Come Pinocchio sul carro dell’omino di burro, l’umanità del XXI secolo – depistata, imbambolata, ingessata in mondi virtuali – corre verso la sognata civiltà del benessere. L’opera di Collodi parla all’uomo d’ogni epoca, ma si rivolge con sorprendente eloquenza all’uomo del nostro tempo.
Il capitolo VIII di quel capolavoro di fede e di devozione che è Le glorie di Maria di sant’Alfonso M. de’ Liguori, si apre con un’affermazione perentoria e chiarissima di cui l’Autore fornisce immediatamente significato e prova: «È impossibile che si danni un devoto di Maria che fedelmente la onora e si raccomanda a Lei». E di seguito si legge: «Si intende [...] parlare di quei devoti che, desiderosi di emendarsi, sono fedeli nell’onorare la Madre di Dio e nel raccomandarsi a Lei. Costoro, dico, è moralmente impossibile che si perdano».
Quando sant’Alfonso parla di “impossibilità morale” non intende stabilire un legame assoluto di implicazione per cui la devozione e perfino la Consacrazione a Maria Santissima siano una condizione sufficiente per ottenere infallibilmente la salvezza dell’anima. Purtroppo per noi non esiste nulla di simile sulla faccia della terra: non siamo confermati in grazia, non esiste cioè un “passaporto” per il Paradiso che ci proietti automaticamente in Cielo. Tutto dipende da come ci presentiamo al Giudizio di Dio: infinita è la sua misericordia come infinita è la sua giustizia. Tuttavia ci è di grande consolazione questa visione: «Parve a Frate Leone, compagno di san Francesco d’Assisi, di trovarsi in una pianura nella quale v’erano molti angeli, che davano fiato alle trombe, ed una moltitudine di gente. Due scale congiungevano la terra col cielo: l’una era rossa e l’altra bianca. Alla sommità della scala rossa era Gesù Cristo, in atteggiamento severo, e poco dopo più giù c’era san Francesco, che invitava i suoi frati a salire. Costoro però dopo soli pochi scalini cadevano a terra, senza riuscire a proseguire. Allora il Santo disse ai frati di salire per l’altra scala, la bianca, in cima alla quale era comparsa Maria Santissima, raggiante di luce. I religiosi cominciarono la salita e vi riuscirono pienamente, perché aiutati dalla stessa Madonna, che li introdusse in Paradiso». Sant’Agostino diceva: «Maria Santissima è veramente la mistica scala per la quale è disceso il Figlio di Dio sulla terra e per cui salgono gli uomini al cielo».
Il Signore ci ha creati come esseri ragionevoli, se seguissimo tali indicazioni e – ancor più – l’accorato appello della stessa Vergine Immacolata nelle apparizioni di Fatima, dovremmo essere tutti consacrati al suo Cuore Immacolato. È una necessità dei tempi, viviamo in un’epoca difficile, moralmente difficile; i demoni sono scatenati (Papa Leone XIII) e a detta di san Pio da Pietrelcina: «Non potevate nascere in un secolo peggiore di questo...».
Sorprendentemente sono pochi quelli che hanno consapevolezza della gravità del momento, e ancor più pochi sono quelli che si spendono, lavorano e si sforzano di propagare la Consacrazione alla Madonna come richiesta urgente, impellente, inderogabile. Eppure nell’apparizione del 13 giugno 1917 tra le tante “suggestioni” spirituali che la Madonna ci offre, si rappresenta anzitutto un richiamo diretto e una esplicita introduzione alla devozione al Cuore Immacolato. Disse la Vergine a Lucia: «Giacinta e Francesco li porterò fra poco [in Cielo], ma tu resti qui ancora per qualche tempo. Gesù vuole servirsi di te per farmi conoscere e amare. Egli vuole stabilire nel mondo la devozione al mio Cuore Immacolato».
Sembra acclarato un fatto incontrovertibile: il vecchio detto latino «Extremis malis, extrema remedia» trova applicazione anche in ambito spirituale. Non basta credere “più o meno”, non basta lottare ma senza tanti sforzi, non basta praticare una fede tiepida, incerta, claudicante... siamo chiamati a raccolta, a svegliarci da un torpore che ci sta asfissiando, a diventare militi dell’Immacolata e veri seguaci di Cristo. Addirittura nel terzo segreto di Fatima è contenuta una visione drammatica: un Angelo con una spada folgorante che grida a gran voce verso la Terra: «Penitenza, penitenza, penitenza!». La fiamma però si smorzava davanti allo splendore della Santissima Vergine. Si vede che quest’appello o non l’abbiamo capito o non lo vogliamo capire. E sono passati più di cento anni.
Sfortunatamente per noi c’è qualcuno che queste cose invece le ha capite bene, fin troppo bene, e cerca di “depistare” l’umanità, di imbambolarla, di ingessarla in mondi virtuali, fantastici, di ammaliarla in “voli pindarici”, di introdurci in atmosfere sognanti di benessere e di voluttà. Insomma c’è qualcuno che ci vuol far vivere nel mondo dei balocchi e ci vuol convincere che così saremo felici. Altro che penitenza. Forse per comprendere bene di chi si tratta possiamo usare la penna di Collodi che nelle Avventure di Pinocchio, storia di un burattino ad un certo punto introduce un personaggio misterioso: l’Omino di burro.
Al capitolo XXX Pinocchio prende una decisione, disubbidisce alla Fata Turchina e... «invece di diventare un ragazzo, parte di nascosto col suo amico Lucignolo per il “Paese dei balocchi”». Poi al capitolo XXXI: «Finalmente il carro arrivò: e arrivò senza fare il più piccolo rumore, perché le sue ruote erano fasciate di stoppa e di cenci. Lo tiravano dodici pariglie di ciuchini, tutti della medesima grandezza, ma di diverso pelame. Alcuni erano bigi, altri bianchi, altri brizzolati a uso pepe e sale, e altri rigati a grandi strisce gialle e turchine. Ma la cosa più singolare era questa: che quelle dodici pariglie, ossia quei ventiquattro ciuchini, invece di essere ferrati come tutte le altre bestie da tiro o da soma, avevano ai piedi degli stivali da uomo di vacchetta bianca. E il conduttore del carro?... Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva... Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da lui in quella vera cuccagna, conosciuta nella carta geografica col seducente nome di “Paese dei balocchi”».
Questo racconto, immaginifico, di piacevole lettura oltre che di forte impatto emotivo, ci riporta d’incanto agli anni sognanti della nostra infanzia e finiremmo per essere travolti dalla fantasia se non che, d’improvviso, si colora di una (inaspettata) dimensione teologica. Infatti Pinocchio non resiste alla tentazione e cede alle lusinghe del carrettiere. D’altro canto come resistere a colui che lo chiama «...amor mio... che intendi fare? Vieni con noi o rimani?...». Salta in groppa ad un ciuchino e si dispone al viaggio. «Detto fatto, si avvicinò al ciuchino manritto della prima pariglia, e fece l’atto di volerlo cavalcare: ma la bestiuola, voltandosi a secco, gli dette una gran musata nello stomaco e lo gettò a gambe all’aria. Figuratevi la risatona impertinente e sgangherata di tutti quei ragazzi presenti alla scena. Ma l’omino non rise. Si accostò pieno di amorevolezza al ciuchino ribelle, e, facendo finta di dargli un bacio, gli staccò con un morso la metà dell’orecchio destro...». Iniziamo a comprendere che c’è qualcosa di stonato, di stridente, di incomprensibile: l’omino di burro è buono o cattivo? Appena sorge qualche “inghippo” che impedisce al burattino di arrivare alla sua sfortunata meta, egli si trasforma, diventa rabbioso, aggressivo, riesce a malapena a dissimulare l’untuosità delle maniere. L’asinello... «dando una fortissima sgropponata, scaraventò il povero burattino in mezzo alla strada, sopra un monte di ghiaia. Allora grandi risate daccapo: ma l’omino, invece di ridere, si sentì preso da tanto amore per quell’irrequieto asinello che, con un bacio, gli portò via di netto la metà di quell’altro orecchio. Poi disse al burattino: “Rimonta pure a cavallo, e non aver paura. Quel ciuchino aveva qualche grillo per il capo: ma io gli ho detto due paroline negli orecchi, e spero di averlo reso mansueto e ragionevole”. Il carro era già tutto pieno di ragazzetti fra gli otto e i dodici anni, ammonticchiati gli uni sugli altri come tante acciughe nella salamoia. Stavano male, stavano pigiati, non potevano quasi respirare: ma nessuno diceva “ohi!”, nessuno si lamentava. La consolazione di sapere che fra poche ore sarebbero giunti in un paese, dove non c’erano né libri, né scuole, né maestri, li rendeva così contenti e rassegnati, che non sentivano né i disagi, né gli strapazzi, né la fame, né la sete, né il sonno… Gli parve – al burattino – di sentire una voce sommessa e appena intelligibile, che gli disse: “Povero gonzo! Hai voluto fare a modo tuo, ma te ne pentirai!”. Pinocchio, quasi impaurito, guardò di qua e di là, per conoscere da qual parte venissero queste parole; ma non vide nessuno: i ciuchini galoppavano, il carro correva, i ragazzi dentro al carro dormivano, Lucignolo russava come un ghiro e l’omino seduto a cassetta canterellava fra i denti: “Tutti la notte dormono / E io non dormo mai”...
Fatto un altro mezzo chilometro, Pinocchio sentì la vocina fioca che gli disse: “Tienilo a mente, grullerello! I ragazzi che smettono di studiare e voltano le spalle ai libri, alle scuole e ai maestri, per darsi interamente ai balocchi e ai divertimenti, non possono far altro che una fine disgraziata! Io lo so per prova, e te lo posso dire!... Verrà un giorno che piangerai anche tu, come oggi piango io... ma allora sarà tardi!...”. “Via, via... — disse l’omino — non perdiamo il nostro tempo a veder piangere un ciuco. Rimonta a cavallo, e andiamo: la nottata è fresca, e la strada è lunga”. Pinocchio obbedì senza rifiatare. Il carro riprese la sua corsa: e la mattina sul far dell’alba arrivarono felicemente nel “Paese dei Balocchi”».
Fatto sta che dopo mesi di baldoria e bella vita a Pinocchio cominciarono a spuntare due belle orecchie d’asino. Solo l’inizio di una terribile trasformazione, una progressiva disumanizzazione, una mutazione animalesca irreversibile. Efficacemente, così commenta il compianto card. Giacomo Biffi ne Il Mistero di Pinocchio (Editore Elledici 2003): «L’Omino di burro, il carrettiere che conduce Pinocchio nel Paese dei Balocchi, è in realtà la “raffigurazione più alta e originale del nemico dell’uomo”: il demonio. Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole. C’è un posto in questa storia anche per il titolare di ogni influsso malefico, per il genio della perversione, per il nemico che instancabilmente lavora a rovinarci. E assume una divisa un po’ insolita: non ostenta niente di repellente e di spaventoso; al contrario è tutto rivestito di bontà e di dolcezza. Egli non si propone di incutere terrore: si propone di lusingare e sedurre. È pieno di complimenti. “Mio bel ragazzo”, “amor mio”: sono gli affettuosi appellativi con cui si rivolge alle sue possibili vittime. È perfino generoso e disposto, per altruismo, a rassegnarsi a qualche scomodità: “I posti son tutti pieni, ma per mostrarti quanto sei gradito, voglio cederti il mio posto a cassetta! E io faro la strada a piedi”. Ma tanta soavità, evidentemente finalizzata a un disarmante adescamento, copre e al momento cela una risoluta e crudele volontà di male, che all’occorrenza sa spegnere di colpo il sempiterno sorriso delle sue labbra e diventa spietata: “L’Omino non rise. Si accostò pieno di amorevolezza al ciuchino ribelle e, facendo finta di dargli un bacio, gli staccò con un morso la metà dell’orecchio destro”. Egli è il solo a vigilare nella placidità di un viaggio senza scosse verso la perdizione: “L’Omino, seduto a cassetta, canterellava fra i denti: Tutti la notte dormono e io non dormo mai”. Porre su quella bocca infida la semplice e dolce melodia di una notissima serenata popolare è un’invenzione paradossale e felice della grande arte del narratore. Ed è insieme un’ammirevole finezza teologica. Il demonio, si sa, è una creatura attivissima e insonne: se potesse placarsi un po’ e assopirsi, riuscirebbe a redimersi forse anche lui. Con pazienza e lungimiranza egli prepara le sue vittorie sciagurate e pone le premesse dei suoi tristi guadagni. Ma quando si decide a riscuotere non perde tempo in convenevoli e non tollera indugi: “Aprite subito, o guai a voi!”» (Card. Giacomo Biffi).
Che dire? Ormai il senso sotteso dall’Autore è chiaro, la maschera è caduta: i poveri ragazzetti adescati siamo noi, il regista occulto della nostra perdizione non è un “Mangiafoco” caciarone, un burattinaio mostruoso e conclamato che gioca allo scoperto. Al contrario colui che trama il male lavora nell’ombra. Il suo “carretto” ha le ruote fasciate: non fa rumore. È quello che si definisce “un insospettabile”, un adulatore, un finto benefattore dal quale non ci proteggiamo più. Così l’umanità tra divisioni e diversi accenti, tra crisi economiche e climatiche, tra finto progresso sociale e relativismo morale, tra malumori politici e crisi d’identità ecclesiali perfino, galoppa a spron battuto verso un non ben definito Paese del Bengodi. Nessuno si ribella, nessuno denuncia, nessuno protesta anzi tutti tacciono. Però, a pensarci bene e fuor di metafora noi abbiamo un vantaggio su Pinocchio. L’opera segreta, la seduzione strisciante, la buca dell’aspide è stata smascherata dalla Regina delle Vittorie. È come se da Lourdes, da Fatima, da La Salette e dalle apparizioni mariane autentiche, ci provenga un altolà provvidenziale, ultimativo. Un richiamo chiaro ad abbandonare la via del peccato, ad abbracciare la via della preghiera e tornare a Cristo con tutto il cuore. È come se la “Fata turchina” si fosse messa di traverso, avesse fermato il funesto convoglio e smascherato l’omino di burro. Tocca a noi ascoltarla, scendere dal carretto prima che sia troppo tardi, imboccare la strada virtuosa che ci riporta alla Santa Città di Dio, alla vera Fede, all’affidamento totale a Lei e a Nostro Signore Gesù Cristo che ci vogliono tutti salvi. L’Immacolata è per il mondo l’ultima fermata prima dell’abisso.