Le lettere di san Paolo illuminano in modo particolare il mistero della Risurrezione di Cristo, la quale non è semplicemente un atto che il Figlio compì nei riguardi della propria natura umana, ma è l’atto che il Padre operò per glorificare il Figlio, in seguito all’estrema spogliazione di Sé fatta in perfetta obbedienza.
«Se uno è in Cristo è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17).
La Pasqua è la Risurrezione di Gesù, passato dalla morte alla vita incorruttibile, dalla condizione di schiavo a quella di re, dall’ubbidienza alla gloria, dall’umiltà all’esaltazione. La mattina di Pasqua segna uno spartiacque divino, netto, chiaro tra un “prima” e un “poi”, tra quello che c’era e quello c’è, tra il vecchio e il nuovo.
Per comprendere bene il senso profondissimo della frase paolina, analoga a quella formulata come certa profezia da Nostro Signore («Ecco, io faccio nuove tutte le cose», Ap 21,5), bisogna anzitutto contemplare e comprendere il senso della Vita, Morte e Risurrezione di Gesù. È fuori di dubbio che la Risurrezione sia anzitutto la prova ultima, suprema e definitiva della Divinità di Gesù Cristo, che, come liberamente offrì per noi la sua vita, divinamente se la riprese di nuovo ed in forma totalmente glorificata, come Egli stesso ebbe a dire: «Il Padre mi ama perché io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, perché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10,17-18a). Ma il Signore subito dopo aggiunge: «Questo comando ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,17b). Questa frase getta una luce immensa sul mistero della Risurrezione.
Sfogliando l’ampio epistolario paolino, infatti, troviamo un testo della Prima Lettera ai Corinzi che, a detta degli esegeti, è tra i più antichi del corpus letterario dell’Apostolo delle genti. In questo testo la Risurrezione appare come atto del Padre nei confronti del Figlio e non semplicemente come atto del Figlio nei confronti della sua natura umana (a cui ridiede, da Se stesso, la vita): «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3-5). Gli esegeti notano che quella frase «è risuscitato», in greco si trova al passivo (letteralmente si dovrebbe tradurre: “È stato risuscitato”) e tale passivo, ben noto agli esperti di Sacra Scrittura, è un passivo “teologico” (che sottintende l’autore dell’azione, in questo caso Dio Padre). Nella Lettera ai Filippesi, poi, san Paolo riprende il medesimo argomento nel celebre inno alla kenosi, che chiude il quadro di comprensione di questo mistero: «Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo [in greco è doulos, cioè “schiavo”] e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso [letteralmente: “Si vuotò di se stesso”] facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,5-9). Cosa si comprende da questo testo e in che senso la Risurrezione è “opera del Padre”? Si comprende che la Risurrezione di Gesù è direttamente connessa con la sua spoliazione totale di Sé e immolazione suprema nell’ubbidienza; e che proprio per essere andato “così in basso”, con un’ubbidienza assoluta non dissimile a quella degli schiavi, è stato, nella sua natura umana, risuscitato e glorificato al di sopra di tutto e di tutti. In altre parole la Gloria infinita di Gesù risorto non è semplicemente un fatto normale conseguente alla sua dignità divina (“è Dio e quindi si è ripreso la vita che gli era stata tolta”); ma è stata da Lui conquistata con l’eroismo assoluto di una vita spesa in totale ubbidienza al “comando del Padre suo”, cioè in un ininterrotto “fiat” sempre più eroico e sempre più estremo alla Volontà del Padre. In altre parole il Padre gli ha dato la risurrezione e la gloria immensa come premio e risposta alla sua totale e perfetta ubbidienza ai suoi divini Voleri, per il suo “fiat” al Padre pieno, totale, supremo, estremo e incondizionato.
Cosa è, dunque, per noi, partecipare alla Risurrezione di Cristo? Torniamo al versetto di apertura di questo articolo, da cui è tratto anche il titolo. Chi è l’uomo vecchio e cosa sono le cose vecchie? Sempre san Paolo ci dà una prima chiave di lettura in un altro passo delle sue Lettere: «[Se avete dato veramente ascolto a Cristo e alla sua verità] dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e rinnovarvi nello spirito della vostra mente per rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,22-24). Per noi, partecipare al mistero della Morte e Risurrezione di Gesù (che la Sacra Scrittura chiama “prima morte” e “prima risurrezione”, per distinguerla dalla “morte corporale” e dalla “seconda risurrezione”, cf. Ap 2,11; Ap 20,6.14; Ap 21,8), significa far morire e seppellire la nostra umanità che si corrompe dietro le passioni ingannatrici, cioè – per dirla in altri termini – che disobbedisce continuamente a Dio, assecondando sempre e solo la propria volontà. Chi fa la propria volontà, a differenza di chi la crocifigge con Gesù per imparare a fare quella divina, si dà da se stesso la più orribile delle torture e il più orribile dei martìri, senza sostegno, senza forza e, soprattutto, senza alcun merito. Chi invece si unisce al mistero della Passione e della Morte di Gesù, imparando da Lui l’umiltà e l’ubbidienza e a farsi volontariamente “schiavo d’amore” dei divini Voleri, uccide il suo uomo vecchio e risorge completamente nuovo in Cristo.
Cosa riceve questa risorta creatura dal mistero di Pasqua? Gli effetti del saluto del Risorto: «Pace a voi!». Chi fa morire la propria volontà e le celebra un bel funerale, seppellendola sotto un buon metro di terra, ha il dono di risorgere ricreato ad immagine di Cristo, umile e ubbidiente ai Voleri del Padre e di godere di quella pace immensa, profonda, soave, inattaccabile e imperturbabile che tutti gli uomini desiderano e cercano, ma che quasi nessuno trova, e che, come sentenziava il grande Aurelio Agostino, solo in Dio si può trovare, dopo averla cercata chissà dove e chissà come. Insieme alla pace arriva la vera gioia, o meglio un’autentica e profonda felicità unita a somma serenità, che è un vero anticipo, anche se limitato e imperfetto, della beatitudine che attende in Cielo coloro su cui la morte non ha più alcun potere e che prenderanno parte alla seconda risurrezione.
Infine, ma non da ultimo, l’uomo nuovo, plasmato e forgiato in Cristo umile e ubbidiente ai divini Voleri, conosce l’amore di Dio, quello vero, ne è riempito e diventa capace di accoglierlo da tutti e donarlo a tutti, realizzando con perfezione il Comandamento nuovo («amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi») e conquistando l’unico documento di identità valido e autentico dei discepoli di Cristo («da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri»). Se Pasqua non è questo, diventa o una semplice e suggestiva Liturgia, certamente splendida ma sterile o, per i non credenti, occasione per gite, vacanze e viaggi alla ricerca di quella pace e felicità perdute... da cui si torna ancora più tristi, annoiati e inquieti di quando si era partiti... Per noi, sia la morte e sepoltura dell’uomo vecchio e la risurrezione di un uomo nuovo che vive, opera e gode nell’unico bene supremo e necessario: la divina Volontà.