A metà Ottocento Søren Kierkegaard, avendo subito una persecuzione giornalistica, poté scorgere nitidamente il ruolo eversivo della stampa e formulare una critica dell’opinione pubblica che a tutt’oggi non ha perso nulla della sua validità.
Il Singolo contro la Folla
Sostiene Carl Schmitt che da quando lo Stato ha perso l’esclusiva nel distinguere fra amico e nemico, la dimensione del politico è diventata totale: nessuna presa di posizione può sfuggire ad essa, e certamente non lo fece la decisione, in apparenza non politica, che Søren Aabye Kierkegaard, a cavallo del Quarantotto, compì per il Singolo contro la Folla. L’essere stato vittima, all’apice della fama letteraria, dell’importunità di una giornalista femminista svedese e degli attacchi di un giornale satirico di Copenaghen, Il Corsaro, che credette di rendere un servizio alla causa dell’uguaglianza mettendo alla berlina, con articoli e caricature, l’apparente eccentricità del grande teologo, rivelò a questi la natura del conformismo, per cui le idee non interessano per la loro verità, ma per l’importanza che attribuiscono ai soggetti che le professano. Scrive Kierkegaard nel suo Diario: «L’effetto demoralizzante dei giornali lo si può vedere anche nel modo seguente. Chissà se in ogni generazione si trovano una decina, i quali – socraticamente – temano più di tutto d’avere un’opinione sbagliata; ci sono invece migliaia e milioni che anzitutto hanno paura di starsene soli, anche se lo starsene soli fosse l’opinione più giusta. Ma basta che una cosa sia scritta in un giornale, e si può eo ipso esser sicuri che c’è sempre un buon numero che avranno o manifesteranno la stessa opinione: ergo, puoi benissimo anche tu avere quest’opinione».
I giornalisti
È il meccanismo infernale dell’opinione pubblica, che rende schiavi gli uomini nel momento stesso in cui li trasforma in aguzzini del loro prossimo, dietro il compenso della soddisfazione o della semplice non-reiezione, ne paralizza ogni autonomia di giudizio e azione e ne soffoca la vita interiore come intesa dal Cristianesimo (e per la quale Kierkegaard lottò, restaurando il concetto di edificazione). In tutto questo si scatena la volontà di potenza dei giornalisti, il cui atteggiamento inquisitoriale d’altronde stride grottescamente col loro meschino farsi “noleggiatori di opinioni”: «Il giornalista rende gli uomini ridicoli in due modi: prima, col far loro credere ch’è necessario avere un’opinione – e questo è forse il lato più ridicolo della faccenda. [...]. Poi, con il noleggiare un’opinione che, malgrado la sua qualità ventosa, però si indossa e si porta come un articolo di necessità!». I giornalisti però non fanno che ripetere parole d’ordine uscite dalle centrali di potere, e giova qui ricordare quanto scriveva un grande convertito inglese al Cattolicesimo, Malcolm Muggeridge: «Quanto all’istruzione, il grande feticcio e la frode del nostro tempo, essa [...] per lo più serve soltanto a estendere la stupidità, a deformare le opinioni, a rafforzare la credulità, e pone coloro che le sono soggetti alla mercé di quei manipolatori di cervelli che hanno la stampa, la radio e la televisione a loro disposizione». Le reti sociali telematiche poi non hanno fatto che rendere violentissimo e onnipervasivo l’effetto di tale manipolazione.
Il Quarantotto
Fu in base alla sua esperienza personale che Kierkegaard poté cogliere il carattere del nuovo accesso rivoluzionario che scuoteva allora l’Europa: «Mettersi contro la Folla è sempre, per la maggioranza, un nonsenso; perché la Folla e la pluralità e il pubblico sono appunto le forze della salvezza, quelle riunioni amanti della libertà da cui deve uscire la salvezza – contro i Re e i Papi e i funzionari che ci vogliono tiranneggiare! Ahimè! o piuttosto poveri noi! Ecco le conseguenze dell’aver per secoli combattuto contro Papi e Re e potenti e di aver considerato la Folla come la cosa sacra. Nessuno sospetta che le categorie della storia umana s’invertono, e che la Folla è diventata l’unico tiranno e la perdizione fondamentale». E ancora: «Di tutte le tirannidi, un “governo di popolo” è la più tormentante, la più insulsa, assolutamente il tramonto di ogni cosa grande e sublime. Un tiranno, dopo tutto, è un uomo, un uomo singolo. Come uomo di solito egli ha sempre un’idea, sia pure la più assurda. Si può ora riflettere se valga la pena farsi uccidere per quell’idea, se è talmente in contrasto con le nostre idee, o se non ne valga la pena. E poi, ci si regola di conseguenza. Ma in un “governo di popolo” chi comanda? Un X ovvero le eterne chiacchiere, ciò che in ogni momento è o ha per sé la maggioranza, la più pazzesca di tutte le categorie. Quando si sa come vanno le cose per ottenere la maggioranza, e come la faccenda può fluttuare, che sia poi questo assurdo ad andare al governo? [...] in un governo di popolo chi governa è l’“uguale”. A lui sì che interessa se la mia barba è come la sua, se vado a passeggiare pel bosco quando ci va lui, se sono in tutto come lui e come gli altri. Se le cose non vanno così, ecco il delitto: un delitto politico, un delitto di Stato. [...]. Un governo di popolo è la vera immagine dell’inferno. Perché anche se uno avesse da sopportare le sue pene, sarebbe sempre un sollievo se potesse ottenere di esser solo: ma la pena è appunto che ci son gli “altri” a tiranneggiarlo».
La negazione dell’autorità
Come già in Joseph de Maistre, in Søren Kierkegaard, teologo riformato ma cattolicizzante, c’è l’orrore per il moltiplicarsi della rivolta nella moltiplicazione delle opinioni individuali, ma in più egli nota come esse debbano appoggiarsi l’una all’altra per legittimarsi: minimo comun denominatore di questa unione non potrà che essere la negazione dell’autorità – né il Danese esita a chiamare in causa il padre della sua setta: «Lutero, tu hai una responsabilità enorme! Perché, se osservo la cosa più da vicino, vedo sempre più chiaramente che tu hai abbattuto il Papa... ma per mettere sul trono il “Pubblico”!». Conseguentemente noi vediamo oggi le volontà soggettive, unite nella negazione, volgersi per autoaffermarsi contro tutte le formazioni che trascendono l’individuo e concretamente lo determinano (la famiglia, la nazione), e contro ciò che trascendendolo gli si impone: la legge divina e lo stesso dato naturale. All’origine di quest’eversione generale, la stampa: «I giornali sono e saranno il principio del male nel mondo moderno: nella loro sofistica essi non conoscono limiti, perché possono scendere sempre più in basso nella scelta dei lettori. Con questo essi dragano la fanghiglia degli uomini che nessun governo potrà più dominare». Ciò per di più trova giustificazione nella legge del mercato, e se Søren Kierkegaard, scegliendo di essere la vittima che occorreva per mostrare gli effetti della persecuzione della stampa, riuscì a far cessare la pubblicazione de Il Corsaro, gli animatori del giornale, l’ebreo Meïr Aron Goldschmidt e l’esteta amorale Peder Ludvig Møller, che finirono per allontanarsi dalla Danimarca, secondo i criteri odierni sono loro i martiri, ma della libertà di satira.
La violenza rivoluzionaria dell’opinione
Il punto però è un altro. La politicizzazione della sfera pubblica, che consiste nello scatenamento dell’ostilità contro gli avversari politici, considerati non-uomini e criminalizzati in nome di ideali come il progresso, la pace e l’umanità (ma ora anche il genere, l’ambiente e l’animalismo), corrisponde al dominio dell’opinione per come Kierkegaard l’ha descritto ed è, per Carl Schmitt, segno distintivo dell’epoca della Rivoluzione (il potere usurpato negli ultimi anni dalla galassia delle ONG ne è un sintomo). Riconoscere la legittimità del nemico, secondo il giurista cattolico tedesco, significa invece collocarsi nella sfera dove la lotta è moralmente neutra, la vita si afferma combattendo la vita ed è perciò stesso possibile la nascita dell’ordine: una sfera di autentica libertà quindi, non soggetta alle censure del buonismo, del politicamente corretto e dell’umanitarismo, dietro i quali si cela solo una nichilistica volontà di potenza – la linea di demarcazione politica essendo ancora quella fra Rivoluzione e Controrivoluzione.