FEDE E CULTURA
Il ’68 e la musica
dal Numero 36 del 15 settembre 2019
di Fabio Trevisan

Anche il Sessantotto ha avuto la sua colonna sonora. La musica di quegli anni è lo specchio di una contestazione giovanile capillare che, mentre fondeva i diversi suoni del blues, del rock’n’roll e del folk, con i testi e lo stile dei suoi protagonisti sferrava l’attacco contro ogni tipo di autorità.

Le radici della contestazione giovanile

Quando un fenomeno rivoluzionario come il ’68 esplode nelle università e nelle piazze, da Parigi a Roma, nelle strade e nei raduni collettivi, da Woodstock all’Isola di Wight, significa che le cause sono remote e che gli effetti, ora visibili, sono stati preparati nel tempo. La musica di “quei formidabili anni” (1) (parafrasando un libro assai noto di Mario Capanna, indiscutibile leader in Italia del Movimento Studentesco) era lo specchio di una contestazione capillare che il mondo giovanile aveva sferrato a ogni autorità: istituzionale (lo Stato, la Patria, le forze dell’ordine, le leggi), ecclesiale (soprattutto contro la Chiesa Cattolica), familiare (in particolare contro i padri), sociale (università, fabbriche) e morale (contro i valori della cosiddetta “società borghese e capitalista”).
Secondo il pensiero di Plinio Correa de Oliveira (1908-1995), in particolare nel saggio Rivoluzione e Controrivoluzione (2) del 1959, rivisto vent’anni dopo e quindi dopo il ’68, il fenomeno rivoluzionario era determinato da delle tendenze disordinate riconducibili all’orgoglio e alla sensualità che costituivano rispettivamente l’aspetto ugualitario (l’odio contro ogni superiorità e quindi contro ogni autorità) e l’aspetto liberale (il desiderio di spezzare ogni freno, ogni barriera, ogni limite) di ogni rivoluzione. Quando si parla del ’68 quindi, oltre ad identificare la natura dei vizi capitali che lo caratterizza, è doveroso inquadrarlo in un prospetto temporale più ampio, in una teologia della storia che lo qualifica come momento storico di un “processo” maturato nel tempo. Le radici della contestazione giovanile e la ribellione violenta di quegli anni vanno ricondotte quindi a un clima di sovvertimento di un ordine precedente, in un desiderio sempre più sfrenato di “libertà” (al plurale) che conduce al libertarismo, ossia all’ideologia liberale in cui la libertà non è più aspirazione legittima al bene né tantomeno al “bene comune” ma piuttosto rimanda alla consumazione individualistica della soddisfazione del proprio “io”. In questo senso il ’68 rinsalda, unisce istanze rivendicative diverse, dal movimento femminista o dei “diritti delle donne” al movimento studentesco o del “diritto allo studio”, dai gruppi politici di Sinistra anche extraparlamentari all’anarchismo in tante sue sfaccettature, dal canto di protesta degli schiavi neri negli Stati Uniti d’America (in particolare nel blues) alla musica beat e rock di contestazione nello stesso Occidente e così via per innumerevoli altri aspetti. Si può quindi considerare obiettivamente la rivoluzione del ’68 come pervasiva, totale e dominante: dalla religione alla politica, dall’etica al profilo giuridico, dalla scuola al mondo del lavoro, dalla famiglia ai media, dai costumi (le mode) all’arte.


La colonna sonora del ’68

Negli Stati Uniti la Contestazione iniziò nell’Università di Berkeley già nei primi anni ’60 attraverso la figura di un alter ego del già menzionato Mario Capanna, Mario Savio. Nel 1964 Mario Savio fu uno degli artefici della rivolta studentesca nel campus di Berkeley. I temi propugnati con veemenza a Berkeley da colui che fu considerato il leader del Free Speech Movement erano quelli fatti propri dalla Rivoluzione sessantottina in tante altre parti del mondo: il rifiuto e la contestazione della guerra in Vietnam, l’anti-autoritarismo e il pacifismo, la denuncia di ogni sorta di discriminazione, la ribellione contro una società borghese e il rifiuto di tutti i suoi valori. Anche la musica pop (contrazione dalla radice popular) di quegli anni non poteva non risentire di quel clima di protesta, di contestazione, di liberazione e nasceva dalla fusione di generi diversi: dal blues al rock’n’roll, dal folk al rhytm’n blues solo per citarne alcuni (3). Questa nuova musica pop diventava così la colonna sonora del ’68, unitamente all’emblematico e caratteristico slogan libertario: «Libera mente, liberi corpi, libera droga». Negli Stati Uniti Jim Morrison (1943-1971), leader e vocalist dei Doors, gridava la ribellione contro ogni autorità e inveiva contro la possibilità di dialogo con la generazione dei padri cantando: «Padre, ti voglio uccidere» (4). Analogamente in Inghilterra il gruppo degli Who cantava in My generation l’odio contro le generazioni passate, devastando strumenti musicali sul palco, stanze d’albergo, testimoniando il carattere violento, intransigente e radicale del loro modo di vivere, come si evince dai loro testi: «Cercano di buttarci giù solo perché siamo in giro. Le cose sono così terribilmente fredde. Spero di morire prima di diventare vecchio» (5). Gli Who, dal 1965 in poi, diventeranno così il simbolo giovanile dei Mods (dalla radice modernism) ed anche nel modo di vestire rappresenteranno le istanze più estreme del proletariato giovanile che in loro e simili gruppi si riconosceva. Non vanno dimenticati gli epiloghi drammatici e violenti, a testimoniare la “cultura trasgressiva e di morte” di molti altri personaggi musicali dell’epoca: Jimi Hendrix (1942-1970), uno dei più grandi chitarristi neri del rock, Janis Joplin (1943-1970), una delle voci bianche blues più apprezzate dell’epoca, Brian Jones (1942-1969), uno dei fondatori del celebre gruppo Rolling Stones e così via per molti altri.


Il beat e i Beatles

Nei primi anni ’60 si formava il complesso musicale più noto al mondo, i Beatles, che già dal nome scelto indicava quel fenomeno “beat” (battito) che allora imperversava ed il cui riferimento musicale derivava dai poeti della Beat Generation e da altri generi musicali precedenti (rock’n’roll, swing, blues) provenienti dagli Stati Uniti. Il fenomeno “Beatles” fu tale che uno dei componenti più famosi, John Lennon (1940-1980) ebbe a pronunciare in quegli anni la fatidica frase: «Siamo più popolari di Gesù». Quei quattro celeberrimi ragazzi di Liverpool dettero origine alla cosiddetta “beatlesmania” incarnando nei gesti, nel vestire, nelle pettinature, nel cantare e in tanti altri aspetti il desiderio di emancipazione di quell’epoca. In pochi anni, soprattutto dal 1963 al 1968, i Beatles divennero icona di quella rivolta giovanile, anche attraverso l’abile regia di un produttore tuttofare come Brian Epstein, che aveva curato nei dettagli l’immagine di quel gruppo (6).
Tale popolarità del gruppo musicale di Liverpool non era confinata solo alla musica, alla poesia o alla moda, se pensiamo addirittura alle cosiddette “Messe beat” celebrate in quegli anni anche in qualche parrocchia italiana e riprese ironicamente dal grande scrittore parmense Giovannino Guareschi (7). In quella musica si riconoscevano schiere innumerevoli di giovani (e non solo giovani) che desideravano un cambiamento, una rivoluzione, una rottura definitiva con il passato. Cambieranno anche i cerimoniali collettivi come ad esempio Woodstock, Wight, Re Nudo in Italia, nei quali imperversava il nudismo come “espressione libera dei corpi” o l’LSD come anelito di menti “finalmente liberate” dal giogo di una vituperata società borghese. Anche il celebre motto: «Fate l’amore, non fate la guerra» esprimerà, nella condanna del Vietnam o di altri scenari di guerra, non solo il pacifismo ideologico, ma anche il sovvertimento dell’ordine naturale attraverso l’amore libero, l’orgia, la sfrenatezza senza più limiti né barriere.


In principio era... il blues!

Agli inizi degli anni ’60, musicalmente parlando, ovviamente non c’erano soltanto i Beatles. Vanno infatti ricordati almeno i Them e la loro mente, Van Morrison, con quella sua particolare voce tagliente. In Inghilterra arrivavano da Oltreoceano musicisti neri che suonavano, con armonica e chitarra, il blues e incontravano, come Sonny Boy Williamson (1912-1965), come John Lee Hooker (1917-2001), solo per citarne alcuni, nelle cantine fumose di Newcastle, di Richmond o di Londra, gruppi emergenti giovanili come ad esempio gli Animals dalla voce graffiante e possente di Eric Burdon o come gli Yardbirds, che hanno avuto tra le loro fila tre fra i più famosi chitarristi dell’epoca, ancor oggi celebri: Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page. I Rolling Stones di Mick Jagger e di Keith Richard, la più grande band mondiale di rock’n’roll, si ispiravano al blues (“Rolling Stones” era il titolo di un brano del bluesman Muddy Waters) e rappresentavano con violenza l’inquietudine giovanile, la ribellione anarchica contro l’establishment (8), proponendo con forza il triangolo sesso-rabbia-violenza attraverso canzoni come Satisfaction, Let’s spend the night together, Out of our heads o come album dal titolo inequivocabile: Sympathy for the devil.


La musica psichedelica e la West Coast

Quando si parla di musica psichedelica si intende una liberazione della psiche, della mente, una ricerca artistica secondo lo slogan rivoluzionario (già ricordato) di “espansione dell’area della propria coscienza”. In questo senso i Pink Floyd, attraverso il fondatore Syd Barrett, ci indicano sin dalla scelta del nome del gruppo, un orientamento non solo musicale ma anche di way of life, di visione del mondo in un contesto rivoluzionario. “Pink Floyd” infatti era in quegli anni il nome di una delle più celebri “qualità” di LSD (9), a testimoniare quanto la droga fosse considerata un mezzo per liberare la fantasia e sprigionare la potenza creativa. A suggellare l’importanza della radice della contestazione stava, come abbiamo precedentemente descritto, il blues quale fondamento di protesta contro l’oppressione, subita non solo da parte della popolazione afro-americana: infatti il nome del gruppo dei Pink Floyd era pure riferito a due famosi bluesmen della Georgia, Pink Anderson e Floyd Council. Se nei Rolling Stones o negli Who o nei Doors o nei Led Zeppelin ed ancor più in gruppi hard rock come i Deep Purple il messaggio rivoluzionario era violento ed esplicito, nei Pink Floyd la contestazione era invece preparata da un tappeto musicale rarefatto sul quale si poteva udire il passo felpato che precedeva l’urlo di liberazione sconvolgente, come si può ascoltare in un passo assai famoso in uno dei loro album più significativi: Ummagumma. Anche negli Stati Uniti, soprattutto nella mitizzata West Coast, il cosiddetto “acido” suggeriva solchi musicali che, nella fusione di blues e rock, potesse liberare la mente nella ricerca utopica di quel “peace & love” seppur apparentemente contraddetto dallo stesso nome di uno dei gruppi più rappresentativi, i Grateful Dead (“Morte Gratificante”). Ancora negli USA i Jefferson Airplane cantavano l’inno di liberazione contro l’America dei padroni e della guerra (10) facendo proprio il grido di scrittori rivoluzionari della Beat Generation come Allen Ginsberg, Jack Kerouac (a cui si deve l’espressione “on the road” che tanto influenzò i costumi e le espressioni artistiche del ’68), Neal Cassady e molti altri.


La “Scuola di Canterbury”


Quella che è stata chiamata “Scuola di Canterbury” ha riunito in Inghilterra a metà anni ’60 un drappello di musicisti folli che ha cercato, nell’ottica del libertarismo radicale, di abbattere tutti i cancelli del conformismo “piccolo-borghese”, come veniva definito a quei tempi, per creare un suono alternativo, una voce libera, con testi provocatori e allusivi a quelle sfere (sesso, droga) ritenute rigidamente bloccate dal sistema (11). Uno dei gruppi più famosi usciti dal mondo utopico di Canterbury sono stati i Soft Machine (nome tratto dalla “morbida macchina” nel romanzo omonimo di William Burroughs, uno scrittore vicino al movimento della Beat Generation). Tossicodipendente e omosessuale, Burroughs (1914-1997) fu figura di riferimento nel mondo trasgressivo, diventando icona libertaria e rivoluzionaria, anche per il contatto che ebbe a New York con i poeti americani della Beat Generation come Ginsberg, Cassady, Kerouac, che lo elessero come loro “padre spirituale”. All’inizio degli anni ’60 studenti d’arte, musicisti, appassionati di teatro, di jazz, di musica contemporanea e d’avanguardia si ritrovarono nella casa del leader dei Soft Machine, dove, come ha testimoniato il dissacrante musicista dandy Kevin Ayers: «A casa di Wyatt si poteva trovare di tutto, soprattutto sesso, musica e droga» (12).
In questa sorta di anarchismo vagheggiato, sintetizzato nel famoso slogan: «La fantasia al potere», nascevano i Gong e il loro allusivo pianeta (Planet Gong) su cui vivere alternativamente: un manifesto di disobbedienza musicale (ma evidentemente non solo musicale) portato all’eccesso con chitarre stralunate, saxs sarcastici, il tutto sintetizzato dalla banana come simbolo cosmico-fallico (13) e dal concetto di Gong Global Family, espressione anticonformista da esportare (interessante il riferimento alla globalizzazione), come l’agognato libertarismo proposto a modello anti-regime. I Gong furono creatori pure di una saga mitologica con personaggi e leggende inventate, spesso sotto l’effetto di droghe e allucinogeni, come ebbe a dire lo stesso Allen: «Ho avuto una visione durante il plenilunio della Pasqua del 1966 in cui io non ero che un esperimento sotto la supervisione di forze soprannaturali, i Dottori dell’Ottava, i quali alimentavano e trasformavano ogni forma di vita attraverso la musica». In questo quadro mitologico-allegorico dove la fantasia poteva spaziare (non a caso l’esperimento è chiamato pure Space Gong) si ritrovavano ancora una volta tutti quegli elementi distintivi del ’68: la ribellione contro ogni autorità, divina e naturale, il pacifismo intrecciato con la liberazione sessuale, la ricerca di una politica, di un’arte, di un anticonformismo slegato da ogni tipo di ordine, soprattutto se allusivo ai valori umani e cristiani. Il ’68 fu quindi una Contestazione che partiva dall’esclusione di Dio dalla vita umana e dall’organizzazione politico-sociale.


Il progressive rock e l’influenza folk

Sul finire degli anni ’60 compaiono sulla scena musicale, soprattutto inglese, numerosi gruppi, i cui membri spesso provenivano da studi classici, come ad esempio Keith Emerson (1944-2016), che formerà il famoso trio Emerson, Lake and Palmer, o Rick Wakeman, celebre tastierista degli Strawbs e degli Yes, e ancora John Cale, fondatore dei Velvet Underground assieme a Lou Reed. Alcuni gruppi, come i Procol Harum, riprenderanno persino l’austerità solenne dell’Aria sulla quarta corda di Bach (14), così come Keith Emerson imiterà i Quadri di un’esposizione di Musorgskij e Wakeman alcune musiche di Franz Lizst.
Molti altri complessi musicali, agli inizi degli anni ’70, incideranno dischi live con orchestre sinfoniche o da camera, a testimonianza di quanto la musica rock, in tante sue espressioni, portasse a lambire innumerevoli “mondi”, dal classico al folk, dal blues al jazz. Tra i tantissimi gruppi che faranno riferimento al “progressive rock” meritano una menzione particolare i King Crimson (il cui perno, Robert Fripp, fonderà in un suono ricercato e intenso, il lirismo espressivo con la nevrosi di un’era elettronica), i Traffic (con una miscela accurata di folk, blues, jazz, rock e con la voce originale di Stevie Winwood, prima nei Spencer Davis Group) (15), i Genesis (in cui il perfezionismo tecnico, la sontuosità teatrale saranno al servizio del loro linguaggio musicale) (16), i Van der Graaf Generator (con la voce allucinata di Peter Hammill e la sezione strumentale fatta di sax e tastiere che evocava profezie esistenziali legate a un mondo fantascientifico), gli Yes (i cui impasti vocali precederanno, richiamandoli, i Queen di Freddy Mercury), i Jethro Tull (con l’istrione flautista Ian Anderson a innovare l’uso dello strumento anche su influenze classiche), i Colosseum (con una sintesi prodigiosa di jazz e blues), i Family (che inseriranno riferimenti letterari, sociologici, evocando la poesia visionaria in una miscela musicale complessa), i Ten Years After (con la versione allucinogena di I’m going home, suonata a velocità supersonica da Alvin Lee). Anche la musica folk è stata un costante punto di riferimento nella musica pop legata al ’68, basti pensare alle sintesi artisticamente molto belle e con influssi addirittura di musica antica dei favolosi Pentangle.


La canzone di protesta

La contestazione del ’68 ha avuto quindi un carattere anti-metafisico (contro ogni principio di autorità, la trascendenza di Dio è stata la prima ad essere liquidata dall’orizzonte della propria vita) e anti-cristiano, tanto che, come si è visto, in un’ottica di protesta contro il sistema si è preferito un profilo di religiosità orientale al posto della religione cristiana dell’Occidente. Quest’opzione non è dipesa soltanto dal legame con droghe e allucinogeni e dalla loro potenzialità a liberare le menti: in tal senso meriterebbero un ulteriore approfondimento le esperienze con i vari guru indiani fatte dai Beatles, come anche la figura di un cantautore famoso come Cat Stevens, che cantava l’utopia pacifista di quegli anni affiancandola all’interesse per il buddismo zen.
Nell’ambito musicale il ’68 è stato un urlo di protesta di una generazione che ha espresso il proprio malessere e il proprio disprezzo contro Dio, contro l’establishment, contro i “padroni della guerra”, contro ogni discriminazione (o presunta tale). Questo canto di protesta affondava le radici in tanti generi musicali e credeva di liberare la mente, il corpo e lo spirito assumendo atteggiamenti anticonformisti, dissacranti, trasgressivi che arrivavano pure alla violenza fisica contro un mondo da trasformare e distruggere. La strumentazione rotta sui palcoscenici dagli Who, la lotta corpo a corpo contro le tastiere di Keith Emerson, gli atti osceni in luogo pubblico dei Doors e il pacifismo ostentato in Joan Baez con quell’inno “We shall overcome” cantato a squarciagola nei grandi raduni collettivi, gli oltraggiosi travestimenti di un Alice Cooper o di David Bowie, giocati da quest’ultimo attraverso l’ambiguità sessuale in un quadro di riferimento decadentista. Tutti questi gesti eclatanti, queste urla disperate (che avranno nei gruppi heavy metal o hard rock la loro massima espansione), questi travestimenti irriverenti, questi testi dissacranti e sconci costituiranno, assieme alle musiche, un unico potente grido di protesta, un’utopica sfida al Cielo e alla terra che, in nome di una libertà senza freni, distruggerà, come ogni rivoluzione, se stessa. Bob Dylan, uno dei più ammirati menestrelli o folk-singer di riferimento di quell’epoca, sulle orme del suo idolo Woody Guthrie, inizierà quel “vagabondaggio barcollante per il creato” (17) che lo porterà, con zaino e chitarra a tracolla, a scrivere canzoni di protesta come Blowin’ in the wind o Master of War, calcando palcoscenici che andavano dal Greenwich Village di New York all’Isola di Wight, divenendo uno dei “leader spirituali” del ’68.


Il ’68 in Italia nelle canzoni

Dal punto di vista musicale l’Italia ha vissuto pienamente il fenomeno beat dall’inizio degli anni ’60 scopiazzando i più famosi complessi inglesi (a partire soprattutto dai Beatles) o americani (ad esempio il rock’n’roll di Elvis Presley). Dal punto di vista della canzone di protesta emergevano cantautori che riprendevano temi classici della rivoluzione sessantottina, come la sessualità, la droga, la tutela dell’ambiente, il pacifismo, l’emarginazione sociale e politica, con riferimenti anche ai chansonnier francesi (si veda ad esempio la cosiddetta “scuola di Genova” con Fabrizio De André). Anche la “scuola emiliana” ha rimarcato la protesta del ’68 colorandola di venature esistenziali e politiche a Sinistra (Claudio Lolli, Francesco Guccini).
Quella che ha contraddistinto il ’68 musicale italiano è stata però la canzone politica, dove l’esplicito e costante riferimento marxista ha ideologicamente sostituito (o accompagnato) l’ideologia libertaria tipica dei Paesi anglosassoni. La militanza politica in gruppi anche extraparlamentari come Lotta Continua o Potere Operaio, che poi ha condotto negli anni ’70 agli “anni di piombo” del terrorismo, ha avuto come cassa di risonanza anche la musica, ad esempio quella di Paolo Pietrangeli nell’emblematica Mio caro padrone domani ti sparo del 1969 o del suo secondo LP dal titolo inequivocabile: Karlmarxstrasse.


Conclusioni

Quella che è stata la Contestazione o la Rivoluzione del ’68 è ancora possibile udirla, ascoltandone la “colonna sonora” negli allora dischi di vinile dei primi vagiti beat o rock’n’roll. Questa originale musica pop-rock ha conosciuto sin dalle origini varie contaminazioni (con il blues, con il jazz, con il folk, con la musica classica e persino con il country) per approdare a nuovi generi musicali come il progressive rock fino alla musica cosmica, psichedelica e elettronica. Lo stravolgimento della morale comune, dell’educazione e dei costumi non ha potuto che rivolgersi in primis contro la famiglia e l’autorità dei “padri” tanto che si può parlare, attraverso la sub-cultura hippie, di “rivoluzione sessuale”. Gli effetti della Contestazione sessantottina hanno avuto come sicuro riferimento e causa i poeti della Beat Generation (i loro temi, le loro esperienze, il loro stile di vita) per quanto riguarda gli Stati Uniti. Credo che la guerra del Vietnam e il blues, come stile per sottolineare l’oppressione e ogni sorta di discriminazione, siano stati solo occasioni per far esplodere la “mina vagante” della Contestazione, che è stata, lo ribadisco, essenzialmente una Rivoluzione totale, pervasiva, dominante (18). A questo grido di protesta libertaria si è intrecciata, soprattutto in Italia, la canzone politica di chiara origine marxista, con l’inevitabile corollario violento e terroristico.
A chi crede che questa tipologia di Rivoluzione sia terminata mi permetto di sottolineare e far presente come la dissoluzione della famiglia, l’esaltazione dei “diritti” anche sessuali, la negazione del principio d’autorità abbiano avuto, soprattutto ai nostri tempi, un’accelerazione socio-politica e culturale inimmaginabile, collegabile alle istanze e rivendicazioni del ‘68. Quei “formidabili anni” (19) così pregnanti di sogni e illusioni non sono definitivamente tramontati, magari come qualcuno pensava erroneamente con il crollo dell’impero social-comunista, ma sopravvivono nei cuori e nelle menti di molte persone, nei cambiamenti di costume, di mode, di riferimenti culturali e anche musicali poiché il processo rivoluzionario continua attraverso tappe, luoghi, riti e infinite trasformazioni. Gli stili musicali possono cambiare ma l’essenza della Contestazione rimane. La Rivoluzione del ’68, seppur celata, apparentemente meno aggressiva, prosegue ancor oggi il suo cammino sovversivo, la sua canzone di protesta.




NOTE
1) Mario Capanna, Formidabili quegli anni, Rizzoli.
2) Plinio Correa de Oliveira, Rivoluzione e Controrivoluzione, Edizioni dell’Albero.
3) Roberto Cacciotto-Claudio Garbari, Note di pop americano, Gammalibri.
4) Ibidem.
5) Idem, Note di pop inglese, Gammalibri.
6) Ibidem.
7) Giovannino Guareschi, Don Camillo e i giovani d’oggi, Rizzoli.
8) Roberto Cacciotto-Giancarlo Radice, Note di pop inglese, Gammalibri.
9) Ibidem.
10) Idem, Note di pop americano, Gammalibri.
11) Idem, Note di pop inglese, Gammalibri.
12) Ibidem.
13) Ibidem.
14) Roberto Cacciotto-Giancarlo Radice, Note di pop inglese, Gammalibri.
15) Traffic, Dear Mr. Fantasy (LP 1967).
16) Roberto Cacciotto-Giancarlo Radice, Note di pop inglese.
17) Ibidem.
18) Plinio Correa de Oliveira, Rivoluzione e Controrivoluzione, Edizioni dell’Albero.
19) Mario Capanna, Formidabili quegli anni, Rizzoli.

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