La selva di Teutoburgo, nel cuore della Germania, è un luogo dove si sono succedute vicende di portata epocale: ciò consente di articolare una riflessione metastorica che, partendo dal centro stesso della Cristianità, arriva a toccare una questione attuale.
La selva di Teutoburgo, nel cuore della Germania, è un luogo dove si sono succedute vicende di portata epocale: ciò consente di articolare una riflessione metastorica che, partendo dal centro stesso della Cristianità, arriva a toccare una questione attuale come l’ecologismo distorto ultimamente penetrato all’interno del Cattolicesimo.
La leggenda dell’Aracoeli
Sotto il tempietto di sant’Elena, nel transetto della chiesa romana di Santa Maria in Aracoeli, attraverso una vetrata è possibile vedere l’altare medievale che dà il nome alla chiesa. I Mirabilia Urbis Romae, descrizione archeologica del XII secolo, riportano la leggenda che vi si trova scolpita: la Sibilla Tiburtina gli aveva appena annunciato la prossima venuta del «re dei secoli», che ad Augusto apparve la Madonna, assisa su un altare e con Gesù Bambino in braccio, mentre due voci gliela presentavano come «la Vergine che avrebbe concepito il Redentore del Mondo», e come «l’altare del Figlio di Dio»; l’Imperatore si inginocchiò in adorazione, e in seguito rifiutò il titolo di dominus, offertogli dal senato e dal popolo, per edificare invece sul Campidoglio un altare al «Figlio Primogenito di Dio» (1).
Orosio e Peterson
Erik Peterson, insigne teologo del ’900 (convertito dal protestantesimo al Cattolicesimo), fa risalire la leggenda dell’Aracoeli alla vera e propria teologia augustea (2) sviluppata da Orosio nelle Storie contro i pagani, per cui «l’impero di Cesare fu preparato per la venuta di Cristo» (3): gli atti e i prodigi legati alla presa del potere di Augusto (la visione del disco solare cerchiato di arcobaleno al suo ritorno dall’Oriente; lo sgorgare di una sorgente d’olio a Roma quando assunse la potestà tribunizia perpetua, in coincidenza con la restituzione degli schiavi e il condono dei debiti; la prima delle tre volte che chiuse il tempio di Giano – a significare la fine della guerra – avvenuta il giorno dell’Epifania, quando venne anche salutato come Augusto) sono interpretati in senso cristiano dall’apologista spagnolo, che scrive: «E in quel tempo, cioè nell’anno in cui Cesare per volere di Dio diede al mondo la pace più vera e più stabile, nacque Cristo, al cui avvento questa pace fece da ancella e alla cui nascita gli angeli esultanti cantarono e gli uomini udirono: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Colui nelle cui mani era pervenuta la somma dei poteri, non tollerò, o piuttosto non osò, esser chiamato “signore” degli uomini proprio nel tempo in cui nacque tra gli uomini il vero Signore di tutto il genere umano. E ancora, quel Cesare che Dio aveva predestinato a così grandi misteri, ordinò per la prima volta di fare ovunque il censimento delle singole province e di iscrivervi tutti gli uomini, proprio nel medesimo anno in cui anche Dio si degnò di apparire e di essere uomo. Allora, dunque, nacque Cristo e, appena nato, fu subito iscritto nel censo romano. [...]. E senza alcun dubbio appare chiaro all’esperienza, alla fede e alla ragione di ciascuno che è stato nostro Signore Gesù Cristo a far progredire questa città – accresciuta e protetta dal suo favore – a tale apice di grandezza: a questa città volle appartenere quando venne, farsi chiamare cioè cittadino romano per attestazione del censo romano» (4).
Peterson tuttavia è ostile alla concezione di Orosio (e degli autori antecedenti che questi riassume), in base all’idea agostiniana che nessun impero terreno possa portare la vera pace, quella di Cristo, che è escatologica, ritenendo inoltre il dogma trinitario incompatibile col concetto di monarchia divina (5): ciò impedirebbe quella strumentalizzazione ideologica del Cristianesimo, che egli identificò nella teologia politica di Carl Schmitt (di cui pure era amico) (6); il grande giurista diversamente interpretava in una prospettiva di storia sacra l’azione di determinate potenze storiche, come freno all’anomia anticristica.
La battaglia di Arminio
Del resto, proprio durante il principato di Augusto capitò la disfatta (retrodatata da Orosio a prima della nascita di Cristo) che avrebbe alla lunga minato la pax romana. Nell’anno 9 della nostra era la conquista della Germania fino al fiume Elba, compiuta da Druso, venne compromessa dalla distruzione di tre legioni (con le famiglie al seguito) nella selva di Teutoburgo, dove un nobile germanico al servizio di Roma, Arminio, le aveva perfidamente attirate in un’imboscata. Su un terreno boschivo e paludoso e sotto la pioggia battente, impossibilitato a manovrare, l’esercito andò al macello, e i Germani (che si erano ribellati alle toghe e alle leggi romane [7]) fecero perire i prigionieri sotterrandoli vivi, strappando loro gli occhi, e tagliando loro mani e lingua; il comandante Quintilio Varo, che per non cadere vivo nelle mani dei nemici si era ucciso, venne riesumato e, mezzo bruciato, fatto a pezzi. Si narra che per il dolore Augusto gridasse, sbattendo la testa contro il muro: «Quintilio Varo, rendimi le mie legioni!». Invece l’impresa di Arminio è divenuta uno dei miti fondanti il nazionalismo tedesco; esempio sconvolgente ne è La battaglia di Arminio del prussiano Heinrich von Kleist: scritto sotto l’impressione dell’invasione napoleonica della Germania e definito da Schmitt «il più grande poema partigiano di tutti i tempi» (8), in quanto ispirato dall’ostilità assoluta, in effetti l’inganno e il tradimento nel dramma non sono solo praticati (come segno di una guerra priva di limitazione), ma anche gustati.
Carlo Magno contro i Sassoni
Come nota Pierre Gaxotte, dovettero passare otto secoli prima che il progetto di Augusto venisse realizzato e la Germania annessa alla civiltà occidentale (9). Carlo Magno infatti pose termine alla turbolenza dei vicini pagani del regno franco, i Sassoni, in quella che fu tanto una riconquista che una crociata (i Sassoni dal canto loro saccheggiavano i monasteri e bruciavano le chiese), e proprio per essere una guerra di religione essa fu terribile. Durata in tutto trentatré anni, sembrò concludersi nel 785 con la sottomissione e il battesimo di Witikind, secondo Arminio, fino a quando l’imposizione della decima (non accompagnata da adeguato zelo apostolico) non fece esplodere il paese (793), già sottoposto a un capitolare che prevedeva la morte per chiunque rubasse in una chiesa, vi commettesse violenza o la incendiasse, uccidesse un chierico, bruciasse i corpi dei defunti all’uso pagano, rifiutasse il battesimo o complottasse contro i cristiani; solo la deportazione di diecimila famiglie sassoni, che vennero disseminate tra la Francia e la Germania, sancì la fine del conflitto (804) e la definitiva conquista franca.
L’Irminsul e la Croce
Fin dalla prima campagna (772) risultò chiaro il significato spirituale della lotta: giunto a impadronirsi della fortezza di Eresburg, Carlo distrusse l’Irminsul, il santuario dei Sassoni, situato verosimilmente nella selva di Teutoburgo (vero cuore del germanesimo), presso le Externsteine, circolo di enormi rocce d’arenaria recanti incise pitture rupestri (oggi luogo di raduni neopagani). Su una di queste rocce si trova scolpito un bassorilievo impressionante per dimensioni (5m x 3,60m) e per valore simbolico: si tratta di una scena di Deposizione, in cui la Croce soppianta un albero stilizzato. Ora, le fonti descrivono l’Irminsul proprio come un idolo formato da un tronco: il bassorilievo, commissionato dai monaci venuti dal monastero di Corbie sulla Somme (10), sarebbe il segno della cristianizzazione della Sassonia e della vittoria sul paganesimo. Si è voluta scorgere nella funzione fallica dell’Irminsul, in un contesto di culto solare, la ragione del maggiore accanimento riservato a questo rispetto ad altri oggetti cultuali pagani (11), ma c’è dell’altro. La testimonianza di Rudolf da Fulda, da cui l’idolo è definito in latino «universalis columna quasi sustinens omnia», permette di assimilarlo senz’altro all’axis mundi, o pilastro del mondo (12), il quale come è noto rientra nel simbolismo della croce. La Croce scalza quindi l’Irminsul come vero axis mundi, e a questo proposito René Guénon ricorda il motto dei certosini, «Stat Crux dum volvitur orbis» (13); tuttavia essa non è né un elemento naturale, né un artefatto rituale, né un mero simbolo mistico, bensì un dato storico e antimondano; mentre poi le concezioni tradizionali del pilastro del mondo presuppongono una cosmologia statica, la Croce avvia un processo escatologico destinato a concludersi con la consumazione di questo secolo. Rispetto all’assoluto della vita trinitaria intradivina, il creato è il relativo e il contingente (14), per cui non è lecito tributargli culto.
NOTE
1) Ferdinand Gregorovius, Storia della città di Roma nel medioevo, trad. it. Einaudi, Torino 1973, vol. II, pp. 1033-1034.
2) Erik Peterson, Il monoteismo come problema politico, trad. it., Queriniana, Brescia 1983, p. 66.
3) Orosio, Le storie contro i pagani, trad. it., Fondazione Lorenzo Valla, Roma 2001, vol. II, p. 221.
4) Ivi, pp. 233-235.
5) Erik Peterson, Il monoteismo come problema politico, p. 72.
6) Ivi, pp. 103-104.
7) Pierre Gaxotte, Histoire de l’Allemagne, Flammarion, Paris 1963, vol. I, p. 34.
8) Carl Schmitt, Teoria del partigiano, trad. it., Adelphi, Milano 2005, p. 17.
9) Pierre Gaxotte, Histoire de l’Allemagne, p. 90.
10) Patrick Guelpa, Irminsul, l’arbre du monde des Saxons, in Michel Mazoyer - Jorge Pérez Rey (a cura di), L’Arbre: Symbole et Réalité, L’Harmattan, Paris 2003, pp. 139-141.
11) Ivi, p. 151.
12) Mircea Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, trad. it., Edizioni Mediterranee, Roma 1974, p.285.
13) René Guénon, Il simbolismo della croce, trad. it., Rusconi, Milano 1973, p. 93.
14) Charles Journet, Conoscenza e inconoscenza di Dio, trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1959, p. 27.