Il 7 ottobre saranno trascorsi 450 anni dalla celebre battaglia. Scopriamone i protagonisti e riviviamone i momenti per coglierne la portata, lo spirito e soprattutto la segreta arma vincente.
Di tempo in tempo si riaccende il discorso sull’importanza della battaglia di Lepanto nella storia mondiale. Come è ben noto già Voltaire – in cui spesso l’ardore ideologico offuscava il senso storico – aveva tentato di sminuire il valore della famosa battaglia combattuta il 7 ottobre 1571 nelle acque greche tra la flotta dell’Impero ottomano e quella delle forze coalizzate cristiane, ovvero in particolare Spagna, Venezia, Genova, Stato della Chiesa con la partecipazione di alcuni altri Stati dell’allora Penisola italiana. Non aveva tutti i torti il noto scrittore illuminista a sottolineare come i contrasti tra i comandanti e gli Stati cristiani impedì loro di cogliere pienamente i frutti di quella vittoria, ma da ciò non se ne deve concludere perentoriamente l’insignificanza della vittoria stessa. Vero comunque che la battaglia di Lepanto non fu una disfatta totale dell’Impero ottomano, che in pochi anni seppe riprendersi e ritornare a mordere le calcagna dell’Europa cristiana, giungendo nel giro di un secolo a insidiare Vienna via terra (1683) e a riprendere sostanzialmente il controllo del Mediterraneo, soprattutto con la conquista di Creta (1669). Così come è vero che ormai il Mediterraneo non era più lo specchio delle grandi vicende mondiali, dato che con la scoperta dell’America il baricentro si era spostato nel ben più vasto Oceano Atlantico. Tuttavia – a fianco di questi dati geo-politici – non dobbiamo dimenticare come nella storia esistano e abbiano un peso dei fattori ideali, che talora si rivelano i fattori trainanti delle vicende umane stesse. Ebbene, a leggere le fonti dell’epoca e i resoconti di ambo le parti, ne emerge un’importanza della battaglia di Lepanto al di là del suo valore in sé e del contesto geo-politico.
Una battaglia insignificante?
Dunque Lepanto fu una battaglia insignificante? L’affermazione in realtà, così perentoria, è del tutto gratuita, considerando che dell’enorme flotta turca si salvarono – grazie alla fuga – solo 80 galee, mentre più di 180 unità furono catturate o affondate. In altre parole la flotta del sultano risultava quasi completamente annientata. Se a questo si sommano le circa 30.000 perdite in termini umani e gli 8.000 prigionieri catturati, le proporzioni della disfatta turca furono immani, e soprattutto segnarono la fine del mito dell’imbattibilità della Sublime Porta. Per quanto poi un buon numero di galee venne ricostruito in fretta e furia negli anni a seguire, l’Impero ottomano dopo Lepanto perse il dominio incontrastato del Mediterraneo e la potenza di urto degli anni precedenti.
Il rinnovato ardore marino del secolo successivo è da collocarsi inoltre in un contesto ben diverso in cui le scoperte e le esplorazioni geografiche avevano ormai distratto l’attenzione delle grandi potenze – in particolare la Spagna – dal bacino Mediterraneo.
Dall’altra parte, soprattutto in seguito al celeberrimo 11 settembre 2001, gli scontri tra cristiani e islamici – di cui Lepanto rappresenterebbe l’evento più glorioso – sono stati un po’ rispolverati al fine di nutrire l’ideologia del “Clash of civilization”, ovvero della contrapposizione radicale tra una presunta Civiltà occidentale con “il mondo islamico”. In realtà la “Civiltà occidentale” – una sorta di fusione di valori cristiani e liberal-democratici – è un’invenzione della propaganda americana del XX secolo, che rivendicava la guida del mondo e pretendeva di essere erede della tradizione europea. A vincere a Lepanto non fu una presunta e inesistente Civiltà occidentale, bensì la Cristianità, ovvero una società intrisa di valori evangelici, che aveva trovato nel Medioevo la sua realizzazione più compiuta (anche se per forza di cose imperfetta) ma che si prolunga anche nell’era moderna. La Cristianità non ha infatti limiti di spazio (non è occidentale od orientale) né di tempo, in quanto rappresenta la società plasmata in base alla Rivelazione cristiana, Verità eterna che salva e santifica gli uomini.
Una continuazione delle Crociate
Celebrare Lepanto in quanto vittoria della Cristianità sull’islam – uno dei più agguerriti ma non l’unico nemico della Cristianità – significa riallacciarsi alle Crociate medievali. Per quanto in parte diverse fossero le finalità dello scontro, i guerrieri di Lepanto furono continuatori dello spirito crociato.
Le Crociate non erano mai state delle “guerre sante”, volte alla conversione o allo sterminio del nemico islamico, bensì delle “guerre giuste”, combattute per garantire il diritto di una permanenza cristiana in Terra Santa, nonché il diritto di compiere pellegrinaggi nella terra bagnata dal sudore e dal sangue di Nostro Signore Gesù Cristo.
Ben presto, comunque, nel diritto e nella teologia medievale la nozione di Crociata si era allargata anche alle guerre combattute in difesa dei diritti della Chiesa e del Papato, oppure dell’intera civiltà cristiana minacciata da eresie o scismi (dal che anche l’opportunità di abusare della “crociata” per meri scopi politici).
Si può parlare di Lepanto nei termini di una Crociata? Senza entrare nei dettagli e considerata l’ampiezza del termine, lo si può fare in quanto la minaccia dell’espansionismo ottomano non costituiva solo un problema politico ma, e soprattutto, un attentato alla religiosità dei cristiani. In questo senso la Lega Santa tra gli Stati cristiani ereditò e prolungò lo spirito crociato. è vero che il dominio ottomano di per sé non forzava alla conversione, ma le condizioni a cui erano sottoposti i cristiani erano tali e tante da rendere veramente eroico ed economicamente dispendioso il rimanere cristiani. Al contrario i convertiti potevano non solo evitare l’odiosa tassa del dhimmato (alla lettera “protezione”), che pesava sugli “Infedeli”, ma anche ascendere ad alte posizioni sociali e politiche. Non a caso dunque l’esercito ottomano – e soprattutto la flotta – era ampiamente costituita da cristiani convertiti, soprattutto ex schiavi, come il famoso Uluc Ali Pascià, detto anche Uluccialì od Occhialì “il tignoso”, nato cristiano con il nome di Giovanni Dionigi Galeni. Questi era infatti un calabrese fatto schiavo durante una razzia turca che si convertì e, grazie alle doti militari e marinaresche, entrò nelle grazie del sovrano, ascendendo al ruolo di ammiraglio – grado con cui partecipò degnamente alla battaglia di Lepanto – e poi addirittura beyrlebey di Algeri (una sorta di governatore) e Grande Ammiraglio (Kapudan Pasha).
Ma al tempo di Solimano II – l’avvinazzato sultano ottomano della battaglia di Lepanto – era nato cristiano anche il potentissimo gran visir Sokollu Mehmed Pasha, proveniente da una famiglia serba e cristiano-ortodossa della Erzegovina e rapito in tenera età, che fece una rapida ascesa nei ranghi dell’esercito e dell’amministrazione turca. Non ultima poi – anzi forse la più importante figura tra i cristiani rinnegati a Costantinopoli – l’avvenente Nur Banu (3), favorita dell’harem di Solimano II, la quale in realtà era nata cristiana con il nome di Cecilia Venier e dalle mani del nobile padre, governatore dell’isola di Paro, era stata rapita durante un’incursione del celebre corsaro Barbarossa.
Se a questo si aggiunge che non molti anni prima Solimano Magnifico aveva pubblicamente ammesso che lo scopo finale dell’espansionismo islamico era la conquista di Roma, per fare della basilica di San Pietro una moschea, si ha idea di quale pericolo costituisse per l’Europa cristiana l’avanzata ottomana.
Al di sopra di tutto la Provvidenza
Proprio le figure del gran visir Sokollu e di Nur Banu ebbero una parte risolutiva nelle vicende che portarono allo scontro di Lepanto, ma prima di tutto è necessario considerare come non sia possibile cogliere il valore della battaglia di Lepanto senza una visione soprannaturale, in quanto le vicende politiche e diplomatiche rappresentano solo il sostrato di un’opera ben più grande.
La composizione della Lega Santa costò infatti non poca fatica all’animo indomito di san Pio V e, dietro la facciata ideale di un esercito che combatteva sotto le insegne della Croce di Cristo, si nascondeva in realtà un brulicare di interessi politici ed economici contrapposti, insieme a questioni di onore ed antiche rivalità. Così la Spagna spingeva perché la Lega si prefiggesse come primo obiettivo la liberazione di Tunisi, appena strappata dai domini spagnoli, mentre Venezia ribadiva che la nascita della Lega era volta a salvare Cipro, suo dominio, dall’invasione ottomana. I genovesi – alleati degli spagnoli e secolari nemici dei veneziani – invece spingevano per la pace, sia perché conveniva ai loro commerci (da secoli avevano strutture commerciali a Costantinopoli nel quartiere di Galata) sia perché le galee da loro utilizzate erano proprietà privata di Gianandrea Doria – nipote del celebre Andrea – che le affittava alla Spagna, e per questo in battaglia sembrava sempre eccessivamente preoccupato di rimetterci di sua tasca. E d’altronde anche Venezia, in mezzo a guerre e scaramucce con gli ottomani, manteneva sempre fitte relazioni diplomatiche e commerciali con la Sublime Porta, che una guerra “totale” avrebbe potuto minacciare. Per non parlare poi dei dissapori personali che sorgevano spesso tra i vari comandanti e ammiragli per questioni di posizione e di onore. Non che l’Impero ottomano se la vedesse meglio, anzi, a ben vedere, la “politica dell’harem” che si stava imponendo durante il sultanato del mediocre e vizioso Solimano II, lasciava ampi spazi a battaglie di potere sotterranee.
In quel momento infatti un partito della guerra, che aveva dalla sua parte anche la “sultana” Nur Banu e l’intero harem, spingeva Solimano II a lasciare ogni progetto di invasione via terra della Cristianità lungo la penisola balcanica e l’Ungheria per conquistare Vienna. In cambio questo partito influente – che aveva anche dalla sua parte il gran visir Sokollu e il vecchio lupo di mare, l’ammiraglio-corsaro Dragut – prospettava la conquista dell’intero Mar Mediterraneo da Gibilterra al Bosforo, comprese le isole di Sicilia, Corsica e Sardegna, considerate – in un impeto di irredentismo – vecchi domini arabi.
Fu in effetti l’impulso dato dal bellicoso “partito dell’harem” a spingere al tentativo (frustrato) di conquistare Malta – difesa con coraggioso eroismo dai Cavalieri ospitalieri di san Giovanni – e alla vittoriosa invasione di Cipro. Ma dietro queste forze e intrighi umani in effetti operava la Provvidenza divina... da una parte infatti gli intrighi di palazzo Topkapi orchestrati dalla favorita del sultano e visir, che sembravano destinati a condurre l’intero mare Mediterraneo sotto la mezzaluna ottomana, si risolsero nella disfatta di Lepanto e in una frenata secolare nella direzione dell’egemonia marina; dall’altra i non meno immorali e meschini calcoli egoistici di principi, sovrani e maggiorenti cattolici – alla fin fine – furono usati dalla Provvidenza divina per far trionfare il vessillo crociato a Lepanto. Spinti dalla voglia di affermarsi l’uno sull’altro e di sancire la gloria del proprio sovrano, gli ammiragli infatti risvegliarono in sé e nei loro soldati un sano orgoglio che la Provvidenza divina bene utilizzò per la vittoria di Lepanto.
L’ultimo crociato
Se vogliamo però individuare due strumenti della Provvidenza, i quali meglio risposero e collaborarono alla chiamata della grazia divina, questi furono sicuramente don Giovanni d’Austria e san Pio V. «Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Johannes»: la frase del celebre prologo del Vangelo di Giovanni, con cui si introduce la figura di san Giovanni Battista, fu in effetti sfruttata dal destro intelletto del pontefice san Pio V per celebrare l’immagine del giovane condottiero che riuscì a cogliere la più grande vittoria navale dell’epoca moderna su di un avversario – l’Impero ottomano – che era considerato imbattibile.
Ma chi era questo Giovanni d’Austria? Non sbagliò lo storico Arrigo Petacco a definire la sua vita “una favola alla corte di Madrid”, ma ancora più idonea fu la definizione trovata dal celebre romanziere belga Louis de Wohl: “L’ultimo crociato”. Giovanni d’Austria era infatti il figlio naturale ma illegittimo dell’indomito imperatore Carlo V che, nonostante la sua tempra cattolica, negli anni della vedovanza aveva avuto dei rapporti amorosi con la tedesca Barbara Blomberg, da cui era nato a Ratisbona un bambino, chiamato Geronimo, il nostro futuro Juan. Cresciuto nell’anonimato, ben protetto dalla famiglia del fedelissimo compagno d’armi Luis de Quixada, il piccolo Geronimo poco sapeva delle sue origini e del suo destino, ricevendo una buona educazione cattolica e morale dalla moglie del Quixada, donna Magdalena, appassionata lettrice dei romanzi cavallereschi medievali. Carlo V, abdicando al trono e ritirandosi in convento, fece promettere al figlio e successore Filippo II che avrebbe riconosciuto pubblicamente Geronimo come suo fratellastro. Il che effettivamente avvenne, quando Geronimo divenne ufficialmente don Juan, infante di Spagna, per quanto Filippo II – che nel suo carattere ombroso avrebbe sempre temuto la ben più brillante figura del fratellastro – non gli attribuì mai il titolo di “Sua altezza”.
Nonostante fin da subito si fosse pensato per lui una carriera ecclesiastica, don Juan mostrò ben più predisposizione per la vita di armi, a cui lo spingeva un’indomita fierezza e un desiderio di emergere, oltre che alcune velleità mondane mai del tutto domate. E in effetti le sue qualità marziali sfolgorarono fin da subito: in giovanissima età si scontrò e vinse contro gli insidiosi pirati barbareschi e, con fermezza e giustizia, represse le temibili rivolte dei moriscos – gli islamici convertiti a forza – a Granada, i quali volevano creare una testa di ponte per l’invasione ottomana nella penisola iberica.
A 26 anni quindi non fu del tutto imprevista la scelta di don Giovanni “d’Austria” – così come veniva chiamato – come ammiraglio della flotta della Lega Santa. Certamente alla base vi era il movente politico-diplomatico di non dispiacere a nessuno dei grandi ammiragli presenti, scegliendo pertanto un uomo nuovo, privo di inimicizia verso Genova e Venezia, gradito al Papa e imparentato all’Imperatore. Così come, da parte di Filippo II, c’era la speranza di guidare il fratellastro tramite un consiglio di guerra di suoi fedelissimi, tra cui il de Requesens.
In ogni caso la Provvidenza divina dotò quell’esercito variegato e pieno di tensioni interne, di un uomo capace nel mestiere delle armi, pieno di entusiasmo, ma soprattutto capace di comunicare ai suoi uomini uno spirito cavalleresco e crociato di stampo medievale. Si pensi solo che, scrivendo al confessore, circa la repressione dei moriscos di Granada, si dimostrò molto afflitto dalle atrocità e violenze commesse dai suoi soldati, nonché dal miserevole stato di quei ribelli. Si veda la prontezza con cui bandì dalle navi sia le donne (ne rimase una sola, travestita da uomo, per stare vicina all’amato) e sia i fanciulli effemminati, nonché la severità con cui bandì solennemente la bestemmia, in quanto coloro che si preparavano a combattere per la gloria di Dio non potevano contemporaneamente oltraggiare il suo nome: dopo l’esecuzione di tre incorreggibili bestemmiatori in effetti non si sentì più pronunciare volgarmente il nome di Dio. Anzi don Juan ordinò ai cappellani presenti – cappuccini, domenicani e gesuiti – di tenere ogni giorno una predica e di far recitare alla sera il Santo Rosario, dato che il Papa aveva donato a ciascun soldato una coroncina.
A giusto titolo, e con lo spirito di un crociato medievale, don Giovanni d’Austria dunque si preparava a combattere nel nome di Dio, della Chiesa e della Cristianità sotto lo stendardo con disegnata una croce e con la famosa frase che secoli or sono aveva condotto l’Impero romano a Cristo: «In hoc signo vinces» (Sotto questo segno vincerai).
Il Pontefice di Lepanto
Il secondo strumento privilegiato della Provvidenza divina fu invece quel Michele Ghislieri che è passato alla storia, nonché all’albo dei santi, con il nome di san Pio V. “Uomo giusto al momento giusto”, lo definisce Arrigo Petacco, non senza qualche esagerazione circa la sua rigidità e inflessibilità. Ma è proprio vero che san Pio V mise una pietra tombale sopra i residui del Papato rinascimentale, attraverso l’intransigente difesa della Rivelazione cristiana e attuando con efficacia e convinzione quella riforma morale della vita cristiana e del clero tanto auspicata dal Concilio di Trento.
Soprattutto, per questo uomo venuto da una famiglia contadina di Bosco Marengo e allevato presso l’Ordine dei domenicani, poco contavano l’origine nobiliare e le entrature politiche e diplomatiche: da inquisitore si trovò a condannare vescovi e nobili senza riguardi umani, mentre la sua ramazza moralizzatrice si abbatté sui crimini della simonia e della sodomia, purtroppo ben diffusi tra il clero, e contro i potenti usurai romani, affamatori del popolo. Per dare un’idea della stima misto a timore che riscuoteva la figura del Ghislieri bastino le parole dell’ambasciatore veneziano a Roma: «Il palazzo apostolico è divenuto un monastero. Ogni traccia dell’antica vita cortigiana è stata spazzata via».
Parte fondamentale del programma riformatore di san Pio V era anche la lotta contro i turchi che costituivano un problema politico in primo luogo – per il loro espansionismo dalle tinte religiose – ma anche sociale, date le scorrerie piratesche con cui terrorizzavano la penisola italiana, sulle cui coste risuonava troppo spesso il celebre “Mamma li turchi”. Lo stesso cardinal Ghislieri, peraltro, qualche anno prima era finito nelle mani dei corsari turchi, ottenendone grazia solo in virtù della sua magrezza, che lo rendeva poco appetibile come schiavo. La “grazia” ottenuta dai corsari islamici d’altronde fu ben poco ripagata, se si pensa che san Pio V – con la sua autorità morale e la sua capacità diplomatica – fu il promotore, l’autore e il sostegno della Lega Santa, con cui le nazioni cattoliche si coalizzarono contro il turco. Coadiuvato dal principe Marcantonio Colonna seppe vincere le ritrosie dei vari Stati e arrivare il 25 maggio 1571 alla stipula della Lega Santa, che in primo luogo avrebbe dovuto liberare Cipro – ormai da un anno invasa dai turchi, con la città di Famagosta che resisteva coraggiosamente a un prolungato assedio – e poi sventare il pericolo dell’egemonia islamica nel Mediterraneo.
Nonostante i reciproci sospetti tra Venezia e l’Impero di Spagna – non del tutto infondati da entrambe le parti – va dato merito al Sommo Pontefice se si riuscì a sancire un buon accordo per l’allestimento di una flotta e il reciproco sostegno militare. Ma sopra di tutto, dobbiamo far notare che la Provvidenza seppe destinare questa responsabilità a un domenicano. A san Domenico la Madonna aveva dato il Santo Rosario come strumento nella lotta contro gli eretici catari e ora, da buon figlio di san Domenico, san Pio V seppe chiamare all’appello non solo i principi e i militari ma tutto il popolo cristiano, chiedendo la recita generosa del Santo Rosario per liberare l’Europa dal pericolo turco.
La provvidenza di Dio in battaglia
«Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit» (Non la forza, non le armi e i condottieri ma la Madonna del Rosario ci rese vincitori). Il suddetto proclama non sarebbe strano se l’avessimo udito dalla bocca del Santo Padre o di uno dei molti predicatori che affollavano le galee della Lega Santa... In realtà però queste parole furono fatte incidere dal Senato veneziano – forse il più “laico” tra i paesi cristiani presenti a Lepanto – per celebrare la grande vittoria navale. Per quanto in verità non si ricordino dei veri e propri miracoli durante la battaglia di Lepanto, il popolo cristiano, i protagonisti dello scontro e lo stesso Sommo Pontefice san Pio V furono certi dell’intervento della Santissima Madre di Dio. Tanto è vero che i soldati e coloro che a Lepanto si erano liberati dalla prigionia – ovvero gli schiavi rematori delle galee turche – subito dopo lo scontro andarono in pellegrinaggio a Loreto, dove con il ferro dei loro gioghi si poterono costruire le cancellate della Santa Casa.
è stato notato, anche se forse con enfasi eccessiva, come gli schieramenti delle flotte cristiana e turca rappresentassero gli stessi emblemi delle loro religioni: vero è che – come al loro solito – la flotta ottomana combatté con le ali un po’ avanzate rispetto al centro, al fine di accerchiare l’avversario, disegnando una sorta di mezzaluna sulla superficie marina. Per quanto riguarda la flotta cristiana invece lo schieramento era piuttosto lineare sennonché, contando le galeazze venete avanzate e la retroguardia, si può individuare nella loro disposizione una croce un po’ deformata.
Vero intervento “provvidenziale” fu invece quello che poche decine di minuti dopo l’inizio del conflitto cambiò il corso del vento: mentre prima le galee ottomane erano favorite da un bel vento a poppa, che permise loro di avvicinare velocemente l’avanguardia cristiana, improvvisamente il vento cambiò direzione favorendo i cristiani e lasciando le navi turche in balia della spaventosa capacità di fuoco delle galeazze venete, una nuova invenzione di cui i turchi non avevano individuato tutta la pericolosità, scambiandole per navi da carico. Per il resto l’intervento divino nella battaglia non fu miracoloso, ma certo non mancò di assistere i crociati di Lepanto, infondendo loro coraggio, sapienza e guidando le loro mani nella battaglia.
La bandiera di Maometto
Fu certamente la Madonna a sostenere don Giovanni d’Austria nella caparbietà di attuare il progetto, contro l’opposizione del consiglio di guerra propenso a dilazionare le operazioni militari alla seguente primavera. Così come sostenne il coraggio di un Agostino Barbarigo che, per far udire la sua voce in mezzo ai rombi del cannone, sollevò la sua visiera, venendo colpito in pieno volto da una freccia che lo uccise. Allo stesso modo fu sicuramente la Santa Vergine ad addolcire il cuore indomito di Sebastiano Venier, l’ultrasettantenne comandante della flotta veneziana, facendogli mettere da parte questioni di onore militare, per vestire ancora una volta la sua corazza, imbracciare l’archibugio e combattere sul ponte della nave, con le sue caratteristiche pantofole, che doveva indossare a causa di dolorosissimi calli. Forse la Santa Vergine non fu estranea all’ambigua manovra del Doria, che con una specie di fuga in alto mare, prima mise in difficoltà la flotta cristiana, ma poi consentì di distrarre dal combattimento le migliori galee turche, quelle di Ucciallì il tignoso. E non vi è dubbio che nello spirito di sacrificio della galea dei cavalieri di Malta, guidata da Pietro Giustiniani, rifulse il cuore sacrificale della Madre di Dio: i cavalieri infatti, per colmare il buco lasciato dalla manovra azzardata del Doria, si trovarono a combattere contro undici galee turche e in una proporzione di uno contro dieci soldati, riuscendo ad abbattere oltre trecento turchi e sopravvivendo solo in 3 su 35, tra cui il Giustiniani, che aveva però sette frecce turchesche infilate nel corpo.
Per il resto le varie azioni eroiche che costellarono le cinque ore di scontro navale sono degne della miglior storia militare, ma il buon Dio che guida il corso della storia con queste azioni umane realizzò sicuramente il fine tanto implorato dalle preghiere del popolo cristiano. E d’altronde lo scontro ebbe fine proprio quando nel centro della mischia – ovvero nel confronto a mano armata tra la flotta della Sultana di Ali Pascià, ammiraglio capo, e la Real di don Juan d’Austria – il kapudan Ali Pascià fu colpito da un’archibugiata e, pochi minuti dopo, i soldati del celebre tercio di Spagna riuscivano a prendere lo stendardo verde cucito dall’harem del sultano su cui era scritto 29.900 volte il nome di Allah. Al suo posto, sul pennone della nave capitana della flotta ottomana, venne issata la bandiera di sant’Andrea, che fece capire a tutte le galee che la battaglia era finita.
L’esito numerico della battaglia descrive impietosamente le dimensioni della sconfitta: delle oltre 250 galee turche, 117 erano state catturate, 80 affondate e solamente 80 avevano trovato scampo, mentre 30.000 uomini persero la vita e 8.000 furono fatti prigionieri. Nell’esercito cristiano invece solo 8.000 persero la vita e 17 navi vennero affondate, mentre, in parziale ricompensa, 15.000 schiavi cristiani si liberarono o furono liberati dalle galee turche.
La vittoria della Madonna del Rosario
In un curioso e naif affresco della chiesa di Santa Maria di Pazzalino nei pressi di Lugano, un autore locale ha cercato di dipingere proprio lo scontro navale di Lepanto inquadrandolo in una prospettiva soprannaturale. Come in molti altri dipinti ben più famosi – per esempio quelli del Tintoretto e del Veronese – la Madonna aleggia sopra le navi belligeranti e con la sua benedizione e intercessione influenza lo svolgimento della battaglia. Nell’affresco di Pazzalino però la Madonna sembra quasi prendere parte direttamente allo scontro, in quanto figura come un’abile bombardiera che, insieme al bambinello Gesù, passa le palle di cannone agli angeli che le scaraventano sulle navi saracene. Qualcuno – per cercare di spiegare questa scena – ha fatto notare che quelle palle di cannone assomigliano in realtà in maniera singolare ai grani del Rosario, che vengono lanciati come pericolosissime bombe sugli ottomani, che si gettano in mare pur di scappare. E in effetti è questa la verità soprannaturale dietro il conflitto: il Sommo Pontefice san Pio V, da buon figlio di san Domenico, aveva chiamato a raccolta non solo le potenze terrene cristiane ma anche tutti i devoti figli della Chiesa affinché, attraverso la recita del Santo Rosario, sostenessero le truppe cristiane in questa crociata. E in effetti lo stesso Sommo Pontefice – secondo la tradizione – già la mattina del 7 ottobre (cosa impossibile per le comunicazioni del tempo) venne a conoscere l’esito del conflitto e comandò di suonare a distesa le campane di Roma alle ore 12 per celebrare la vittoria, iniziando così la tradizione a noi comune delle campane dell’Angelus. Per perpetuare nel tempo la memoria di questo trionfo ordinò poi che la prima domenica in prossimità del 7 ottobre si celebrasse la festa della Madonna della Vittoria, che il suo successore Gregorio XV spostò alla data fissa del 7 e sostituì con il titolo di Madonna del Rosario.
A Lepanto forse per la prima volta nella storia fu evidente ciò che molti anni dopo la Madonna rivelò ai Pastorelli di Fatima, ovvero che con la recita del Santo Rosario avrebbero potuto ottenere tanti benefici per l’umanità, compresa la fine della guerra mondiale e scongiurare l’avvento del comunismo.