In un Paese educato per decenni alla più rigida orizzontalità atea e materialista, lo sguardo pieno di Dio, lo spirito si sacrificio disinteressato, la purezza dei modi delle “religiose clandestine” davano prova di un’umanità superiore, rigenerata dalla grazia di Dio e nutrita dal quotidiano contatto con lo Sposo eucaristico.
Uno degli spettacoli più singolari che gli ambienti urbani presentano alla nostra contemplazione quotidiana è quello del filo d’erba che sbuca dal manto stradale. Nessuno infatti si aspetterebbe che un fragile filo d’erba, con l’esigua forza della sua vita vegetale e il suo debole stelo, possa da solo rompere quella spessa e densa coltre di asfalto che gli è stata gettata sopra dalla società industrializzata, eppure piano piano, giorno dopo giorno, la forza di quel filo d’erba spinge sull’asfalto stradale, lo crepa e infine lo rompe, penetrandolo e affacciandosi inaspettatamente alla luce del sole che aveva tanto desiderato. Da dove è sorto quel filo d’erba? Forse da un seme lì da molto tempo a cui gli asfaltatori non avevano nemmeno fatto caso, tanto era piccolo e spregevole. Oppure è portato dal vento e, infilatosi in qualche minuscola frattura del cemento, lo ha poi con la sua costante e quotidiana crescita allargato fino a trovare uno spazio vitale per emergere nella sua florida verdezza. Eppure quel filo d’erba sta lì, ha vinto, trasmettendo a noi basiti spettatori lo spettacolo e la forza della vita che non si ferma davanti a nulla, nemmeno di fronte a un nemico opprimente, ma vince tutto con la forza dell’amore, quell’amore con cui Dio gli ha dato l’esistenza e con cui continua a tenerlo in vita.
Questa singolare immagine – tanto quotidiana quanto spesso ignorata – è ciò che meglio può rappresentare la vita e la resistenza degli Ordini religiosi femminili sotto il comunismo, miracolo della debolezza che vince la potenza infernale confidando nella forza dell’amore divino, secondo il detto di san Paolo: «Quando sono debole è allora che sono forte perché il Signore è con me» (2Cor 12,10).
La nera cappa del comunismo
L’immagine dell’asfalto rovesciato su un filo d’erba per descrivere il comunismo nei Paesi dell’ex Unione Sovietica è in realtà poco più che una metafora, un’immagine edulcorata e ingentilita di una realtà ben più triste, violenta e opprimente. Taciuta per molti anni dall’opinione pubblica sinistroide nostrana e a volte censurata anche da ambienti cattolici propensi ad un infruttuoso dialogo con il comunismo, questa realtà tremenda è ormai testimoniata da una mole immensa di documenti. Il comunismo fu la realizzazione più spietata e violenta di quel concetto totalitario di Stato che vibrava nell’aria dell’Europa del XX secolo ma che affonda le radici nella fanghiglia idealista di Hegel. Il materialismo marx-leninista (o le variazioni sul tono di questo) non fu altro che una spietata realizzazione ideologica volta a costruire con tremenda coerenza tra pensiero e azione, una nuova società: non si trattava solo di avere il controllo politico su un territorio o su un popolo ma di formare uomini completamente nuovi, uomini dal quale strappare qualsiasi residuo della visione tradizionale e naturale della vita e del mondo per imprimere il nuovo ideale totalitario dello Stato o del Partito (spesso sostituiti entrambi dal culto del leader carismatico). Per fare questo non bastava impedire ogni culto pubblico o ogni manifestazione esteriore di sentimento religioso e nemmeno rieducare l’intero popolo all’ateismo con una massiccia propaganda popolare a vari livelli, ma bisognava sopprimere e strappare dal cuore di ogni uomo quel desiderio naturale di trascendenza, quella spinta spontanea verso l’Altissimo, che è il vero fondamento di ogni popolo e ogni cultura.
Nell’Europa orientale, con le sue solide radici cristiane, ciò significò il tentativo di annientare alle radici il Cristianesimo in tutte le sue forme e di impedire qualsiasi rinascita di esso: non era sufficiente – parlando per immagini – radere fino all’ultimo filo d’erba del bel prato verdeggiante e fiorito, e spargere ampie dosi di diserbante ideologico ma si doveva togliere la luce, il calore e l’acqua ai semi che ancora vivevano sottoterra, e non c’è modo migliore per questo – almeno apparentemente – che rovesciargli sopra una distesa di asfissiante asfalto, per impedire qualsiasi rinascita. Con intuito diabolico per lucidità, i comunisti compresero che distruggere lo spirito religioso significava innanzitutto colpire la fonte vitale di questo, la vita sacerdotale e quella religiosa. Da qui si comprende che il vero autore di tutte le rivoluzioni non è un generico “ateismo” o un anonimo anti-cristianesimo laico, bensì dietro alle marionette rivoluzionarie si nasconde il diavolo in persona: un semplice ateo o laicista lascerebbe infatti che uomini e donne si donino a Dio, rinchiudendosi nei chiostri, in quanto con la loro fuga dal mondo non sembrano per nulla ostacolare il loro programma civile e politico anzi quasi favorirlo. Per un vero ateo le grate di un monastero sarebbero un posto risparmiato in carcere! Invece il diavolo conosce bene la potenza della preghiera, dei Sacramenti e della Vita religiosa e pertanto ispira ai suoi satelliti rivoluzionari – e ai comunisti in maniera particolarmente feroce – l’odio e la violenza innanzitutto proprio contro i sacerdoti e i religiosi. Dai sacerdoti, dalla loro onestà e santità, dipende infatti la vita del popolo cristiano in modo evidente: sono chiamati a essere mediatori tra Dio e il popolo cristiano, implorando la clemenza di Dio per loro e al contempo distribuendo le grazie, tramite i Sacramenti e la predicazione.
Il legame tra la Vita religiosa e la fede del popolo è meno evidente ma non meno reale: la Vita consacrata nella sua stessa essenza costituisce un continuo esempio di vita cristiana integrale agli uomini del secolo, un richiamo alla Vita eterna che ci attende ma soprattutto una fonte inesauribile di amor di Dio, a cui tutto il popolo cristiano attinge con abbondanza, soprattutto nei momenti di difficoltà e scoraggiamento. Ed è proprio contro la Vita religiosa che il comunismo adoperò tutte le sue risorse per intimidire, costringere alla resa, annientare e impedirne ogni rinascita.
“Le grandi acque non possono spegnere l’amore”
Contro questo tentativo diabolico del comunismo di radere al suolo e soffocare la Fede cristiana, innanzitutto con l’annientamento delle Congregazioni religiose – anima della vita cristiana – però si ergono poeticamente solenni le parole del Cantico dei Cantici: «Le grandi acque non possono spegnere l’amore» (8,7). Se la vera vita religiosa è vita d’amore, di un amore totale e plenario verso Dio – che da sempre la spiritualità cristiana ha identificato con un vero e reale sposalizio delle anime consacrate con Nostro Signore – allora ben si addicono al nostro tema queste parole matrimoniali del Cantico dei Cantici. E se ciò è vero, lo è ancor più per le Congregazioni religiose femminili dato che la vita verginale femminile ha da sempre una capacità superiore di rappresentare quest’unione intima di cuore, di pensiero, di vita e di azione con Gesù, che ben può essere detta uno sposalizio, così che le religiose sono a vero titolo e non solo per metafora “spose del Signore”.
L’amore però per sua natura è una forza che prorompe e si espande, che non ha limiti se non quelli della volontà stessa che lo produce e che nessuno dall’esterno può limitare, il che ci fa ben comprendere la celebre esclamazione di san Paolo: «Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39). Se tutte le potenze cosmiche – persino quelle di natura angelica – non possono separare l’anima che sinceramente ama Dio dal suo Creatore, allora nemmeno il comunismo ateo, con tutta la sua perversità e violenza diabolica, avrebbe potuto annientare la vita religiosa, lo spirito dei consigli evangelici e soprattutto la forza dell’amore casto e puro con cui le religiose amano l’Onnipotente con cuore indiviso (cf. 1Cor 7,34).
Se il seme non muore...
Il regime comunista, sin dall’inizio e in tutti i Paesi in cui ebbe a espandersi nel corso dei decenni che vanno dal primo al secondo Dopoguerra, cominciò la sua lotta alla Chiesa proprio a partire dai vescovi, dai sacerdoti e dai religiosi: contro di loro infatti la cieca violenza dell’ateismo comunista aveva buon gioco a nascondere la sua maliziosa condotta dietro ad accuse di cospirazione politica. I voti religiosi e le promesse di obbedienza che legavano il clero e i religiosi al Sommo Pontefice, li rendeva ben adatti all’accusa di azione controrivoluzionaria e di spionaggio in favore di altri Stati, così da far passare l’innocente perseguitato per un cospiratore colpevole.
La vita religiosa fu proibita ovunque, monasteri e conventi furono requisiti, tanto che risulta persino difficile ricostruire storicamente queste persecuzioni a causa della mancanza di documenti. Pensando di poter far leva sulla debolezza del sesso femminile il regime comunista scatenò contro le religiose una persecuzione che alternava violenza fisica a raggiro e costrizioni morali, non comprendendo in profondità la fortezza e la fedeltà di chi ha promesso il suo cuore “indiviso” al Signore.
Le comunità religiose – dichiarate fuorilegge dall’ateismo di Stato – vennero prima di tutto minacciate e perquisite, per costringere le suore alla fuga o all’esilio volontario, ma in un secondo tempo non si tardò ad attuare manovre “intimidatorie” più decise: in molti casi intere comunità di suore vennero caricate dai soldati su furgoni, portate in mezzo ai boschi, e qui le religiose venivano costrette a spogliarsi dell’abito e lasciare il velo, abbandonandole semisvestite al freddo. A volte la dispersione delle comunità diventava una vera e propria condanna alla deportazione nei terribili gulag, ovvero dei campi di lavoro in condizione di vita estreme. Drammatico è il caso di una comunità ucraina, le Figlie del Cuore Purissimo della Santissima Vergine, le quali nel 1925 furono condannate ai lavori forzati nel Nord della Russia. Durante il trasporto in treno, durato molti giorni, le suore vennero tenute senza cibo e senza riscaldamento e, a un certo punto, nel bel mezzo del tremendo inverno russo, fu intimato loro di scendere dai convogli in aperta steppa: «Scendete tutte, non sappiamo che farcene di voi!». Come testimoniarono alcune sopravvissute, molte, stremate dal freddo e dalla fame, non riuscirono a raggiungere a piedi la località più vicina. Se queste prime persecuzioni degli anni ’20 portarono alla fuga all’estero o al ritiro a vita privata di molte religiose, non poche “con petto virile” (come canta la Liturgia), decisero coraggiosamente di rimanere nei Paesi comunisti – con o senza abito – per continuare la loro vita religiosa, il loro apostolato e per dare testimonianza di fedeltà eroica al popolo, scosso già dalla persecuzione.
Generalmente i governi comunisti – di fronte a queste religiose coraggiose – non usarono immediatamente mezzi violenti ma, pensando di poter sfruttare la loro debolezza per vantare “conversioni” del nemico al credo comunista, tentarono con tutti i mezzi morali di indurle ad abiurare la loro Fede o addirittura a false testimonianze per condannare vescovi e sacerdoti come criminali politici. È il caso narrato da Suor Anna Nemczenko alla quale, arrestata nel 1930 dal KGB, venne proposto dagli agenti comunisti che la interrogavano di apporre la sua firma a una dichiarazione in bianco – che gli abili manipolatori avrebbero poi riempito di confessioni false – per ottenere la sua liberazione e quella della sua comunità. A questa richiesta Suor Anna, come molte altre suore in altre circostanze opposero un fermo rifiuto. Bella è la risposta che seppe dare un’altra suora ucraina, Anatolia Irwanska: «Sappiamo di non essere condannate per agitazione antirivoluzionaria o per essere spie, ma per la nostra missione religiosa e consideriamo la vostra come una persecuzione». Questo atteggiamento di coraggio virile e di fortezza non era d’altronde frutto del caso o di un sentimento fluttuante ma esito di una vita religiosa vissuta con fedeltà eroica, prima – nei momenti di pace – combattendo il sentimentalismo tipico del carattere femminile e temprando la propria volontà nell’osservanza della regola e delle austerità conventuali. Poi – all’insorgere della persecuzione – scolpendo l’acciaio della volontà a forma di croce, cioè preparando il proprio animo alla persecuzione e al sacrificio supremo. La stessa Suor Anatolia mise per iscritto questa preparazione quotidiana al martirio, in uno dei pensieri spirituali del suo diario: «Devo ogni giorno concentrarmi per esaminare la mia coscienza, prepararmi alla morte; per sviluppare in me la prontezza ai sacrifici e per offrire la vita in nome di un grande ideale».
Questo cotidie mori (morire ogni giorno) significava innanzitutto comprendere a fondo e anzi quasi “incarnare” la parabola evangelica del seme (cf. Gv 12,24): ormai rasato il verdeggiante prato del Cristianesimo orientale, ai fragili steli di erba recisi, privi del nutrimento, non rimaneva che morire denutriti e asfissiati, oppressi peraltro dalla cappa nera del cemento comunista. Eppure ogni stelo di erba ha in sé la forza incredibile di divenire “seme”, cioè di morire per far vivere gli altri: la fede indistruttibile nella Verità del Cattolicesimo – su cui le porte degli inferi non possono prevalere – assicurava le religiose perseguitate che la loro morte e il loro sacrificio non sarebbe stata la morte della loro Fede bensì il suo trionfo. Non si trattava per loro di scegliere di morire o sopravvivere bensì di decidersi a bene morire, a riprodurre nei loro cuori prima che nei corpi la morte redentrice di Gesù, a essere cioè come il seme che solo se muore – cioè se accetta di morire per Dio – dà molto frutto.
Miracoli nei Gulag
Un aspetto piuttosto inquietante di questa persecuzione e della via verso il martirio fu – per i laici così come per i religiosi – quello della deportazione nei gulag sovietici, veri inferni in cui i condannati, ridotti a una vita bestiale per condizioni e carico di lavoro, trovavano generalmente una morte infame, senza necessità che si sprecasse neppure una pallottola per loro. Generalmente vescovi, sacerdoti e religiosi non venivano mai uccisi direttamente nelle loro terre – per evitare clamori pubblici – ma piuttosto deportati per allontanarli dai loro fedeli e fargli trovare una morte più dolorosa e meno notoria. Se già è opprimente il solo pensiero di uomini condotti in questi inferni, ancor più lo diviene se si pensa che un numero incalcolabile di religiose condivisero questa sorte. Non c’è nulla come un gulag sovietico a contrastare con quell’ideale di armonia, ordine, pulizia e riservatezza che un convento o un monastero femminile porta naturalmente con sé: la vita sponsale dedicata al Signore diviene infatti naturalmente una vita umanamente sublime che sa diffondere la carità diretta a Dio anche verso il prossimo e persino verso gli ambienti che si abitano, così da rendere interi pezzi della nostra terra segnata dal peccato dei piccoli “Paradisi terrestri” di armonia divina e umana. Ciò permette di capire quanto più dolore e afflizione devono aver causato in queste anime consacrate a Dio i gulag i quali per le condizioni disumane di vita costituivano veri e propri inferni di sporcizia, d’immondezza, di nudità, di schiavitù nel lavoro, di alimentazione non adatta e di privazione del conforto sensibile della preghiera comune e dei Sacramenti.
Nonostante la psicologia femminile avrebbe dovuto ancor più soffrire di quella maschile della condizione dei gulag, eroico ed edificante fu l’atteggiamento delle molte religiose deportate. Un vescovo rumeno, che condivise la sua prigionia con una comunità di suore – costrette ogni giorni a zappare a piedi nudi in mezzo alla neve – testimoniò come l’esempio di pazienza e sacrificio di queste suore fossero per lui una predica quotidiana al senso cristiano della sofferenza e una luce per l’intera Chiesa nelle tribolazioni. Un simile atteggiamento di virtù e coraggio non poté poi che attrarre sulle suore condannate ai lavori forzati innumerevoli grazie divine per sé e per gli altri, e non di rado anche alcuni miracoli, che sembrano riprodurre nel secolo passato gli stessi miracoli della Chiesa primitiva perseguitata dall’Impero romano. Infatti se queste suore – spesso anonime – seppero riprodurre nel loro cuore la forza della carità di una santa Agnese o di una santa Cecilia o di una santa Cristina, non è strano che il Signore abbia accordato loro gli stesi prodigi dei tempi dei martiri al Colosseo.
Commovente ed esaltante a questo proposito è la testimonianza di Suor Markiya Bashynska, religiosa ucraina deportata in Siberia negli anni ’30, che riportiamo integralmente: «Quand’ero in Siberia ci raccontarono che in prigione c’erano tre suore aspramente perseguitate perché pregavano. Il comandante responsabile voleva che smettessero di pregare e rinunciassero alla loro Fede. Le separò per qualche giorno, ma loro non tralasciarono di pregare. Allora disse loro: “Voi andrete al freddo e gelerete fino a morire!”. In una giornata molto gelida (-60°) le fece condurre fuori, a piedi nudi e in maniche di camicia, per farle morire assiderate e ordinò che tutti i prigionieri stessero a guardarle perché in mezz’ora sarebbero morte. Le suore s’inginocchiarono in mezzo alla neve per recitare il rosario. Mezz’ora passò, ma loro non gelarono anzi, con gran stupore dei presenti, pregavano a voce alta. Allora il comandante, indignato, aizzò tre cani per sbranarle, ma essi si avventarono sui soldati senza arrecare danno alle suore. A tal vista i prigionieri cominciarono a gridare e a cantare “Lode a Dio!”. Le guardie, udito il canto, ordinarono alle suore di rientrare in cella. Così da quel giorno non ebbero più alcun fastidio e pregarono con la gente quanto vollero».
Una santa Agnese in terra albanese
Ancor più simile alle vicende delle antiche martiri dell’Impero romano – quasi novella santa Agnese – emerge però la figura della beata Maria Tuci, martire dell’inaudita persecuzione scatenata contro la Chiesa Cattolica nel secondo Dopoguerra dal sanguinario tiranno albanese Enver Hoxha. Maria di per sé non era una consacrata ma con tutto il cuore avrebbe voluto esserlo: vivendo a stretto contatto con le suore Stimmatine di Scutari la giovane Maria maturò il desiderio di consacrarsi al Signore entrando come postulante in convento. Tuttavia, dato che la persecuzione contro la Chiesa era al suo apice e le suore – perlopiù italiane – erano state cacciate dal regime, dovette attendere, ricevendo nel frattempo dal Vescovo (anch’esso beato) il compito di provvedere all’istruzione catechistica dei fanciulli nei villaggi. Scoperta dalla polizia segreta, Maria fu condotta in prigione dove le si promise la libertà da quel carcere indecente – dove viveva in mezzo a uomini vestiti di pochi cenci – solo se avesse testimoniato contro vari cristiani. Davanti al rifiuto il carceriere allora offrì alla giovane avvenente una seconda possibilità di salvezza, concedergli il suo corpo per ottenere la libertà. La Beata, che aveva già suggellato il suo amore a Cristo con il voto di verginità, si rifiutò ancor più nettamente, il che fece scatenare la sadica cattiveria del comunista: prima, per costringerla a confessare, la fece spogliare e la chiuse in un sacco insieme a un gatto, assestando poi delle bastonate perché il felino deturpasse il suo corpo verginale con unghiate e morsi. Poi – davanti alla santa ostinazione della giovane – la ridusse in uno stato tale da essere irriconoscibile. La giovane albanese morì santamente poco dopo all’ospedale, preferendo vedere il suo corpo massacrato che infranta la sua illibatezza in modo da congiungere, come le Sante dei tempi antichi, l’aureola del martirio a quella della verginità. Come avrebbe detto sant’Ambrogio: «La verginità non è lodevole perché si trova anche nei martiri, ma perché fa i martiri».
La forza della carità
Se nessuna forza umana e angelica è in grado di abbattere e frustrare la carità, ciò è perché questa sublime virtù non ha un’origine umana ma divina, in quanto è «l’amore infuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Il che significa che tanto quanto il divino supera l’umano, così la carità supera le avversità e gli intralci umani che la contrastano. È dunque uno spettacolo stupefacente e al contempo “naturale” quello della vita delle comunità religiose femminili nei Paesi comunisti. Stupefacente perché è indescrivibile il contemplare la sopravvivenza della vita religiosa femminile – tenera e debole come un filo d’erba – al Moloc comunista, vero e proprio diluvio di asfalto rovente rovesciato sopra il verdeggiante campo del Cristianesimo dell’Europa orientale. Al contempo “naturale”, perché non vi è nulla di strano nel constatare che una volta ancora la forza della carità divina vinca sopra l’odio e l’oppressione umana, con l’impeto della “vendetta evangelica” di chi prega contro i propri persecutori per realizzare il detto paolino «Vince malum bono» («Vinci il male con il bene», Rm 12,21). La sopravvivenza alla persecuzione diviene ancora più straordinaria nel constatare come non solo alcune religiose sopravvissero ai regimi comunisti, ma come le stesse famiglie religiose poterono sopravvivere, attirando nuove vocazioni persino in uno stato di pura clandestinità e persecuzione. In alcuni casi non si trattò solo di una mera sopravvivenza ma addirittura della nascita di un nuovo carisma, segno che lo Spirito Santo ispira le anime devote anche in mezzo ai nubifragi e alle tempeste della storia dell’umanità.
La Congregazione delle Suore del Cuore Immacolato, in Romania, fu fondata nel 1950 – proprio in mezzo alla persecuzione – da una giovane ardente, suor Maria Ionela, più volte incarcerata per la sua fedeltà a Cristo. Attratta da Gesù e desiderosa di portar aiuto alle anime e ai corpi degli orfani e dei bambini in difficoltà, suor Maria Ionela trovò le sue prime compagne e fondò la sua Congregazione proprio nelle celle del Ministero degli Interni dove era stata reclusa dal duro regime di Cesaeuscu!
Vocazione nella persecuzione
Le cronache della persecuzione comunista in Ucraina – riportate dal bel volume di Padre Pavlo Vyshkovskyy (Il martirio della Chiesa Cattolica in Ucraina) – ci ricordano in particolar modo dei begli aneddoti sulla congregazione delle Benedettine missionarie, una fondazione ucraina dell’inizio del XX secolo e dedita all’educazione dei fanciulli. Al momento dell’entrata dell’Armata Rossa in Ucraina occidentale, nel 1939, la Congregazione contava già una cinquantina di suore tutte costrette, in pochi mesi, a lasciare il loro paese. Tra esse anche suor Clara Staszczak la quale, pur costretta a emigrare in Polonia, rimase però in contatto con i sacerdoti locali e organizzò una rete per importare nell’Ucraina comunista libri sacri, oggetti religiosi e liturgici per le comunità locali.
In tal modo negli anni ’70 iniziò a collaborare con il parroco di Bar, Padre Bernacki, venendo coinvolta nell’apostolato femminile: il parroco le affidò la formazione di giovani e virtuose donne della parrocchia, che, per la giovane età, mai avevano avuto a che fare con delle suore ed ignoravano del tutto la possibilità della consacrazione religiosa.
Parlando alle giovani della bellezza della vocazione religiosa come donazione totale al Signore, suggellata dal prendere un velo sponsale e un abito con cui dimostrare il proprio distacco dal mondo e dedicarsi completamente al servizio della Chiesa, suor Clara ottenne che diverse ragazze sentissero la chiamata di Dio alla vita religiosa. In tal modo nel 1977, quasi quarant’anni dopo la cacciata delle Benedettine missionarie dall’Ucraina, sei giovani iniziarono il noviziato prendendo il velo e l’abito in una funzione serale a porte chiuse nella Chiesa parrocchiale: dato il divieto di esistenza di Congregazioni religiose, le giovani novizie nella quotidianità dovettero però cambiare il velo con un semplice fazzoletto bianco benedetto e indossare abiti borghesi.
L’esistenza quotidiana di queste giovani novizie e professe non può che lasciarci basiti davanti alla caparbietà nel perseguire la loro vocazione nel bel mezzo della persecuzione, con la speranza che un avvenire migliore splendesse sopra il cielo del loro paese e consentisse loro di gridare sui tetti quell’amore che per il momento dovevano serbare chiuso nel loro cuore.
Mentre ricevevano formazione dalla stessa suor Clara – che poteva una volta all’anno tornare a Bar – queste conducevano un’esistenza del tutto normale all’apparenza, ma rimanendo in realtà al servizio del parroco nella pastorale e soprattutto sforzandosi di organizzare una vera e propria vita religiosa all’oscuro del governo e dell’occhiuta polizia segreta. Svolgendo gratuitamente mansioni di pulizia per la parrocchia o venendo impiegate – come tutte le altre donne – in attività lavorative statali come sarte, infermiere o semplici operaie, esse si dimostravano diligenti e operose, suscitando l’apprezzamento degli stessi dirigenti comunisti. Alcune, come suor Clementina, per anni svolsero la durissima attività di muratore, fianco a fianco con giovanotti spesso poco educati e un po’ volgari: davanti alla figura di suor Clementina e dei suoi occhi misteriosamente pieni di Dio, anch’essi però tacevano e piano piano si aprivano alla grazia. La sera, non appena tornate a casa dal lavoro, le giovani religiose erano pronte a dedicarsi – nei limiti del possibile – alla vita di preghiera adempiendo le prescrizioni della Regola e riuscendo a recitare comunitariamente l’Ufficio Divino. Il giorno mensile di riposo dal lavoro era poi dedicato con puro spirito di sacrificio al ritiro e alla revisione spirituale mensile. Vivevano in semplici case civili in piccoli gruppi – per meglio sfuggire ai controlli della polizia – così che spesso la loro abitazione non era fatta altro che da uno stanzone per dormire, una cucina e una sala, che, nonostante l’apparenza normale, nascondeva il vero tesoro della loro dimora e della loro intera vita: Gesù Eucaristico. Con il permesso del parroco infatti le giovani religiose tenevano il Santissimo in una piccola confezione di legno nell’armadio del salotto, dove svolgevano tutti i loro doveri di preghiera, così da scampare anche alle frequenti perquisizioni della polizia, che pure intuiva la vera identità di queste giovani. Le religiose inoltre dovevano sforzarsi di mantenere del tutto nascosta la loro consacrazione: anche le loro famiglie ne erano all’oscuro e se qualche giovanotto – attratto dalla loro purezza – le avvicinava, esse si giustificavano ammettendo con sincera furbizia di essere “fidanzate” oppure “sposate”, pur senza rivelare l’identità del loro amante divino!
Lo stato di clandestinità – per quanto doloroso e a tratti umiliante – fu però la vera salvaguardia della loro vita religiosa ed esse, aiutate dalla luce dello Spirito Santo, ne intuirono anche la potenzialità apostolica. Le suore in borghese potevano infatti arrivare lì dove i sacerdoti – che dovevano registrarsi alla polizia – non potevano arrivare: accanto alle innumerevoli attività caritative verso i più poveri le suore di tutte le Congregazioni clandestine si impegnarono soprattutto nell’aiuto ai parroci e nell’istruzione religiosa dei fanciulli. Molto delicata fu la loro attività di conforto a di aiuto a sacerdoti e vescovi internati in carcere o nei gulag, ai quali facevano arrivare con i mezzi più impensabili pane e vino per la Consacrazione eucaristica. Alcune comunità poi si specializzarono nel copiare a mano catechismi in ucraino e polacco – severamente vietati dall’autorità comunista – che poi facevano giungere ai sacerdoti di tutta l’Ucraina: alcune suore copiarono a mano più di un migliaio di catechismi, cosa ancor più strepitosa se si pensa che a quest’attività dedicavano le ore notturne! Soprattutto poi la loro apparente normalità nei quotidiani contatti a casa, in parrocchia o nei luoghi di lavoro permetteva loro di attrarre e avvicinare innumerevoli anime, sprofondate nell’abisso dell’ateismo e del nichilismo nei quali l’ormai decennale regime comunista li aveva svezzati.
Nel contesto di un popolo educato alla più rigida orizzontalità materialista la trasparenza del loro sguardo, l’onestà dei loro modi e il loro spirito di sacrificio disinteressato dava prova di un’umanità superiore, un’umanità rigenerata dalla grazia di Cristo e nutrita dal quotidiano contatto con lo Sposo eucaristico. Innumerevoli sono le anime che devono la salvezza a questo apostolato immediato e quotidiano, fatto di piccoli gesti di carità disinteressata, di parole di conforto e di buona testimonianza.
La forza del seme: speranza e carità
Questa testimonianza di vita fu anche la via per attrarre nuove vocazioni e accrescere – nella più rigida clandestinità – le loro stesse Famiglie religiose, apparentemente condannate a morte dal comunismo. Interessante è a questo proposito la testimonianza di suor Giulia Jasinecka: nel 1980 questa giovane non era che quindicenne e frequentava ancora le scuole statali – propagatrici del più rigido ateismo – quando la sua famiglia venne visitata da suor Francesca delle Suore del Cuore Immacolato di Maria. Questa suora “clandestina” parlandole dell’amore di Dio, della vocazione religiosa e facendole leggere qualche libro spirituale la attrasse all’ideale della vita religiosa così che questa giovinetta di quindici anni – vero e proprio bocciolo di rosa non ancora schiuso al sole – decise di rispondere alla sua tenera età alla vocazione religiosa, nonostante fosse ben cosciente dei pericoli della persecuzione.
Soprattutto stupisce che queste nuove vocazioni attratte dalle Congregazioni clandestine sorgessero in momenti in cui il comunismo non sembrava in alcun modo destinato a scomparire. Nella percezione quotidiana dei popoli oltre la “cortina di ferro” il comunismo ancora negli anni ’80 pareva immortale: cambiavano i volti, le sigle della polizia segreta, l’organizzazione politica o i modi di distruggere le opposizioni, ma il regime comunista sembrava destinato a governare per sempre. Questo ci fa comprendere come la vita di queste religiose – così come degli eroici sacerdoti e vescovi che continuarono caparbiamente il loro apostolato nelle persecuzioni – fu proprio uno «sperare contro ogni speranza» (Rm 4,18), un camminare a occhi chiusi in un tunnel di cui non si vedeva la fine, confidando solo nella luce che avrebbe portato il Signore. Anche la sola speranza però non spiega tutto. Cosa spinse molte giovani a scegliere un avvenire di tribolazioni solo per seguire le orme insanguinate di quel Cristo al quale erano disposte a sacrificare tutto? Non c’è altra risposta che l’amore, l’amore vero e puro, al contempo risposta ed effetto dell’amore divino verso di noi. Lo stesso amore con cui Dio comunica la vita alle sue creature... lo stesso amore del seme che muore per dare molto frutto e del filo di erba che con la forza irresistibile della sua vita buca l’opprimente asfalto e si affaccia al sole, consegnando a noi uomini lo spettacolo immenso della potenza divina che dona la vita alle creature. È questa la stessa forza intima della vita religiosa femminile, forza invincibile nascosta sotto le apparenze deboli del sesso femminile, forza di amore sponsale – cioè reale e concreto – verso Gesù che sprigiona tutte le energie psicologiche, fisiche e spirituali per nulla anteporre allo Sposo divino. Omnia vincit amor, dicevano i latini, e ciò è vero soprattutto dell’amore consacrato dai voti religiosi: l’amore verginale è infatti tale che nessuna forza umana né diabolica, nessuna teoria politica né dottrina filosofica, nessun nemico dentro o fuori la Chiesa potrà mai abbattere... come il filo d’erba, umile e discreta creatura a cui nessuna massa d’asfalto potrà mai impedire di vivere.