Prendendo spunto dalla brevità dell’esistenza di alcune creature, riflettiamo sulla durata della vita umana e sul suo senso ultimo alla luce della fede.
Se si consulta il vocabolario dell’enciclopedia Treccani si legge una definizione molto precisa ed interessante di che cosa si intende in italiano per “effimero”: «Effìmero agg. [dal latino tardo ephem?rus]. – 1. a. Che dura un solo giorno: febbre e. (o effimera s. f.), locuzione usata specialmente in passato per indicare un accesso febbrile di breve durata (12-48 ore), insorgente per causa non precisata. b. Per estensione, che ha breve durata: fama, gloria, grandezza e.; illusioni, speranze e.; neologismi e.; le ricchezze materiali sono effimere».
La semantica già ci insegna molto: la fama, la gloria (mondana), le illusioni... sono tutte cose effimere. Durano poco, anche lo spazio di un solo giorno, poi svaniscono, non ci lasciano niente, sono state inutili, sterili, non ci hanno arricchito, sono state gioie temporanee, fugaci, delle illusioni appunto. Qual è il grande rischio nel vivere una vita nel segno della carnalità e della caducità delle cose di questo mondo, senza Dio, senza la fede, senza una prospettiva trascendente? Il rischio è appunto questo: anche se vivessimo cento anni, magari con alle spalle onori, fama, successo, ricchezze e... anche avendo accumulato una gran quantità di esperienze, di sensazioni, ecc., l’intera vita diventa effimera, breve, sfuggente, quasi incomprensibile. Il traguardo finale (l’ultimo comune denominatore di ogni vita) aborrito, detestato, sfuggito, volutamente ignorato, la cui ombra sinistra non ci ha abbandonato mai, si presenta di lontano come una realtà angosciosa, innaturale, inumana. Nostro Signore Gesù Cristo in pochi tratti, con sconcertante esiguità di parole, ci presenta in tutta la sua drammaticità questa condizione: «Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?» (Mt 16,26). Alla presa di coscienza della finitezza dell’essere si accompagna un’istantanea dilatazione dell’orizzonte degli eventi.
È una grande grazia del Cielo accorgersi per tempo che non finisce tutto sulla terra, che esiste un Aldilà, che c’è un destino eterno che ci attende. La vita ci appare in tutta la sua preziosità, in tutto il suo valore di dono inestimabile, di anticamera del Paradiso. E allora – inevitabilmente – iniziano le domande più pregnanti e importanti: come ci siamo preparati? Come abbiamo vissuto? Quanto bene abbiamo fatto e quanto male? Un conteggio sommario, ma realistico, ci lascia di stucco: due miliardi e ottocento milioni. Questi sono i battiti cardiaci di un essere umano in tutta la sua vita, dalla nascita alla morte. Mediamente si intende. Il telefonino che portiamo in tasca ha un “cuore” (clock) che batte tutti questi battiti in un solo secondo! La metà di questi battiti li abbiamo “usati” per dormire e per mangiare, un’altra bella fetta – per così dire – se ne è trascorsa nell’incoscienza dei primi anni, nell’infanzia. Sant’Agostino nelle sue Confessioni ha illustrato con maestria il bilancio della vita riguardata dopo la conversione.
È come un fiume osservato dall’alto, da una roccia sopraelevata: se ne intuisce il corso, l’andamento, se ne vedono finalmente con chiarezza le anse, le curve, i mulinelli. Gli eventi che prima ci apparivano misteriosi, enigmatici, oscuri acquistano improvvisamente un senso profondo. A conti fatti non possiamo recriminare nulla contro Dio: ci rimangono comunque un miliardo di battiti (circa un miliardo di secondi) durante i quali siamo stati maturi, responsabili, coscienti, dotati di libero arbitrio ed anche (forse poco) logici. Questo è tutto: questo è il tempo medio che Dio mette a disposizione dell’uomo per fare le sue scelte, per decidere se stare con Lui o contro di Lui, se arricchirsi con i tesori nel Cielo o se dissipare il patrimonio ricevuto come fece il figliol prodigo. Sono pochi, sono molti? Dipende. Guardiamo la vita dei santi. Troviamo casi eclatanti: sant’Agnese è morta santa a 13 anni; Giacinta Marto e Francesco veggenti di Fatima a 9 e 10 anni; san Luigi Gonzaga, novizio gesuita, 23 anni; san Domenico Savio, santa Teresina di Lisieux 24 anni... morti giovanissimi. San Gabriele dell’Addolorata, novizio passionista, 23 anni. Poi ci sono stati santi longevi: san Parisio è uno dei santi più anziani che si conoscano, visse ben 108 anni in un’epoca in cui a fatica si raggiungevano gli 80 anni; sant’Alfonso M. de’ Liguori circa 90 anni... Proprio sant’Alfonso nel suo capolavoro mariano Le glorie di Maria mostra un caso opposto per cui un fanciullo di soli 8 anni era già meritevole dell’inferno e solo l’intercessione dell’Immacolata lo ha salvato dalla perdizione eterna. Non c’è da sorprendersi, nel tempo che ci è stato assegnato si decide il nostro destino eterno: nel bene e nel male. D’altro canto la Sacra Scrittura lo ricorda molte volte, siamo «come l’erba che germoglia al mattino: al mattino fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca [...]. Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua ira, finiamo i nostri anni come un soffio. Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo» (Sal 89,5). Ed anche: «Perché egli sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere. Come l’erba sono i giorni dell’uomo, come il fiore del campo, così egli fiorisce. Lo investe il vento e più non esiste e il suo posto non lo riconosce» (Sal 103,14). Ma Colui che più di tutti ha insistito affinché prendessimo coscienza della (potenziale) brevità della vita terrena è stato Nostro Signore: «Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!» (Mt 5,25).
Un tempo perciò che diventa breve ed insufficiente solo se lo usiamo male ma che è fin troppo lungo per coloro che in vita sono diventati perfetti nell’amore ed eroici nell’esercizio delle virtù. «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno» dice san Paolo (Fil 1,21). Qualcuno ha osservato che il valore del Tempo lo capiremo bene solo quando ci troveremo in Purgatorio. Lì il tempo non passa mai e la pena del danno consiste proprio nella dolorosa separazione temporanea dall’Amore eterno. In un certo senso anche la natura ci è maestra nell’amministrazione dei giorni e degli anni che ci sono stati assegnati. Gli animali, le piante, gli esseri viventi dal più microscopico dei batteri alle gigantesche sequoie secolari non perdono tempo: ognuno, a modo suo, compie la volontà di Dio inscritta nei propri geni. Microbi a parte, il caso più curioso lo troviamo proprio nell’Effimera. Lo dice il nome: Effimera. È una farfallina che vive per poche ore. Trascorre una parte della sua vita sotto forma di larva nei corsi d’acqua dolce superficiali e si nutre delle cose che trova, di foglie ed alghe. Il nome scientifico è Ephemeroptera dal greco ephemeros, significa “che vive un giorno” e difatti è proprio così: dopo lo stadio ninfale, le Ephemeroptere – chiamiamole Effimere in italiano – sono immediatamente in grado di volare, ma nascono senza l’apparato boccale. Non possono nutrirsi, non hanno bocca, devono solo trovare un compagno per riprodursi e continuare la catena delle generazioni. La maggior parte delle femmine depongono dalle 500 alle 3.000 uova che cadono nell’acqua e diventano anche preda dei pesci. Per un singolare, magnifico, meccanismo naturale, anche se la maggioranza delle uova viene divorata dai predatori, trote, pesci gatto, un certo numero sopravvive e il miracolo della vita si perpetua nei secoli. Da migliaia di anni le Effimere sciamano nell’aria, tutte insieme, nella stessa notte, in un fenomeno impressionante per cui l’aria si riempie letteralmente di insetti come in un turbinio di foglie. Al mattino sono tutte morte e un tappeto di ali e di piccoli corpi giace e ricopre le acque da cui sono nate. Negli Stati Uniti le chiamano Mayfly, ovvero letteralmente “mosche di maggio” ma la loro “avventura” riproduttiva avviene anche in altri periodi dell’anno. Si rimane ammirati nel considerare come un meccanismo perfetto, fatto sia di grandi numeri quanto di “economia” vitale e organica, fa sì che le ninfe nascano senza possibilità di alimentarsi, solo di riprodursi. Eppure il ciclo naturale mantiene il loro numero praticamente costante. In effetti tutte le creature esprimono, ognuna a modo proprio, un aspetto particolare della volontà di Dio insito nella legge naturale. Animali, piante, microbi, balene... tutti gli rendono gloria, umili, obbedienti, docili all’istinto che governa la loro specie.
Agli esseri umani è richiesto molto di più. Siamo creature senzienti, intelligenti, volitive, create ad immagine e somiglianza di Dio stesso. La seconda Persona della Santissima Trinità si è incarnata nel seno purissimo dell’Immacolata, il Verbo si è fatto uomo! Abbiamo ricevuto di più e di più ci è richiesto: «Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio. Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete, voi valete più di molti passeri» (Lc 12,6). In un senso più che metaforico noi abbiamo il “dovere” di credere in Dio, di scoprirlo, di conoscerlo, di servirlo, di glorificarlo in questa vita per poi goderlo nell’altra.
È sorprendente dover constatare che oggigiorno, in piena epoca di progresso informatico-scientifico-tecnologico, quando sembra di sapere tutto e di poter arrivare dappertutto, si viva invece nella completa ignoranza del senso ultimo dell’esistenza e dei suoi confini temporali. Per molti la vita continua a rimanere un fenomeno enigmatico, oscuro, imposta e guidata da un “fato” cieco, inconoscibile, crudele perfino. Addirittura diventa un nonsense porsi domande ultime ed ultimative (che pure sentiamo sorgere nell’intimo della coscienza), come l’interrogarsi sull’esistenza di Dio, dell’anima, dell’universo spirituale che non si vede e non si può sperimentare. Diventa inevitabile il ripiegamento su se stessi o su cose fatue, l’ossessiva ricerca dei piaceri mondani, di “riprodursi” senza tanto pensare come le Effimere che però lo fanno in perfetta sintonia con la loro natura. La negazione su base pseudoscientifica del trascendente è al contempo causa ed effetto della perdita della prospettiva spirituale e fonte di grande sofferenza. Giungono come provvidenziali o anche come un estremo tentativo di riportare alla ragione l’umanità smarrita, confusa, disorientata, le parole di Nostro Signore riguardo al tempo: «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (Mt 25,13).