FEDE E CULTURA
Si parte!
dal Numero 41 del 20 ottobre 2019
di Fabio Trevisan

Una visione profondamente cristiana del mondo e della storia attraversa come in filigrana i capolavori di Tolkien, plasmando personaggi, luoghi e vicende. Mediante le sue opere, l’Autore ci introduce al senso dell’avventura, intesa come una chiamata al bene che il cuore generoso dell’uomo non deve rifiutare. Di questo parliamo lungo il cammino con Tolkien.

«Non essere pazzo, Bilbo Baggins! – si disse – Pensare ai draghi e a tutte quelle bizzarre assurdità all’età tua!».

Dopo che il cosiddetto lato “Tuc” si era risvegliato ascoltando il desiderio dei cuori dei Nani, Bilbo l’aveva messo successivamente da parte, l’aveva accantonato e stava, come al solito, facendo tranquillamente colazione: «Si fece una bella colazioncina in cucina prima di avviarsi verso la sala da pranzo. A questo punto il sole splendeva, e la porta d’ingresso era aperta, facendo entrare una tiepida brezza primaverile». Potremmo dire, usando le espressioni simpatiche dello Hobbit, che tutto era predisposto per una comoda e rotonda giornata e infatti Bilbo, come racconta Tolkien: «Cominciò a fischiettare forte e a dimenticare quanto era accaduto la notte precedente».
Cos’era quel misterioso lato “Tuc” messo a sopire, di cui aveva accennato Tolkien nella descrizione di Bilbo? Faceva parte dell’albero genealogico dello Hobbit, in cui un illustre antenato, Ruggitoro, aveva preso parte con onore e ardimento alla battaglia di Campiverdi contro gli orribili orchi. Nel sottolineare il lato coraggioso Tuc nel sangue di Bilbo, Tolkien non lesina di farci sorridere con un lieve e raffinato umorismo, alludendo al rilassato gioco del golf: «Ruggitoro colpì e staccò di netto la testa del re degli orchi Gofimpal con una mazza di legno [...] la testa cadde giù in una tana di coniglio: in questo modo fu vinta la battaglia e, contemporaneamente, inventato il gioco del golf». Il riferimento al gioco del golf fa ricordare, da una parte, l’aspetto bellicoso Tuc e, dall’altra, la dimensione ordinaria tranquilla e amena di Bilbo. Non a caso la caduta e la perdita dell’aspetto guerriero Hobbit avviene con lo spiccare della testa dell’orco orripilante che rotola in una tana di coniglio! Potremmo dire, continuando con la metafora della paura da coniglio, che a Bilbo Baggins non mancava che prepararsi per una bella partita di golf! Altro che avventure con i Nani a caccia di draghi!
Ancora una volta spetterà a Gandalf risvegliare quel torpore e far ricordare la bellezza dell’impegno, della responsabilità della mission. Sarà il pungolo Gandalf il Grigio a far smettere a Bilbo il vestito dello Hobbit vecchio e a farlo crescere, quasi evangelicamente, in quello nuovo: «Vecchio mio – gli disse – ma quando ti decidi a venire? E la partenza di buon’ora? Eccoti qui a fare colazione, o come la vuoi chiamare, alle dieci e mezzo!». Gandalf rammenta così a Bilbo il senso della vita, la natura della sua chiamata, della sua vocazione a cui spetta dare una risposta. Invano Bilbo cercherà di sottrarsi all’avventura con una sfilza di dubbi, palesati da ripetuti e incerti: «Ma...». «Non c’è tempo» avvertirà lo stregone. I Nani lo aspettano, Gandalf lo sollecita e finalmente si decide. Bilbo Baggins, accorgendosi di essere rimasto attardato, inizia a correre per recuperare il tempo perduto. Gandalf sembra suggerire che il tempo passa e che a tutti noi (Hobbit, Nani, Uomini) non deve sfuggire che, nel tempo in cui ci è concesso di vivere, è necessario dare una sollecita e adeguata risposta. Abbiamo tutti, come Bilbo, un lato misterioso “Tuc” che ci aspetta e si profila all’orizzonte. Dobbiamo conservare noi tutti l’immagine preziosa (resa viva e palpitante nel film di Peter Jackson) di un Bilbo, uno Hobbit qualunque, ma non qualunquista, che affannosamente corre e chiede di essere aspettato perché anche lui sta arrivando.
Dopo che Bilbo Baggins, in qualità di “scassinatore”, si era definitivamente messo in cammino in sella a un pony con i Nani e con il sopraggiungente Gandalf su di un cavallo bianco, l’allegra brigata passò dalla lietezza dei canti e dei pasti a un’atmosfera più desolata. Tolkien ha voluto farci vedere come la tristezza spirituale e l’incombenza del male si accompagni alla geografia del paesaggio, alla qualità delle relazioni degli abitanti di quelle terre: «Davanti a loro si ergevano sempre più alte tetre colline, scurite dagli alberi. Su alcune di esse si levavano vecchi castelli dall’aspetto sinistro, come se fossero stati costruiti da gente malvagia». Alla solare Contea degli Hobbit il grande Scrittore inglese contrappone la perversione e la distruzione del paesaggio: «Tutto sembrava deprimente, perché quel giorno il tempo si era messo al brutto». Tolkien sapeva, da sano cattolico qual era, che Iddio si compiacque fin dall’origine (ex nihilo) della bontà e bellezza delle Sue opere. Nel libro della Genesi infatti Dio vide che il creato era cosa buona! Sapeva anche che l’opera del maligno era devastante e realisticamente presente, in forme e modi che deturpavano persino il paesaggio. Il peccato aveva deformato quei luoghi e resa incerta e difficile quella che sembrava inizialmente un’allegra scampagnata, una bella avventura: «Pioveva a dirotto, come aveva fatto per tutta la giornata; il cappuccio gli sgocciolava negli occhi, il mantello era pieno d’acqua; il pony era stanco e inciampava nei sassi, e gli altri erano troppo di cattivo umore per parlare». Fu a contatto con questo profondo male, che tagliava il paesaggio e penetrava inevitabilmente nelle ossa, che Bilbo ebbe il primo sentimento nostalgico, ovvero il desiderio della sua calda ed accogliente casa. La ricerca di un bene che, in quelle circostanze, pareva assente lo fece borbottare: «Quanto vorrei essere a casa nella mia bella caverna accanto al fuoco, con la cuccuma che comincia a fischiare».
La descrizione accurata della mutevolezza atmosferica fa da pendant con il grigiore e l’afflizione dell’anima; le traversie faticose della missione sono inasprite dalle condizioni meteorologiche. Il sole scompare, il buio inizia a calare, il vento soffia e persino i salici, piegandosi quasi su se stessi, sospirano! Sublimemente Tolkien getta un’ancora di salvezza a quei vagabondi ora mesti, a quei pellegrini intrepidi ed infreddoliti: egli fa uscire dal paesaggio, a motivo di salvezza, un antico ponte di pietra su cui passare ed evitare la morte del peccato e l’infausto declino del paesaggio. Un salvagente divino, un passaggio sicuro oltre le nuvole grigie, oltre i fiumi gonfi d’acqua, oltre ogni pericolo. Solo allora, precisa Tolkien, i Nani e lo Hobbit si accorsero della scomparsa di Gandalf: «Fu solo allora che si accorsero che Gandalf non c’era. Fino a quel punto li aveva sempre seguiti senza mai dire se era anche lui dei loro o se si sarebbe limitato ad accompagnarli per un po’. Aveva mangiato più di tutti, parlato più di tutti, e riso più di tutti. E adesso era semplicemente sparito!». Gandalf era stato sempre con loro e non li avrebbe, nonostante la loro erronea percezione, mai abbandonati. Proprio allora, pensavano, sentivano il bisogno della sua assistenza e desideravano una guida (anche spirituale) salda e sicura.

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