L’opzione per l’aborto riposa sull’appello irrazionale all’inesistente autorità di conferire o negare a chicchessia lo statuto naturale specifico di essere umano. Chi decide se il feto in gestazione appartiene o meno all’umanità? Il consenso sociale o la natura delle cose?
L’opzione per l’aborto riposa sull’appello irrazionale all’inesistente autorità di conferire o negare a chicchessia lo statuto naturale specifico di essere umano. Chi decide se il feto in gestazione appartiene o meno all’umanità? Il consenso sociale o la natura delle coseL’aborto è una questione morale solo perché, partendo dalle premesse utilitaristiche dei suoi sostenitori, nessuno potrà mai dimostrare né che il feto è un essere umano a pieno diritto, né una pura estensione anatomica del corpo della donna. Se si accettano tali premesse, la discussione diventa interminabile, perché gli argomenti di entrambe le parti suonano poco convincenti, anche per coloro che li dichiarano. Senza una conversione metafisica radicale, da parte degli abortisti, perciò, la discussione rimane sospesa a un dubbio, che nessun argomento può superare.
Portandoci sul piano delle decisioni pratiche, questo dubbio si trasforma nella scelta di proibire o autorizzare un atto che ha il 50% di probabilità di essere un omicidio premeditato. In queste condizioni, l’unica opzione moralmente giustificata è, con tutta evidenza, astenersi dal compiere quell’atto. Alla luce della ragione, nessun essere umano può arrogarsi il diritto di compiere liberamente un atto che, lui stesso, non sa dire se sia un omicidio o meno.
Ma c’è di più: tra la prudenza che evita di correre il rischio di questo omicidio, e la temerarietà che si appresta a compierlo in nome di questo o quell’ipotetico beneficio sociale, l’onere della prova spetta, certamente, ai propugnatori della seconda alternativa. Ma, poiché mai c’è stato, e mai ci sarà, un abortista capace di provare con prove risolutive la non umanità del feto, i suoi avversari hanno tutto il diritto e, perfino il dovere indeclinabile, di esigere che egli si astenga dal praticare un’azione la cui innocenza è materia di incertezza, anche per colui che la compie.
Se questo argomento è evidente per se stesso, è anche manifesto che la quasi totalità degli abortisti teorici, oggi, non riesce ad accettarlo, per la semplice ragione che l’opzione per l’aborto suppone l’incapacità – e, in certi casi, la cattiva volontà criminale – di apprendere la nozione di “specie”. La specie è un congiunto di tratti comuni, innati e inseparabili, la quale presenza inquadra l’individuo, una volta per sempre, in una natura che egli partecipa con tanti altri individui.
Per l’abortista, invece, la condizione specifica dell’essere umano non è una qualità innata che definisce i membri di una specie, ma una convenzione che i già nati possono, a loro talento, applicare o meno a quelli che ancora devono nascere. Chi decide se il feto in gestazione appartiene o meno all’umanità è il consenso sociale, non la natura delle cose.
Il grado di confusione mentale per credere a questa idiozia non è piccolo. Tant’è vero che, generalmente, gli abortisti raramente presentano in modo chiaro ed esplicito questa premessa fondante dei loro argomenti. Preferiscono mantenerla occulta, tra le nuvole (oscura anche per se stessi), perché avvertono che, proclamarla a voce alta equivarrebbe a smascherare la sua presunzione antropologica, senza alcun fondamento possibile, con possibili applicazioni catastrofiche. Se la condizione dell’esser umano è una convenzione sociale, nulla impedisce che una convenzione successiva la revochi, negando la condizione umana a ritardati mentali, paraplegici, comatosi, zingari, malati terminali, ecc., o a quelli che, secondo il capriccio del momento, saranno scientificamente diagnosticati come “esseri inutili o dannosi per sé e per gli altri”.
Con tutta l’evidenza che si possa esigere, l’opzione per l’abortismo riposa sull’appello irrazionale all’inesistente autorità di conferire o negare a chicchessia, lo statuto naturale specifico proprio: di essere umano, o di animale, o di cosa o di un pezzo di cosa.
Non meraviglia che persone capaci di tanta barbarie mentale siano anche immuni da altre imposizioni della coscienza morale comune, come, per esempio, il dovere che un politico ha di dar conto degli impegni assunti, da lui stesso o dal suo partito.
Così, tanti cattolici – soprattutto quelli “adulti”, e di sinistra –, dopo aver sottoscritto il programma di partiti che amano e venerano l’aborto, hanno il coraggio di presentarsi come figli devoti della Chiesa Cattolica, che da sempre condanna l’aborto.
Sarebbe ingenuo sperare la coerenza morale di individui che non rispettano nemmeno l’impegno di riconoscere che le altre persone umane appartengono alla loro stessa specie, per natura, e non per una loro generosa – e altamente revocabile – concessione.
Non c’è da stupirsi nemmeno che, nell’ansia di imporre la loro volontà di potere, mentano come demoni.
«Il professor Flamigni, e come lui molti altri, afferma: “La legge 194 è una legge che ha dato buona prova di sé, che ha diminuito il numero degli aborti in modo significativo (erano 234.000 nel 1982 e sono stati 129.000 nel 2005)” (L’Unità, 10.01.2008). Similmente si esprime l’ex ministro della salute Livia Turco: “Grazie alla 194 le interruzioni di gravidanza tra le donne italiane sono diminuite del 60% dal 1982” (Io donna, 26.01.2008). Si tratta dunque di una opinione diffusa, che però non corrisponde a verità. Anzitutto la legge 194 è entrata in vigore nel 1978: perché allora contare la diminuzione degli aborti dopo il 1982? Cosa è successo tra il 1978 e il 1982? Come fingere che questi anni non esistano? Le cifre ufficiali parlano chiaro: dai 68.000 aborti del 1978 (metà anno), si è passati ai 187.752 del 1979 (mentre mantenendo la media dell’anno prima avrebbero dovuto essere 134.000, cioè 68.000 per due), ai 220.263 del 1980, ai 224.377 del 1981, ai 234.377 del 1982.
Una crescita costante, dunque! Addirittura sappiamo che gli aborti sono cresciuti notevolmente, mese per mese, già a partire dal primo semestre di applicazione della 194, cioè la seconda metà del 1978, che ha appunto visto un grosso aumento del ricorso all’aborto soprattutto negli ultimi due mesi dell’anno!» (F. Agnoli, Le cifre sull’aborto..., in: www.marciaperlavita.it).
Si vedano anche gli inverosimili numeri irrisori di donne suppostamente vittime di aborto illegale, che essi allegano per innalzare le virtù sociali immaginarie dell’aborto legalizzato, mentre tacciono sul fatto, molto più drammatico, che con la legalizzazione dell’aborto, il numero totale degli aborti, è sempre aumentato, dappertutto; senza dire che, dalla parte del feto, l’esser soppresso con o senza il “conforto” della legislazione vigente non cambia nulla, anzi, nel primo caso, al danno si aggiunge la beffa.
È chiaro, se non si rispetta nemmeno la distinzione tra le specie, come si può pretendere l’esattezza nelle quantità? Una deformità mentale tira l’altra.
Aristotele consigliava di evitare il dibattito con avversari incapaci di riconoscere, o di obbedire alle regole elementari della ricerca della verità. Se un abortista ricercasse sinceramente la verità, dovrebbe in primo luogo riconoscere che è incapace di provare la non-umanità dei feti e ammettere che, in fondo, la questione se essi sono già esseri umani, o se lo diventeranno, non interferisce minimamente sulla sua decisione di ucciderli. Ma, confessare questo, sarebbe come esibire il suo distintivo di sociopatico. E i sociopatici, per definizione e fatalità, vivono del tentativo di non apparire tali.
NOTA
Tradotto e liberamente rielaborato da: Olavo de Carvalho, O minimo..., Edizioni Record, San Paolo 2015, pp. 385-387.