FEDE E CULTURA
Musica per il Cielo. La vocazione della musica cristiana
dal Numero 35 del 8 settembre 2019
di Giuseppe Butrimo

Quale musica è davvero in grado di veicolare il messaggio cristiano? Per un messaggio imperituro e soprannaturale serve qualcosa che, come la grande musica sinfonica o il canto gregoriano, attraversi i secoli e parli di quell’Alto cui ogni essere umano tende.

Non è forse noto a tutti che il compositore preferito di Adolf Hitler, il celebre Richard Wagner, coscientemente ed esplicitamente voleva, tramite le sue opere musicali, scatenare le passioni umane e rivoluzionare la società. Il progetto eversivo di Wagner prese forma soprattutto nel periodo di amicizia con il filosofo nichilista tedesco Friedrich Nietzsche, ai tempi del suo La nascita della tragedia, a cui seguirà poi un periodo di gelo e uno di inimicizia aperta. Nietzsche vedeva nella musica di Wagner la possibilità di ribaltare la società “apollinea” – cioè basata sul Logos ellenistico e cristiano – con quella “dionisiaca”, basata sulla superiorità delle passioni sulla razionalità. Per questo non meraviglia la grande popolarità che l’autore delle Valchirie poté godere nel Terzo Reich.
Nello stesso periodo, nella Russia sovietica giungeva all’apice il monumentalismo corale rappresentato dal grande coro dell’Armata Rossa, fino ad oggi famoso in tutto il mondo come il coro di Alexandrov. I dittatori, come prima di essi tutti gli specialisti della propaganda di tutti i tempi, ben sapevano che la musica costituisce un potere tanto misterioso quanto grande.
La musica, in qualche modo, è un linguaggio capace di influenzare la natura umana in maniera più diretta e incisiva: il filtro della ragione, che normalmente sovraintende ai nostri rapporti con il mondo che ci circonda e con i vari linguaggi, qui non è assente ma molto meno importante. La musica è capace di giungere immediatamente alla sensibilità, evitando il controllo della ragione, e questo la rende tanto affascinante quanto pericolosa. Se grande è il potere della musica, altrettanto grande è anche la responsabilità di chi la scrive ed eseguisce. In effetti, ogni artista – dai poeti e scrittori ai pittori e scultori, agli attori e registi – si trova davanti ad una scelta. Può cercare di assecondare le passioni umane oppure addirittura fomentarle, e può anche cercare di indirizzarle verso l’alto e sublimarle. È esattamente la stessa scelta che affronta un amico fidato del re, potendo cercare di soddisfare i suoi capricci ed eccitarli ancora di più con l’adulazione, oppure usando invece la sua posizione privilegiata per l’autentico bene del sovrano stesso, cercando di aiutarlo a superare le proprie debolezze, rendendolo un uomo sempre più nobile.


La forza della musica

Ma se è vero che tale è la responsabilità di ogni artista, osiamo affermare che quella dei musicisti è ancora più grave. È così, perché la musica, apparentemente la meno “ideologizzata” delle arti, in realtà influenza l’uomo forse più di qualunque altra. La musica, nella sua misteriosa alchimia matematica, è come se arrivasse più immediatamente al cuore dell’uomo, quasi senza la mediazione dell’intelletto... Così, sentendo i notturni pianistici di Chopin oppure i grandi concerti di violino di Bruch, Ciajkovskij o Sibelius sembra quasi che il martello del pianoforte batta direttamente sul cuore dell’ascoltatore oppure che l’arco del violinista accarezzi la sua anima.
La musica, per essere goduta, di per sé non esige una riflessione profonda, ma – se ben indirizzata – può facilmente aiutarla. Al sentire i drammatici accordi di una delle grandi sinfonie di Beethoven, Dvo?ak o Mahler, un poeta può facilmente trovare ispirazione per una sua opera. Un uomo schiacciato dalle difficoltà della vita potrebbe trarre da questa musica il coraggio per affrontarle. Una mamma che eroicamente sta crescendo un drappello di figli potrebbe ritrovare l’entusiasmo necessario per intraprendere un altro sacrificio. I potenti toni del Requiem di Mozart sono in grado di consolare chi dispera dopo la morte di una persona cara; sono in grado, anche, di inculcare il timore della morte. Il Dies irae, questo capolavoro di Mozart, come pochi altri pezzi musicali, ci fa intravedere la grandezza di Dio. Come, nello stile ben diverso, fa anche il Te Deum di Bruckner.


Musica e parole

La musica non viaggia tramite i ragionamenti, mentre chi legge una poesia o un romanzo, ci deve pensare. Se la musica veicola le parole – parliamo del canto –, spesso le fa entrare quasi subdolamente nelle menti e nelle memorie. Basti pensare a quanti conoscono a memoria i pezzi dei cantanti anglofoni pur non conoscendo l’inglese (e similmente, nei tempi più fortunati per la musica, quanti sapevano cantare il Va pensiero oppure il Libiam non rendendosi minimamente conto del significato dei capolavori verdiani).
Tuttavia, il vero potere della musica non sta nel poter veicolare le parole. Un esempio semplice. La Moldava di Bed?ich Smetana oppure la Finlandia di Jean Sibelius portano tutta una carica di patriottismo anche senza parole. D’altro canto è evidente che se ad una melodia bassa, profana ed inquietante, si accostassero le parole di una poesia di san Francesco d’Assisi oppure dello Stabat Mater, non per questo la cosa diverrebbe buona e susciterebbe pensieri sereni e positivi. Anzi, la cosa sembrerebbe una provocazione di cattivo gusto, una vera profanazione...
È stato proprio questo il tentativo, in fondo suicida, di quei preti e laici che dopo la rivoluzione culturale del Sessantotto promossero le “Messe beat” o le “Messe rock”. Forse nell’entusiasmo del momento le persone di buona fede non si accorsero che quel che facevano altro non era che una disgustosa provocazione ed una profanazione. Col passar degli anni si è visto chiaramente che proprio nei Paesi dove simili esperimenti ebbero più popolarità, oggi le chiese sono più vuote.
Ma si tratta solo delle chiese? Forse in altre circostanze il “beat cristiano” e il “cath-rock” potrebbero essere una chiave per aprire i cuori dei giovani? Non si può escludere che in qualche caso la grazia possa servirsi anche di tale mezzo. Ma di regola, semplicemente non funziona. Un’immagine emblematica ho potuto contemplarla trovandomi una volta in un grande pellegrinaggio in Polonia. Davanti ai miei occhi sfilavano uno dietro l’altro i gruppi dei pellegrini. In molti di questi gruppi camminava qualche uomo con un microfono in mano, di solito più o meno cinquantenne (ed era il pellegrinaggio degli studenti!), cantando del “rock cristiano”. I giovani attorno non lo seguivano, anzi erano evidentemente imbarazzati da questo giovanilismo fuori luogo. E i gruppi erano piccoli. E, come mi disse uno degli organizzatori del pellegrinaggio, di anno in anno diminuivano. Non fa meraviglia; in effetti, nel campo di un basso divertimento il rock cristiano comunque è destinato a perdere la battaglia con la concorrenza mondana, proprio per l’interna mancanza di coerenza, oppure per il doversi porre quei limiti che l’avversario mondano abbatte.


Rock cristiano, sacro-profano

Ma il problema non è solo di una mera efficacia sociale. Alla musica possiamo applicare le parole di Nostro Signore sul vino nuovo e gli otri vecchi. Solo che, paradossalmente, ciò che è antico non è vecchio e ciò che è “nuovo” invecchia subito... Il messaggio evangelico è sempre giovane; tra i generi musicali di fattura umana ci sono quelli che non invecchiano mai, come le polifonie di Monteverdi oppure come l’immortale corale gregoriano e come quelle melodie che le successive generazioni ricordano con il medesimo sentimento (pensiamo a Noi vogliam Dio). Ma quei generi musicali che non nascono per elevare gli animi, ma per soddisfare l’animale che sta in noi, non sono mai giovani. Ciò non stupisce: in effetti, mentre lo spirito non invecchia mai, la carne porta sin dalla nascita il segno della propria morte alla quale si avvicina... Così avviene, in certo senso, anche con la musica “carnale”.
Ed anche se questi generi musicali fossero in grado di produrre un sentimento religioso (effimero, del resto!), ciò non sarebbe conveniente, come non è conveniente mettere il vino della Messa, destinato a diventare il Sangue di Cristo, in una lattina con scritto “Coca-cola”.
Un “rock cristiano” non potrà mai costituire una via di uscita dalla crisi musicale che rode la Chiesa non meno che la crisi morale e dottrinale. Il rock è un genere musicale sorto proprio per fomentare le passioni umane. Può essere piacevole, può essere emozionante ascoltarlo, ma non è una musica che eleva il suo ascoltatore.
Non sarebbe certamente una seria proposta di miglioramento per una società di drogati cominciare a produrre una “droga cattolica”, magari con la speranza che sotto l’influsso delle sostanze chimiche uno cominci a desiderare l’unione mistica con Dio. Non sarebbe una via di uscita dalla crisi morale del nostro mondo pansessualista proporre – come purtroppo fanno molti – di spostare le frontiere invalicabili della Morale cristiana e promuovere le mode immodeste perfino tra le file cattoliche. Quale, dunque, può essere la risposta? L’opposizione serena ma costante a ciò che non va bene. E in tale senso, una opposizione radicale e totale. Contro il pansessualismo occorre riproporre l’ideale della castità, della dignità, della fedeltà. Alle varie droghe della modernità si oppone la serena chiarezza di una mente non alterata da sostanze stupefacenti. Allo scatenamento delle passioni si risponde con l’intramontabile ideale dell’autocontrollo col quale si può mettere le passioni stesse al servizio del bene maggiore.


Efficacia della bellezza

E se ci si preoccupa che ciò potrebbe essere poco attraente per i giovani, rispondiamo con tutta convinzione: chi dice così o lo dice perché è nemico del bene o perché non sa quello che dice. Niente è cambiato dai tempi in cui Claudel affermò che la gioventù è fatta per l’eroismo e per l’affermazione generosa dell’ideale. Gli ideali, come pure la bellezza, sanno accendere i cuori di quel fuoco non solo più puro, ma anche più forte rispetto alle fiamme delle passioni. E credo d’aver intravisto anche questo nell’occasione summenzionata, quando dopo tutti questi gruppi decimati (ma pur rimasti fedeli all’apostolato del rock cristiano), davanti a me sfilò l’unico grande gruppo del pellegrinaggio: senza chitarre, senza rock, ma con i tradizionali canti religiosi; quelli che rimangono sempre giovani. E l’organizzatore mi disse che “questo è l’unico gruppo che ogni anno cresce”.
È così. L’Occidente ormai post-cristiano ha perso nel XX secolo il senso del sacro; si pensava che l’avvicinamento al mondo avrebbe portato a una “nuova primavera”. Si costruivano chiese brutte come fabbriche, si promuoveva “l’arte” desacralizzata nelle astrazioni o deformazioni. Si “semplificò” la Liturgia per far “comprendere” meglio quel che è comunque incomprensibile. Ed alla fine? Alla fine i cattolici praticanti in Europa sono calati almeno di dieci volte rispetto a quel cupo “inverno” che precedette la sospirata “nuova primavera”. Lo stesso vale per la musica.


Portare alla perfezione

L’unica via di uscita dalla crisi, in questo come negli altri campi, è quella di ricordarsi sempre del fine. La musica autenticamente cristiana deve sempre tenere conto del grande ideale della vita cristiana: la santità che richiede un perfezionamento della persona.
Questo, al loro livello, facevano i semplici canti devozionali del popolo. Questo facevano i vespri mariani del Monteverdi, oppure le Messe di Palestrina. Sono dei capolavori che possono, sicuramente, entusiasmare un qualsiasi amatore della musica polifonica, ma per un cristiano esse costituiscono veramente un’eco della musica dei cori angelici; sono le melodie che toccano i cieli e che fanno toccare i cieli.
E forse, ancor più fa questo il canto gregoriano: quella musica misteriosa, semplice e insieme profonda, così austera se paragonata ai ricchi ornamenti delle composizioni barocche oppure al monumentalismo del romanticismo. Eppure, è proprio quell’austero gregoriano a portare nelle anime e nelle menti la pace più profonda: fino al punto che questa musica la usano come “cura” – proprio alla stregua di una medicina – numerosi uomini affaccendati che purtroppo non avrebbero mai pensato di potersi recare in chiesa. È un triste paradosso che mentre psicologi atei scoprono, a modo loro, la grandezza e l’utilità della musica della Chiesa, nelle chiese così raramente la si può ascoltare.

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