Dopo gli eventi del Venerdì Santo, riuniti nel Cenacolo gli apostoli ricordarono i momenti di profonda intimità vissuti col Maestro durante l’Ultima Cena. Rievochiamone gli insegnamenti, per comprendere quale gloria Gesù ha dato al Padre con la sua Passione e quali mirabili frutti partecipa a noi con la sua Risurrezione.
Siamo ancora nel Cenacolo. Dopo la Comunione degli apostoli noi pensiamo che sia passato un breve periodo di tempo in silenzio. Ognuno era immerso nei propri pensieri e dominato da sentimenti nuovi e profondi. Tra i quali eccelleva soprattutto l’ammirazione, l’amore, la riconoscenza verso Gesù che li aveva gratificati del Dono ineffabile. [...].
Gesù, dopo un lungo discorso agli apostoli, s’alza in piedi nell’atteggiamento di chi prega, e tutti i discepoli s’alzano con Lui. Allora Gesù leva gli occhi al cielo: «Così parlò Gesù, quindi alzati gli occhi al cielo disse» (Gv 17ss). Questo atto di alzare gli occhi al cielo è ricordato quattro volte nei vangeli: due in san Giovanni, e precisamente in questo luogo e alla resurrezione di Lazzaro («Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato”»); e due in san Marco, e precisamente alla moltiplicazione dei pani («e presi i cinque pani... guardando al cielo li benedisse e li spezzò», Mc 6,41), e alla guarigione del sordomuto («guardando quindi verso il cielo emise un sospiro e disse: “Effeta” cioé apriti», Mc 7,34). È da notare che in tutti e quattro i luoghi Gesù prega il Padre. È l’atteggiamento spontaneo della preghiera. Da notare ancora che i due testimoni, che riferiscono questi particolari, sono i due discepoli più affezionati a Gesù: Giovanni, il discepolo amato; e Pietro il discepolo amante, poiché Marco non è che «il fedele interprete di Pietro» (Papia).
Non c’è dubbio che quel gesto di alzare gli occhi al cielo dovette restare profondamente impresso nell’animo dei due, che del resto erano attentissimi ai minimi particolari che riguardavano il grande Maestro e Amico. San Giovanni lo ricordava nei suoi vecchi anni con commozione sempre nuova. E ne volle lasciare un cenno anche ai futuri discepoli, anche a noi. Segno questo che quello sguardo alzato al cielo doveva essere particolarmente bello d’una bellezza non solamente estetica, che gli artisti si industrieranno in mille modi a riprodurre sulle loro tele, ma di una bellezza tutta spirituale ch’era come il riflesso della sua grande Anima e del suo mirabile Cuore.
In quello sguardo alzato al cielo si doveva leggere la profonda pietà di Gesù verso il Padre: pietà fatta di ammirazione immensa, di un amore senza confini e di una tenerezza tutta filiale. Ma in quello sguardo si poteva leggere anche un altro sentimento: un amore immenso per gli uomini per i quali andava a morire. Beato l’Apostolo prediletto che poté ammirare quello sguardo incomparabile del Maestro e restarne intimamente inebriato!
Dopo questo breve preambolo, san Giovanni riferisce la preghiera: «Padre, è venuta l’ora, glorifica il Figlio tuo affinché il tuo Figlio glorifichi te, poiché gli hai dato autorità su tutti gli uomini [poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano], perché a tutti quelli che gli hai dati, doni la vita eterna». Al principio della sua preghiera, Gesù offre al Padre la sua Passione e Morte come l’espressione più pura, più elevata e assolutamente inarrivabile della gloria di Dio: «Padre, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te». Non c’è dubbio che la parola «gloria» si riferisce alla morte stessa di Gesù. Donde ne viene che quella morte, che nella opinione dei contemporanei doveva apparire come la massima ignominia e il supremo disonore, in realtà, davanti a Dio e anche davanti all’infinita moltitudine degli eletti, sarebbe stata la massima gloria del Padre e del Figlio.
«Glorifica il Figlio tuo» è come dire: compi l’opera preordinata e consuma il sacrificio totale del tuo Figliuolo. Con queste parole Gesù si offre al sacrificio sanguinoso del Calvario con un trasporto immenso d’amore. La sua offerta, sacra, liturgica, perfettamente spontanea, non sarà ritirata mai più: «Sì è offerto perché lo volle» (Is 53,7). La grande preghiera comincia dunque con la prospettiva della gloria immensa, che attraverso la morte di Gesù, risplenderà per tutti i secoli a onore di Dio e degli eletti che avranno partecipato alla Morte e alla Risurrezione dell’umile Figlio dell’uomo. [...].
Il pensiero di Gesù in questo momento supremo va in modo speciale ai suoi fedeli, a quelli che non respingeranno la sua offerta di amicizia, a quelli che certamente si salveranno. Per questi Egli prega. Il Padre glieli ha dati in custodia ed Egli li ha preservati amorosamente così che nessuno di essi è andato perduto fuorché il «figlio della perdizione»: «Io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi, nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione...» (Gv 17,12). Per questi Gesù santifica (cioè sacrifica) se stesso, perché siano santificati nella verità: «Per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. La tua parola è verità» (Gv 17,19). La parola di Dio, la parola rivelata è Verità. Per farsi santi è necessario anzitutto conoscere la Verità, poi amarla, poi ancora viverla. Per essere santi è necessario orientare i nostri pensieri e le nostre meditazioni verso Dio. È una vuota presunzione e una fatale illusione immaginarsi di poter raggiungere la santità senza meditare a lungo e profondamente. Perché io sia santo, Gesù va ora incontro risolutamente al tremendo Sacrificio.
Ma il grande Amico non si accontenta di ottenermi una santità in certo modo esteriore, e per dir così d’imprestito, che lasci sussistere una distanza insuperabile tra me e Lui. Tutte le barriere devono cadere e tutte le distanze saranno colmate. Egli vuole che siamo una cosa sola con Lui e col Padre: «Affinché siano una cosa sola, come noi siamo una sola cosa, io in loro e tu in me perché siano perfetti nell’unità» (Gv 17,23). L’espressione ha dello sbalorditivo. Gesù non usa la parola «Unione» o «Comunione» o qualche cosa di simile; Gesù usa la parola «Unità»: una cosa sola. Ciò verrebbe a dire che tutte le differenze tra le parti, dopo l’unione, sono scomparse: una sola cosa! In realtà non è così. Noi, piccoli, limitati, contingenti (cioè non necessari), restiamo sempre quello che siamo; ma ecco che avviene in noi qualche cosa di umanamente formidabile e incomprensibile: l’abisso tra l’infinito e il finito è colmato e siamo posti sullo stesso piano di Dio. Vi è qualche cosa di divino in noi. Nessuno potrà mai dire in che cosa consista questo «divino», perché ciò oltrepassa la nostra capacità intellettuale. Ma è fuori di discussione che noi, con la grazia, diventiamo «divini». E così si può parlare di «Vita di unità» con Gesù; non semplicemente «Vita di unione», ma «Vita di unità», il che è molto di più. L’espressione è legittima, perché questa vita di unione con Gesù oltrepassa tutte le unioni create e fonde mirabilmente in uno le due vite, umana e divina. Nella vita d’unità il mio e il tuo scompaiono: «tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie» (Gv 17,10) (così dice Gesù al Padre). E come tutto è comune tra il Figlio e il Padre, così tutto è comune tra noi e Gesù: «Le parole che hai dato a me, io le ho date a loro» (Gv 17,8). Bisogna però notare che quel «verbo» nel testo greco è «rèmata» che vuol dire parola, dottrina, la stessa cosa insegnata. La sapienza che Gesù ha ricevuto dal Padre la comunica ai suoi amici: «tutto quello che ho udito dal Padre mio, l’ho notificato a voi». E Gesù ci ama tanto che, perché noi siamo uniti con Lui, con questa ineffabile unione, Egli berrà dal calice della Passione fino alla feccia.
Gesù conclude la sua preghiera con un cenno alla natura stessa di questa unione ineffabile per mezzo della quale diventiamo uno con Dio. Egli dice: «Padre, che l’amore col quale hai amato me sia in essi, e io stesso sia in essi». Da queste parole noi comprendiamo che l’amore col quale il Padre ci ama è lo stesso amore col quale ama il Figlio, non distinguendo in certo modo tra noi e Lui. Ma queste parole vogliono dire anche che noi stessi ameremo con l’amore col quale ama il Padre: ameremo con un amore divino. Ma questo non basta, perché non potremo amare divinamente se non conosceremo altrettanto divinamente... Perciò noi vedremo un giorno Dio com’è in Se stesso: «Vedremo lui come egli è» (1Gv 3,2). E io conoscerò Dio come sono da Lui conosciuto («Cognoscam sicut et cognitus sum», 1Cor 13,12). E questo non basta ancora, perché, conoscendo e amando Dio divinamente, godrò della stessa felicità di Dio («affinché abbiano in se stessi la mia gioia completa»). Con questo voto supremo termina la mirabile Preghiera di Gesù nel Cenacolo.
(Tratto da: La Passione di Gesù)