Eccezionale “simbolo” dell’alziamento spagnolo contro il governo comunista e ateo è la vicenda dell’assedio e della liberazione della fortezza toletana dell’Alcazar. Esso potrebbe dirsi essere stato il “cuore pulsante della Spagna cattolica”.
Ovunque nelle sue lettere l’Apostolo Paolo sprona i primi Cristiani ad una vita giusta e santa con metafore di tipo militare: la vita cristiana, che già Giobbe diceva «una milizia» (Gb 7,1), diviene così una «buona battaglia della fede» (1Tim 6,12) da combattere contro i propri nemici, non tanto con le proprie inefficaci armi ma con l’“armatura di Dio”, ovvero “lo scudo della fede”, “l’elmo della speranza e la spada dello Spirito” (cf. Ef 6,12), certi di trionfare insieme a Colui che ha già vinto la morte dall’alto della Croce. In questa visione militante della nostra vita spirituale, anche le guerre combattute tra gli uomini – di per sé uno dei cattivi esiti del peccato originale – possono così diventare una buona fonte da cui attingere esempi di virtù umane e morali, da trasferire poi sul piano soprannaturale della lotta al peccato, al mondo e alla carne. L’episodio che stiamo per raccontare ci rende un esempio fulgido del valore della virtù della fortezza, quella virtù che, rinsaldando tutte le altre virtù intorno al caposaldo di una volontà ferma, dona una fermezza d’animo nel sopportare i casi difficili e i pericoli gravi, fino a condurci al premio della vittoria eterna.
Una crociata rivestita da guerra civile
Proprio di una fortezza, questa volta in muratura, vogliamo parlare: la fortezza dell’Alcazar di Toledo. Se già di norma non si dovrebbe arrossire nel presentare virtù guerresche e militari come esemplificazioni e analogie delle virtù morali personali, tanto meno lo si deve fare in questa occasione in quanto la Guerra civile di Spagna (1936-’39) non fu solo una “guerra giusta” dal punto di vista morale, bensì persino una “guerra santa” perché, al di là degli inevitabili risvolti politici e sociali, fu questa una guerra condotta in difesa della Fede e del retto concetto di libertà religiosa (cioè la libertà di professare la vera Religione, quella cattolica), contro gli assalti del comunismo ateo e irreligioso, desideroso di distruggere tutto ciò che c’era di divino sulla terra. Non a caso i Vescovi spagnoli parlarono sin da subito di una “Crociata”, non certo nel senso negativo che il cattolicesimo buonista vorrebbe imporre oggi ma nell’accezione santamente positiva che dovrebbe avere nella coscienza cattolica. In particolare il celebre Vescovo di Salamanca Enrique Pla y Daniel, futuro Cardinale e Primate, disse, con una quanto mai fortunata espressione, che «quella che riveste la forma esterna di una guerra civile è in realtà una crociata» (Lettera pastorale Le due città). Pio XI poi, facendo eco ai Porporati spagnoli, in un’allocuzione ai profughi spagnoli nel 1937 diresse la sua speciale benedizione «a quanti si sono assunto il difficile e pericoloso compito di difendere e restaurare i diritti e l’onore di Dio e della Religione».
Fin dalla vittoria del Fronte popolare (la coalizione di comunisti, socialisti e anarchici) nel 1936, il governo spagnolo aveva attuato un’aggressiva e violenta politica antireligiosa che aveva portato in pochi mesi – come denunciato dal politico monarchico Calvo Sotelo e dal cristiano Gil Robles – alla distruzione di oltre 160 chiese, a numerosissimi assalti e violenze contro Religiosi e laici cattolici, oltre all’impedimento del culto pubblico in numerosi luoghi. Le denunce pubbliche dei due parlamentari non piacquero ai rossi i quali, pertanto, rapirono e uccisero il deputato Calvo Sotelo, leader dell’opposizione di Destra, attuando peraltro una minaccia paventata dal sanguigno Quiroga, Presidente del Parlamento, dopo un discorso di Sotelo («la violenza contro il capo dei monarchici non sarebbe un reato»).
Tale grave delitto accelerò così una reazione che le forze armate regolari, in maggioranza conservatrici e cattoliche, stavano da tempo organizzando contro l’estremismo anticristiano e comunista del nuovo governo: rispondendo alla parola d’ordine “Sin novedad” (la tipica risposta della sentinella) il 17 luglio 1936 le truppe spagnole in Africa (stanziate alle Canarie), guidate dal generale Francisco Franco Bahamonde, e quelle nel Nord della Spagna, condotte da Emilio Mola, pronunciarono la loro insubordinazione all’iniquo governo del Fronte popolare, invitando l’esercito e la popolazione a insorgere. Fu questo il celebre pronunciamento o alziamento che diede inizio alla Guerra civile spagnola.
Il primo “Sin novedad” dell’Alcazar
Il pronunciamento dei Generali, in piena estate del 1936, trovò in realtà l’importante e storica città di Toledo del tutto assopita. Il suo bastione in posizione sopraelevata – il cui nome arabeggiante mal illustra la classicheggiante struttura rinascimentale voluta da Carlo V – accoglieva da anni la prestigiosa scuola dei cadetti dell’esercito, in quel momento quasi deserta a causa delle vacanze degli allievi e degli ufficiali.
Meno assopita fu invece la reazione del Colonnello di fanteria Josè Moscardò-Ituarte, ufficiale di rango piuttosto basso e direttore della scuola di ginnastica dell’accademia toletana: la mattina del 18 luglio, avuta notizia del pronunciamento, immediatamente si precipitò all’Alcazar da Madrid, sicuro che tutti gli ufficiali avrebbero fatto altrettanto. Solerte assertore della disciplina e dello spirito patriottico, il Moscardò, mentre si dirigeva a Toledo, inviò il suo sottoposto, il capitano Vela Hidalgo, perché riportasse all’Alcazar il maggior numero possibile di cadetti. Tuttavia alla fortezza toletana il Colonnello Moscardò si accorse che, tra ritardi, tentennamenti e manovre repressive del governo, la gran parte degli ufficiali e dei cadetti mancava all’appello, mentre proprio a lui, in quanto ufficiale più anziano, spettava la decisione ultima sull’adesione della fortezza alla “Crociata” dei Generali. Di schietti sentimenti cattolici e politicamente conservatore e patriota, il Moscardò non ebbe dubbi e convinse anche gli altri ufficiali a organizzare la difesa dell’Alcazar contro l’esercito regolare rimasto fedele alla Repubblica.
Accanto ai pochi cadetti e ufficiali di stanza all’Alcazar, la fortezza accrebbe il suo contingente con i membri della Guardia civil (una sorta di carabinieri), i falangisti di Primo de Rivera e molti volontari delle forze di Destra e cattoliche, non pochi appartenenti alla stessa Azione Cattolica. In tutto un esercito piuttosto raccogliticcio e disorganizzato di circa 1.100 uomini, abbastanza ben muniti ma del tutto sprovvisti quanto a viveri e armi per una lunga resistenza quale sarebbe stata quella dell’Alcazar. Insieme ad essi si asserragliarono nella fortezza, per sfuggire ai rastrellamenti comunisti, tutte le famiglie dei volontari ed altri civili: in tutto oltre 500 persone, perlopiù donne e bambini.
In realtà il destino della fortezza di Toledo, pochi giorni dopo il conflitto, sembrava già segnato: a Madrid l’alziamento era quasi del tutto fallito e il governo repubblicano teneva in pugno la situazione, avendo anche le truppe della capitale dichiarato fedeltà al governo: appena pacificata la città, il 20 luglio, un esercito di ben 3.000 uomini, con decine di cannoni, mitragliatrici e sostenuto dall’aviazione partì per espugnare l’Alcazar. Ora Toledo – che dista pochi chilometri da Madrid – era come un’isola bianca in un mare rosso, destinata a essere travolta alle prime ondate della furia, mentre le truppe di Franco avanzavano troppo lentamente dal Sud per poterla raggiungere in tempo debito. L’unica speranza era quella di resistere ad oltranza, e questa resistenza e fortezza avrebbero consegnato l’impresa dell’Alcazar alla storia, facendo di essa l’emblema di un popolo pronto a tutto per salvare la propria Fede e la propria civiltà dalla barbarie comunista.
Il sacrificio paterno del Colonnello Moscardò
Il governo repubblicano in realtà fin dall’inizio non si rese conto delle immense capacità di fortezza e resistenza degli assediati dell’Alcazar, considerandoli alla stregua di folli destinati a una misera fine. Per mostrare il loro disprezzo verso gli assediati i comunisti organizzavano ogni domenica dei tour turistico-ideologici da Madrid accompagnati da cannoneggiamenti, perché i civili potessero venire ad assistere all’ingloriosa resa della fortezza, mentre divenne una moda tra le rivoluzionarie in gonnella provenienti da altri paesi farsi fotografare mentre sparavano con la loro rivoltella contro le mura del bastione toletano. Mai pertanto il governo comunista prese sul serio la possibilità di perdere questa battaglia, e alternò quindi tentativi (non sempre gentili anzi perlopiù violenti) di convincerli alla resa o di fiaccarli psicologicamente, ad assalti furiosi a base di cannoneggiamenti continui, di dolorosi bombardamenti aerei o di assalti sulle macerie fumanti, al suono ripetitivo delle mitragliatrici e con l’uso anche dei famigerati gas. Si calcola che nei 70 giorni di assedio (dal 21 luglio al 27 settembre) circa 12.000 granate furono vomitate contro gli assediati mentre oltre trenta attacchi aerei tentarono di annichilirli. Le mura granitiche dell’Alcazar da una parte e il valore militare dell’esercito degli assediati dall’altra, respinsero però, a volte persino con sortite all’arma bianca dalle mura semidistrutte, gli assalti dei repubblicani (almeno otto furono i tentativi di conquistare la fortezza).
A “dare il la” a questa armonia di coraggio, fortezza e valore militare, fu proprio però, nei primi giorni d’assedio, il sacrificio eroico del colonnello Moscardò, che da quel momento non divenne solo la testa della resistenza ma anche l’anima. Questo modesto ufficiale e insegnante di ginnastica, strappato dalla quotidianità del suo ufficio dalle circostanze della guerra, ben seppe rispondere a questa chiamata della Provvidenza con il sacrificio più doloroso per un padre, più doloroso persino della propria morte: a immagine del Padre Celeste, che sacrificò il suo Figlio Unigenito per la salvezza degli uomini, il Colonnello Moscardò accettò la morte del figlio pur di non abbandonare questo simbolo della resistenza al comunismo. Il giovane Luis Moscardò, nascosto in un’abitazione di amici a Toledo, il 23 luglio venne riconosciuto e catturato dai miliziani comunisti che ne avrebbero voluto fare la moneta morale per costringere il Colonnello alla resa. Riallacciata la linea telefonica con la fortezza, un viscido Colonnello comunista, Candido Cabello, minacciò il Moscardò di uccidere il figlio se non si fosse arreso e, per avvalorare la sua minaccia, avvicinò l’apparecchio direttamente a Luis. «Dicono che mi fucileranno se l’Alcazar non si arrende. Ma tu non preoccuparti per me», pronunciò tremante il giovane. «Se è così, figliolo, raccomanda l’anima a Dio e muori da spagnolo», fu la risposta del padre, con il cuore a pezzi ma una sicurezza soprannaturale sulle labbra, e, dopo pochi minuti, ribadì ai comunisti, che gli avevano concesso dieci minuti di tempo per pensarci: «Potete tenervi i dieci minuti e fucilare mio figlio. L’Alcazar non si arrende!».
A questo grido di battaglia, avvalorato dal sangue del figlio (morto, secondo alcuni, qualche giorno dopo al grido di «Viva Cristo Rey! Viva la España!») il popolo dell’Alcazar, una vera e propria città in miniatura di oltre 1.600 abitanti, rispose con le uniche e vere armi efficaci: una fortezza eroica, uno spirito di sacrificio senza pari, una fiducia illimitata nella Divina Provvidenza e un affidamento certo alla Beata Vergine Maria.
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