attorno al numero 12, in quanto la prima è la somma di due 12 e la seconda è la loro moltiplicazione presa mille volte. E che cosa indica questa coppia duodenaria? La prima indica le dodici tribù di Israele, la seconda i dodici apostoli. Dunque sommando o moltiplicando tra di loro le dodici tribù con i dodici apostoli abbiamo l’apertura universale alle genti, la chiamata di tutti i popoli ad appartenere alla Chiesa nata dal costato trafitto di Cristo. Secondo alcuni questo significato sarebbe insito anche nei 4 viventi, che potrebbero indicare i 4 punti cardinali della terra, verso cui rivolgere il messaggio evangelico. Infatti la Chiesa Cattolica preserva il contributo dell’antico Israele, del popolo eletto, ma lo somma alla rivelazione ricevuta dagli Apostoli, che lo “moltiplicano” poi sulla terra tramite l’annuncio missionario e determinando così i simbolici 144.000 eletti.
In altre parole la Chiesa Cattolica è il compimento perfetto del popolo eletto: mentre in quello infatti molti aspetti erano ancora transitori e imperfetti, nella Chiesa Cattolica si appartiene solo se lavati interiormente dal Sangue dell’agnello, fino a che la veste della nostra anima sia resa candida come il suo vello, ovvero fino a che nella nostra anima non ci sia la grazia soprannaturale che esclude il peccato. La grazia soprannaturale è però la vita stessa di Dio, di Gesù Cristo in noi, ed è quindi una sorta di matrimonio mistico che si compie tra l’anima e Cristo, tra la nostra natura umana e la sua natura divina. Per questo nei passaggi finali dell’Apocalisse l’agnello ritorna in scena per compiere il suo matrimonio con la sua fidanzata, la nuova Gerusalemme o Gerusalemme celeste, che non è altro che un’immagine della Chiesa. Grazie alla santificazione della natura umana operata da Cristo tramite la sua morte e risurrezione, la nostra anima si santifica, cioè si sposa con la natura divina e in tal modo apparteniamo alla Chiesa, la mistica sposa dell’Agnello.
Pastore o pecora?
Altro sdoppiamento antitetico della figura dell’agnello si presenta nel capitolo 7 quando Gesù è detto contemporaneamente agnello e pastore: «Perché l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti dell’acqua della vita» (Ap 7,17). Si interroga anche sant’Agostino: «Che dici o buon Pastore? Tu sei il buon Pastore, che è anche un buon agnello». Non facile comprendere questo sdoppiamento: si potrebbe ipotizzare che qui si guardi il Cristo nelle sue due nature umana e divina, ma il passo sembra riferirsi piuttosto al Cristo come capo del Corpo Mistico, il pastore, e al Corpo mistico di Cristo stesso, gli agnelli, di cui Cristo è il prototipo e il capostipite. Incorporandoci nella Chiesa – Corpo Mistico di Cristo – noi ci assimiliamo a Cristo: gli eletti non sono solo quindi lavati nel sangue dell’agnello, ma nel lavacro di purificazione del Battesimo divengono essi stessi agnelli. Agnelli nell’Agnello, ovvero figli di Dio nel Figlio di Dio. E in quanto agnelli sono del tutto simili all’agnello primogenito, Gesù Cristo, perché una è la vita del Corpo Mistico, una è la vita del gregge che è la Chiesa: la grazia santificante, cioè la partecipazione alla natura divina. Ciò non toglie però che Cristo non è tanto il primo degli agnelli: Cristo non è il primo dei redenti, ma il prototipo dei redenti, e su tutti i cristiani rimane superiore in quanto capo e mediatore presso il trono dell’Altissimo. E in quanto capo è il Pastore del gregge, Colui che lo guida verso i pascoli della Vita eterna. Per questo il capo invisibile della Chiesa, del gregge degli agnelli, fino alla fine del mondo non sarà altro che Cristo, il Pastore unico ed eterno.
L’agnello dalle sette corna e dai sette occhi
Enigmatica è invece nella prima presentazione dell’Agnello la menzione delle «sette corna e sette occhi» che porterebbe su di sé come «simbolo dei sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (Ap 5,6). È ben noto come il 7 nell’Apocalisse sia un numero ricorrente (le 7 chiese, i 7 angeli, le 7 trombe, le 7 coppe) e rappresenti la perfezione della divinità, contrapposto al numero della Bestia che è il 6. L’interpretazione delle sette corna e dei sette occhi è particolarmente dibattuta sia nel senso generale sia anche nella disposizione spaziale che dovevano avere nella visione dell’agnello questi elementi: alcuni infatti immaginano le sette corna disposte come una corona sul capo dell’agnello mentre gli occhi alcuni li pongono sul viso dell’agnello, altri invece sulle stesse corna. Ad ogni modo secondo i più, mettendo insieme questi elementi simbolici, il significato di queste sette corna e dei sette occhi sarebbe quello di indicare come l’agnello abbia la pienezza dei poteri messianici, la dote messianica ricevuta da Dio per compiere la sua missione. Non siamo lontani dal vero dicendo che queste corna costituirebbero come il diadema regale dell’Agnello, ricevuto da Dio Padre per regnare sul mondo, insieme ai doni necessari per svolgere questo dominio. La pienezza dei doni messianici effettivamente poi si declina in un potere vero e proprio (rappresentato dalle corna) – con cui Cristo domina sul mondo, sulla carne e sul demonio – e da una conoscenza profonda e penetrante della volontà di Dio e delle sorti del mondo, indicata dagli occhi. In tal senso non è sbagliato dire che le sette corna e i sette occhi in definitiva si riferiscono a quelli che la tradizione spirituale ha definito i sette doni dello Spirito Santo, che sono la vera dote messianica di Cristo, dote che a sua volta Egli condivide con i cristiani tramite l’effusione del suo spirito.
Agnello eucaristico
In una delle più famose rappresentazioni moderne dell’Agnello – L’adorazione dell’agnello mistico nel polittico della cattedrale di Gand – Jan Van Eyck mette in scena le pagine dell’Apocalisse in una rappresentazione quanto mai ispirata e teologicamente pregnante. Il contesto evidente però in cui pone l’Agnello apocalittico è eucaristico: l’agnello sacrificato, il cui sangue viene raccolto in una coppa, sta in piedi (dunque da risorto e trionfatore) su un altare, che rimanda direttamente al sacramento dell’Eucaristia e al sacrificio della Santa Messa.
Di questa interpretazione eucaristica dell’Agnello apocalittico (e della Sacra Scrittura in generale) d’altronde abbiamo una prova evidente anche nella Liturgia romana, che fa precedere la Comunione proprio dal canto dell’Agnus Dei: «Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi. Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi. Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace». Un grande commentatore medievale della Bibbia, il francescano Nicola da Lira, faceva infatti notare come nel testo dell’Apocalisse non si dice che l’agnello sia ucciso ma che sia «come ucciso». Questo potrebbe infatti rimandare in senso chiaro e diretto al sacrificio della Santa Messa in quanto, come insegna la santa Chiesa Cattolica, il sacramento dell’Eucaristia è un vero e proprio sacrificio, perché rinnova il Sacrificio della croce. Al contempo però tale sacrificio è solo “sacramentale” e “incruento”, perché non comporta l’uccisione di vittime e spargimento di sangue, né si configura come un sacrificio altro e diverso rispetto a quello della croce. Nella Santa Messa si attua di nuovo il Sacrificio della Croce – l’ultimo e definitivo sacrificio e l’unico vero sacrificio della Nuova Alleanza – ma solo in maniera sacramentale, ovvero sotto le specie del pane e del vino che, venendo consacrate separatamente, rappresentano e attuano la morte di Cristo, ovvero la divisione del suo sangue dalla sua carne. Per questo è noto come sant’Andrea apostolo, a cui il Re degli sciti voleva imporre di compiere dei sacrifici di animali, rispose: «Io al Dio onnipotente immolo quotidianamente non la carne dei tori, né il sangue degli arieti ma l’Agnello immacolato, della cui carne si nutre il popolo dei credenti». E acutamente aggiunge: «L’Agnello, che viene immolato, e che rimane integro e vivo».
In effetti, per quanto a prima vista non sia evidente, l’Agnello dell’Apocalisse è un agnello eucaristico, al contempo sacrificato e risorto. Se la Santa Messa rinnova incruentemente il Sacrificio di Cristo (“come ucciso”), il Cristo presente nella Santissima Eucaristia è il Cristo risorto, in quanto Cristo si dà in cibo a noi come pane della vita nuova e come pegno della Vita eterna. E nel darsi in cibo a noi, Cristo ci “agnellizza”, ci rende simili a Lui, condividendo la sua purezza e santità, e così ci fa appartenere più strettamente al gregge dei suoi eletti e alla sua sposa mistica, la Santa Chiesa. L’artista fiammingo ha colto bene, in uno sguardo d’insieme, il mistero dell’Agnello apocalittico che compare, non a caso, tante volte rappresentato anche sulle ostie consacrate dal sacerdote. L’agnello immolato e risorto è presente tutti i giorni nel sacrificio della Santa Messa e nei nostri tabernacoli per svelare anche a noi, come ai vegliardi e ai viventi dell’Apocalisse, il senso della nostra vita e della nostra esistenza.