Dalle sue terzine affiora una marianità tenerissima ma non sentimentale: fondata sulla divina Rivelazione e sulla Teologia. Maria è la materna mediatrice che dopo aver tolto l’uomo dalla «selva oscura», lo introduce alla visione pura di Dio. Mai letteratura ha celebrato la Vergine in modo così poeticamente e teologicamente perfetto.
Il Trecento fu un secolo d’oro della nostra letteratura con i massimi esponenti, Dante, Petrarca e Boccaccio e numerosi altri che vengono designati “minori”, solo perché raffrontati con i grandi. I tre maggiori sono stati meravigliosi cantori di Maria Santissima, soprattutto nelle loro poesie.
“Il Nome del bel Fior”
Di Dante si avvicina (2021) il 700° anniversario della morte (1321) e già fervono studi e commemorazioni che dovrebbero far risaltare l’attualità e la modernità autentica e intramontabile, propria di lui.
Sommo poeta e anche profondo teologo, subì e visse l’incanto e il fascino di Maria e l’ha cantata da par suo. Attinse ispirazione per i suoi versi dalla personale esperienza di devozione alla Vergine. Infatti, parlando di Lei, ci ricorda che per lui Ella è «il Nome del bel Fior, ch’io sempre invoco / e mane e sera».
Nell’Inferno non parla di Maria, ma Beatrice gli rivela che è stata proprio la Santissima Vergine ad aver avuto compassione per il suo smarrimento nella selva oscura. Maria allora invia santa Lucia a Beatrice, affinché aiuti il Poeta ad uscire dalla selva (simbolo del peccato suo e degli uomini) e lo sostenga nel salire al Cielo.
«Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo impedimento ov’io ti mando
sì che duro giudicio lassù frange»
(Inf. II, 93-95).
È la certezza dell’universale mediazione di Maria. Nel Paradiso, prima dell’altissima preghiera di san Bernardo, Dante tre volte accenna a Maria. Il canto dei beati in Cielo, in tutti i cerchi, è familiare al Poeta ed è sempre per lui fonte di gaudio: «“Regina coeli”, cantando sì dolce / che mai da me non si partì il diletto» (Par. XXII, 128).
L’Incarnazione del Verbo nel seno di Maria è ricordata con deliziosa espressione: «Quivi è la rosa in che il Verbo divino / carne si fece» (Par. XXIII, 73). Anche la verità dell’Assunzione di Maria in anima e corpo alla gloria celeste, è testimoniata con una terzina geniale e delicata. È l’apostolo Giovanni che spiega a Dante:
«Con le due stole [=corpo e anima]
nel beato chiostro
son le due luci sole [Gesù e Maria] che salìro;
e questo apporterai nel mondo vostro»
(Par. XXV, 127).
Nel Purgatorio invece Maria è presente in ogni balza come rimedio alle passioni umane che si debbono espiare. Tutti gli episodi evangelici della vita di Maria sono ricordati e documentati con competenza teologica e devozione filiale, a cominciare dall’Annunciazione:
«L’angel che venne in terra col decreto
de la molt’anni lagrimata pace,
ch’aperse il ciel del suo lungo divieto, [...]
Giurato si saria ch’el dicesse “Ave!”;
perché iv’era imaginata quella
ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;
e avea in atto impressa esta favella
“Ecce ancilla Dei”, propriamente
come figura in cera si suggella».
(Purg. X, 34-35).
Un’immagine di richiamo ai superbi, per purificarsi in un cammino di umiltà. Gli accidiosi, piangendo e urlando, ricordano la prontezza di Maria a visitare la sua parente Elisabetta «cum festinatione»: «Maria corse con fretta alla montagna» (Purg. XVIII, 100). Tra il fumo e il buio degli iracondi, appare la visione del ritrovamento di Gesù, ragazzo di 12 anni, nel Tempio mentre disputa tra i dottori della Legge:
«Ivi mi parve in una visione
estatica di sùbito esser tratto,
e vedere in un tempio più persone;
e una donna, in su l’entrar, con atto
dolce di madre dicer: “Figliuol mio
perché hai tu così verso noi fatto?
Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamo”».
(Purg. XV, 85-92).
Quindi il ricordo delle nozze di Cana e l’intervento di Maria per il miracolo:
«La prima voce che passò volando
“Vinum non habent” altamente disse,
e dietro a noi l’andò reiterando...».
(Purg. XIII, 28-30).
Il Natale è contemplato dal Poeta come esempio di povertà da parte di Maria:
«“Dolce Maria!”
dinanzi a noi chiamar [...];
e seguitar: “Povera fosti tanto,
quanto veder si può per quello ospizio
dove sponesti il tuo portato santo”».
(Purg. XX, 19-24).
La presenza di Maria Santissima accanto alla croce di Gesù è ricordata non solo per la partecipazione sua alle sofferenze del Figlio, ma anche per richiamo alla povertà che segnò in modo totale la morte del nostro Salvatore. Così nel canto XI del Paradiso, il canto di san Francesco d’Assisi, “il tutto serafico in ardore”, della povertà di Gesù, vestito solo di lacrime e sangue sulla Croce, Dante scrive:
«Si che dove Maria rimase giuso,
ella [la povertà] pianse con Cristo
in su la croce».
(Par. XI, 71-72).
Marianità fondata
Davvero Dante è teologo ed esegeta che ha familiarità con la Sacra Scrittura, in primis con i quattro Vangeli. La sua pietà mariana – la sua marianità – è tenerissima ma non sentimentale: è fondata sulla divina Rivelazione. Ed è cristologica, come lo è Maria, in modo unico.
La Chiesa stessa, nelle scuole di francescani e domenicani, rispettivamente a Santa Croce e a Santa Maria Novella in Firenze, lo ha condotto ad approfondire la presenza e l’azione mediatrice di Maria. Non si dimentichi che uno dei più illustri maestri di Dante fu il padre Remigio de’ Girolami, domenicano, che era stato allievo diretto di san Tommaso d’Aquino.
Dante conosce tutte le più belle preghiere a Maria e le mette in bocca ai suoi personaggi, l’Ave, la Salve Regina, il Regina Coeli... Maria è Mediatrice di salvezza eterna, accanto all’unico Mediatore che è Gesù Cristo. Di Buonconte da Montefeltro, morto in battaglia, Dante afferma la salvezza eterna, perché la sua ultima preghiera, la sua ultima parola, fu il Santissimo Nome di Maria: è Buonconte che glielo rivela:
«Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola».
(Purg. V, 100ss).
Dante è teologo e asceta, ma profondamente umano, come può esserlo chi vive da uomo “non in libera uscita”, ma da uomo redento divinizzato da Cristo. Ne risulta in lui uno spessore umano carico di nostalgia dell’esule – “exul immeritus” – che è la condizione umana di tutti in questa valle di lacrime.
Il suono della campana la sera suggerisce a Dante un quadro suggestivo che è, certamente, frutto sì di personale esperienza, ma pure comune a ogni uomo:
«Era già l’ora che volge il disìo
ai naviganti, e intenerisce il core».
(Purg. VIII, 1-2).
A quel suono, le anime tra cui si trova Dante intonano l’inno di Compieta, Te lucis ante terminum, che chiude santamente la giornata. Ecco che al calar della notte, dal Cielo scendono due angeli con la spada per difendere le anime dal serpente infernale. Dante rimane incantato dalla bellezza dei due angeli e allora Sordello gli fa sapere che essi sono mandati da Maria Santissima:
«“Ambo vegnon del grembo di Maria”,
disse Sordello, “a guardia de la valle,
per lo serpente che verrà via via”».
(Purg VIII, 37ss).
Dante qui è cantore dell’Immacolata Concezione di Maria, in quanto, avendo Ella vinto e schiacciato la testa del serpente, può mandare due angeli a proseguire la sua vittoria nelle anime.
Le terzine del canto VIII del Purgatorio, colme di nostalgia, faranno scrivere al Carducci il tocco finale dell’ode La Chiesa di Polenta:
«Ave Maria! Quando su l’aure corre
l’umil saluto, i piccioli mortali
scovrono il capo, curvano la fronte
Dante ed Aroldo».
Ancora al presente, dalle nostre chiese si sprigionano i tocchi dell’Ave Maria serale. Ma gli uomini di oggi sono frastornati da tanti rumori, musiche, chiasso o sballo... e quel dolce richiamo all’avvicinarsi della sera, sfugge ai più della città.
Dante, Petrarca, Manzoni, Carducci... sono stati ammaliati da Maria, dai rintocchi che suonano per Lei. Oggi sembra che tutto sia avvolto dalle tenebre senza speranza. Ma Maria Santissima continua ad affascinare, Lei e il Figlio suo Gesù, che è il Figlio di Dio incarnato nel suo seno.
Dopo aver parlato tanto di Maria, Dante sembra pronto alla elevazione finale a Lei, che porta a Dio-Trinità. Ma qui siamo giunti al XXXIII del Paradiso, la preghiera che Dante pone sulle labbra a san Bernardo: «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio», che è la più alta preghiera a Maria che uomo abbia mai espresso e innalzato sulla terra.
Il canto XXXIII
Dopo tanto dire di Maria Santissima dall’Inferno, dal Purgatorio fino al Paradiso, Dante potrebbe rivolgersi direttamente a Lei, ma lo fa quasi mandando avanti, nella supplica, san Bernardo di Chiaravalle, cantore di Maria nelle sue opere, sulla bocca del quale il Poeta pone la grande sublime preghiera alla Madonna, affinché lo introduca alla visione di Dio.
Dante, per lodare Maria, ha creato un linguaggio poetico irripetibile non solo nel canto XXIII, ma anche nei canti XXXI, XXXII e XXXIII, con una varietà di toni che quasi sconcerta, in quanto sembra impossibile a mente umana. Una poesia pura, ineffabile, degna di Colei cui Dante deve la sua salvezza.
Tutto l’insieme crea un’atmosfera lirica levissima che mantiene la tensione dei canti precedenti e infine sfocia nella mirabile preghiera di san Bernardo alla Vergine Madre di Dio, nell’ultimo canto – il XXXIII – del poema che racchiude quanto di più sublime la penna di Dante abbia scritto, superando «l’umana possa», nella celebrazione alla Madonna.
«“Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ‘ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.
Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!”.
Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
per creatura l’occhio tanto chiaro».
(Par. XXXIII, 1-45).
È una lirica elevatissima, ancora più alta delle precedenti. È un inno esaltante di lode e una preghiera. Il linguaggio abbandona le parole e i simboli della lirica precedente. Tutto il resto dell’inno è una raccolta di parole e di espressioni che riveste in modo mirabile tutto il pensiero teologico mariano e lo trasfigura in poesia concisa ed elevatissima, quale nessun poeta aveva osato tentare prima di Dante, né oserà in seguito.
C’è la Verginità di Maria e la sua divina Maternità; c’è il suo posto provvidenziale nel disegno amoroso di salvezza, da parte di Dio. C’è il concepimento di Gesù e il frutto della sua opera d’amore che redime. C’è la Regina del Cielo e della terra; c’è la sua onnipotenza interceditrice di ogni grazia; c’è il suo amore di Madre che soccorre e precede la preghiera degli uomini (come fu per Dante che «ruinava, in basso loco», per essere travolto dalla «selva oscura» del peccato); c’è la sua misericordia e la sua compassione; la sua virtù di operare i più grandi prodigi, la pienezza della bontà; c’è l’onnipotenza supplice; c’è la sua maternità custode di Gesù, ma pure di ogni uomo, reso fratello del suo Unigenito.
In una parola, c’è la mariologia intera, la pietà mariana intera, racchiuse nella “preghiera alla Vergine”, ed espressa nella poesia più sublime che mente e mano umana abbia saputo creare. In modo iconico, nel XXXIII canto del Paradiso, si concentrano le pagine mariane dei Padri della Chiesa, di san Bernardo, di san Luigi M. da Montfort, di sant’Alfonso M. de’ Liguori, di san Massimiliano M. Kolbe, dei mariologi di oggi da padre Roschini a padre Stefano M. Manelli. La teologia che diventa la più alta poesia.
Dopo la preghiera di san Bernardo in favore di Dante, ritorna un’icona di suprema bellezza: Maria è tutta nei suoi occhi, «li occhi da Dio diletti e venerati», soavissima espressione: gli occhi di Maria che Dio stesso fa oggetto di amore e di venerazione, perché sono gli occhi di sua Madre.
Un dantista illustre, a noi caro perché nostro concittadino (di Costigliole d’Asti, anche lui), il somasco padre Franco Mazzarello, nel suo aureo libro Maria nella Divina Commedia (Tip. Emiliani, Rapallo 1984), così conclude: «Il “poema di Maria” si era aperto con gli occhi della Vergine inumiditi dal pianto che commuove Dio per la sorte del poeta, dell’uomo, dell’umanità, e si chiude con quegli stessi occhi belli e lucenti che innamorano Dio e con il loro sorriso incantano Dante, l’uomo, tutta l’umanità. Quegli occhi, se pur non visibili, sollecitamente guardano dall’alto del Cielo più sublime [= l’Empireo] tutta la vicenda allegorica del poema, seguendo Dante figlio di salvezza, e l’intera umanità da lui simboleggiata, di cui Maria è madre. L’intero poema scorre alla sua presenza che soccorre e salva, così come Dante la sentiva profondamente».
Per questo è possibile definire la Divina Commedia: sì “il poema di Cristo”, ma anche “il poema di Maria”.