FEDE E CULTURA
Il perché dell’“Ultima Crociata”
dal Numero 25 del 26 giugno 2016
di Giuseppe Butrimo

La sollevazione armata spagnola iniziata il secolo scorso dall’esercito spagnolo contro il governo della Seconda Repubblica fu proclamata ben presto e a ragione una “Crociata”. Come mai nella cattolicissima Spagna, 450 anni dopo la vittoria finale contro i musulmani, vi era di nuovo il bisogno dei crociati?

Le rivoluzioni spagnole dell’Ottocento

I primi conati rivoluzionari in Spagna risalgono all’invasione napoleonica e al tentativo dei liberali d’introdurre nel Paese una Costituzione ispirata a quella francese del 1791. Il Re Ferdinando VII la respinse; e anche quando, dopo il colpo di Stato del 1820 (operato dai militari-massoni, soprattutto dal generale Del Riego), fu costretto ad approvare la Costituzione liberale (si tratta del cosiddetto triennio liberale), la situazione non durò tanto. Con le sollevazioni popolari in difesa della monarchia e con l’aiuto dei francesi, Ferdinando riuscì a riacquistare il potere. Nel giro di 15 anni, l’esercito francese entrò dunque due volte in Spagna. Mentre però la prima volta fu combattuto in ogni modo dal popolo spagnolo, fedele alla Chiesa e alla monarchia, tanto che bastava che un soldato di Napoleone s’allontanasse per un attimo dai colleghi perché rischiasse d’esser accoltellato; nel 1823 la reazione dei semplici spagnoli fu proprio contraria. Essi salutarono con gioia e speranza i Centomila figli di san Luigi che dovevano aiutare il loro Re. Purtroppo, Ferdinando non seppe gestire bene la situazione dopo esser tornato ai pieni poteri. Non seppe anzitutto tornare alle sane tradizioni della monarchia spagnola e preferì riprendere la strada dell’assolutismo. L’ultimo decennio del suo regno (chiamato poi dalla propaganda liberale Decennio nefasto) fu di sicuro caratterizzato da una durezza, forse eccessiva; d’altra parte, era questo il periodo della decomposizione dell’Impero spagnolo con le proclamazioni d’indipendenza dei Paesi del Sudamerica.
Con la morte di Ferdinando (1833) in Spagna scoppiò il conflitto per la sua successione, tra i sostenitori del legittimo pretendente, il Cattolico esemplare Carlo (fratello di Ferdinando), e quelli della figlia del defunto Re, Isabella, di soli tre anni, sostenuta anche dai liberali. Iniziò così la questione carlista, un lungo conflitto dinastico di cui ancora durante la Guerra civile del 1936 si sarebbero sentite l’eco e le conseguenze (saranno infatti los carlistas, con il famoso basco rosso, l’esercito più generoso ed esemplare della guerra). Il conflitto – che costituisce in sé un tema affascinante, ma troppo lontano dal nostro interesse – si concluse con la vittoria degli isabelinos e con l’introduzione della monarchia costituzionale, secondo il modello della monarchia borghese introdotta in Francia con la rivoluzione di luglio (1830). I moti rivoluzionari del 1848 tentarono anche in Spagna di realizzare ulteriori liberalizzazioni della legge. La debolezza del regime monarchico-liberale si mostrò manifestamente con il salire al trono (o piuttosto: giurare sulla Costituzione) di Amedeo di Savoia, chiamato ironicamente Maccheroni I, nel 1871. Appoggiato dai soli liberali-progressisti, Amedeo rinunciò alla corona quando il proprio partito si divise in due (tra i liberal-monarchici e i liberal-repubblicani). Così, gli anni 1873-1874 videro la breve vita della Prima Repubblica spagnola. Di nuovo i rivoluzionari spagnoli seguirono l’esempio della Francia, dove la Terza Repubblica fu instaurata due anni prima. Alla Prima Repubblica spagnola seguì la cosiddetta Seconda restaurazione borbonica, con i regni di Alfonso XII e Alfonso XIII: due Re costituzionali e deboli, col sistema politico in fondo assurdo della monarchia costituzionale, una tappa già “superata” nella Francia più progressista. Il popolo cattolico era molto lontano da una tale monarchia, appoggiata principalmente dai liberali. Gli stessi liberali preparavano il terreno per una rivoluzione più radicale. Una situazione del genere non poteva dunque durare a lungo.

“España ha dejado de ser católica”

L’inizio del secolo XX vide – come anche in altri Paesi – una profonda crisi della Fede, soprattutto nelle città. Per la prima volta nacque il fenomeno dei “cattolici, ma non praticanti”. Allo stesso tempo, con i governi anti-cattolici in Francia di inizio Novecento, con le rivoluzioni portoghese (1910), messicana (iniziata nello stesso anno) e russa (1917), anche in Spagna crebbe la forza dei movimenti rivoluzionari radicali.
Nell’aprile del 1931 le elezioni municipali dimostrarono la scarsa popolarità della monarchia alfonsiana, soprattutto nelle grandi città: i monarchici, pur prendendo in assoluto più mandati di consiglieri (40.000 contro i 39.000 dei repubblicani), rimasero sconfitti in 40 capoluoghi, vincendo solo in 10. Il Re Alfonso XIII, da buon “monarca costituzionale”, ritenne tale risultato una mozione di sfiducia e “per evitare il pericolo di una guerra fratricida” decise di “sospendere i suoi privilegi regali” e partì in esilio volontario in Inghilterra.
Quella di Alfonso fu una diserzione e probabilmente proprio la scelta peggiore da parte di chi voleva evitare una guerra civile. Immediatamente dopo la sua emigrazione, in Spagna fu proclamata la Repubblica. Nel solo mese di maggio comunisti e anarchici profanarono 100 chiese e cappelle distruggendo molte di esse. A chi chiedeva al Governo di mettere i soldati a proteggere le chiese e i conventi, rispose il ministro di guerra, Manuel Azaña: «Tutti i conventi della Spagna non valgono la vita di un solo repubblicano». A giugno fu esiliato il Primate di Spagna, Cardinal Segura. A dicembre, dopo l’approvazione della Costituzione, lo stesso Azaña (divenuto nel frattempo primo ministro) pronunciò la famosa dichiarazione: «España ha dejado de ser católica» (“La Spagna ha cessato di essere cattolica”). Per assicurare tale situazione, un mese dopo il Governo espulse dalla Spagna i Gesuiti. Pio XI nella Enciclica Dilectissima nobis raccomandò vivacemente ai Cattolici della «nobile e sommamente cara nazione spagnola» di unirsi «disciplinati per la difesa della fede e per allontanare i pericoli che minacciano lo stesso civile consorzio».
La situazione migliorò dopo la caduta del Governo di Azaña. I Cattolici vinsero le elezioni del 1933, ma senza ottenere la maggioranza per poter formare il Governo. Al potere salirono i liberali del Partito Radicale (con Alejandro Lerroux a capo), appoggiati però dai Cattolici. Nel 1934 vari gruppi della Sinistra rivoluzionaria tentarono di riprendere il potere attraverso una serie di ribellioni, tra le quali la più importante fu quella delle Asturie, soffocata dal giovane Generale Francisco Franco. Il quadro politico era complicatissimo. Vi erano almeno due diverse correnti monarchiche, risalenti al conflitto dinastico del 1833 (dopo la morte di Ferdinando VII): i sostenitori della monarchia costituzionale e i legittimisti (il movimento carlista). Tra le forze filo-marxiste si possono elencare i comunisti, i socialisti e gli anarchici: questi ultimi per principio non si presentarono alle elezioni, ma furono molto attivi negli scontri nelle città e negli atti di violenza anticlericale. Non mancarono i repubblicani cattolici, tra i quali il brillante oratore Josè Gil Robles, né i liberali, anche se questi ultimi rimasero compromessi da uno scandalo di corruzione che portò alla caduta il Governo di Lerroux. La situazione era ancora più aggravata dalle forti tendenze indipendentiste, soprattutto in Catalogna (dominata dalla Sinistra rivoluzionaria) e nei Paesi Baschi (dove gl’indipendentisti erano piuttosto cattolici).

“Le onde di sangue devono colorare il mare”

Nelle elezioni del febbraio 1936 trionfava il Fronte Popolare, un blocco dei partiti rivoluzionari di Sinistra, appoggiato anche dall’Internazionale Comunista (Comintern) di Mosca. Il complicatissimo ordinamento elettorale permise alla Sinistra di prendere più di 260 posti nel Parlamento contro circa 150 della Destra, pur avendo preso solo una minima maggioranza (o addirittura minoranza) dei voti. Di sicuro il Fronte Popolare non godeva di un mandato sociale talmente forte da potersi ritenere autorizzata a «disfare la Spagna per rifarla nuova», secondo l’espressione di Azaña (tornato al potere, questa volta come Presidente). Anche se il giornale El Socialista modestamente indicava come scopo l’imitazione del modello sovietico, ben presto la deputata socialista Margarita Nelken gridò nel Parlamento che quella spagnola doveva essere una rivoluzione più grande e più crudele di quella russa: «Le onde di sangue devono colorare il mare». Intanto, le differenze tra i partiti socialista e comunista praticamente scomparivano e infatti si cominciarono le trattative per unirsi in un solo partito, a capo del quale sarebbe salito Francisco Largo Caballero, uno dei socialisti radicalizzatisi velocemente nell’ultimo quinquennio, fino al punto di acquistare il soprannome di Lenin spagnolo.
Subito dopo le elezioni, dal marzo del 1936, ricominciarono le profanazioni e distruzioni delle chiese. A maggio furono chiuse tutte le scuole cattoliche. Il Governo proclamò anche la riforma agraria, secondo il modello comunista. A metà di giugno Gil Robles, capo del partito cattolico-repubblicano, presentò in Parlamento il riassunto di poche settimane del Governo del Fronte Popolare: distruzione totale di 160 chiese; 269 omicidi politici; 1.287 attacchi di stesso genere; demolizione di 69 uffici di partiti politici; saccheggio di 10 redazioni di giornali; 113 scioperi generali. È importante far notare questi atti di violenza (ai quali ben presto se ne aggiungeranno di ancora più gravi) per non credere alla propaganda socialista che vorrebbe farci intendere che la violenza sia iniziata solo con l’intervento dei golpisti militari. In realtà, un gruppo di Generali cattolici e anticomunisti dell’esercito cominciò a prendere in considerazione la possibilità di una sollevazione armata solo al vedere il progresso dell’anarchia e delle persecuzioni. Ma nemmeno l’elenco scioccante di Gil, nemmeno le minacce di Nelken o di Largo Caballero erano in grado di spingere all’azione i militari. L’impulso venne solo nel mese di luglio.

“Questa è una guerra religiosa!”

Anche un altro capo dell’opposizione, il monarchico José Calvo Sotelo, denunciò in Parlamento le violenze del Governo filo-marxista. A quelle denunce rispose il Primo Ministro, Casares Quiroga: «Beh, uccidere un capo dei monarchici non sarebbe un crimine». Calvo Sotelo replicò vivacemente, terminando con la frase: «È meglio morire con onore che vivere indegnamente». L’11 luglio, dopo un altro discorso di Calvo Sotelo in Parlamento, la famosa leader dei comunisti, Dolores Ibarruri (la Pasionaria), gridò: «Questo è l’ultimo discorso di quest’uomo». Il giorno dopo Calvo fu rapito e ucciso nella notte tra il 12 e il 13 luglio del 1936.
La sua morte, insieme all’arresto del capo dei falangisti, Antonio Primo de Rivera (fucilato qualche mese dopo), convinse ulteriormente i Generali che non vi era altra via per fermare il Governo tirannico se non attraverso la sollevazione. Il 19 luglio in varie città del Paese i militari legati ai generali Sanjurio, Mola e Franco, riuscirono a prendere il potere: purtroppo a Madrid e in Spagna il complotto fallì. Franco iniziò a trasportare dal Marocco le truppe fedeli a «ciò che la Spagna è stata per i secoli». Sulla piazza principale di Pamplona si riunirono migliaia di uomini armati. Tutti portavano i baschi rossi dei carlisti. Molti avevano cucito sulle vesti il simbolo del Sacro Cuore di Gesù. Manuel Fal Conde, leader dei carlisti proclamò: «Questa è una guerra religiosa. È la riconquista, perché tutto ciò che la Spagna conquistò fu conquistato sotto la protezione della Croce e grazie alla Croce fu conservato».
Fal Conde aveva ragione. La guerra che iniziava era una guerra in difesa di tutto ciò che è santo. Come contro tutto ciò che è santo si scatenò subito la rabbia infernale dei rivoluzionari (riserviamo questa parola ai servitori della luciferina rivoluzione contro Cristo, non a chi legittimamente si ribellò contro di essi). Infatti, nel territorio controllato dal Governo repubblicano subito s’intensificò estremamente la persecuzione della Chiesa. Dal 19 luglio al 1° ottobre ottennero la gloria del martirio quasi 6.000 Sacerdoti e Suore. Non si può spiegare questo numero di vittime disarmate se non con l’odio luciferino nutrito dai comunisti e dagli anarchici verso la Chiesa di Cristo.

Niente di personale

Il Parroco di Los Navalmorales, Don Liberio (beatificato da Benedetto XVI), preso dai rivoluzionari disse di esser felice di soffrire per Cristo. «Allora morirai come Cristo!», gli gridarono. E infatti, lo spogliarono, lo flagellarono, lo incoronarono di spine sputandogli addosso, gli fecero portare una croce e bere l’aceto... Infine però la meravigliosa pazienza del Parroco vinse: o per paura che il suo trionfo fosse ancora più palese, o per rispetto del suo eroismo, all’ultimo momento i carnefici rinunziarono all’idea di crocifiggere il Sacerdote. Anzi, prima di fucilarlo, domandarono quale fosse la sua ultima volontà. Don Liberio chiese di esser fucilato voltato verso chi sparava, così da poterlo benedire...
Nella diocesi di Barbastro sopravvissero solo 17 Sacerdoti, morendo per la Fede 123. Ai Sacerdoti e Chierici clarettiani uno degli sbirri disse: «Non odiamo voi, ma la vostra veste: toglietevi le talari e sarete come noi: allora vi libereremo». Infatti, in questo odio non vi era “niente di personale”... A Barcellona in soli dieci giorni di quel luglio ’36 furono uccisi 197 Preti; i rivoluzionari distrussero anche più di 200 chiese e cappelle: nei successivi tre anni ne avrebbero distrutte in tutta la Spagna più di 20.000. Tra i Religiosi e Sacerdoti non furono risparmiati nemmeno i morti, tolti dalle cripte e profanati in maniera più abominevole. Giocare a calcio in una chiesa rovinata, usando come pallone il cranio di un Santo tolto dal reliquiario è un esempio modestissimo. Per pudore non entriamo nei particolari di come i rivoluzionari profanavano i corpi di Preti e di Suore. Non di raro le chiese erano trasformate in case di prostituzione.
Come nota lo storico Warren H. Carroll, «il generale Franco giurò di far giustizia nei confronti dei colpevoli di queste bestialità», inclusi quelli che incitavano ad essa. Molti lo accusano per aver mantenuto la parola. In realtà, prosegue Carroll, «chi aveva organizzato quell’olocausto [dei Cattolici spagnoli], non meritava la pietà: come qualche anno dopo non la meritavano i criminali nazisti, così simili a loro».

Guerra giusta, malgrado le ingiustizie

Rimane fuori dubbio che durante la Guerra anche la parte controrivoluzionaria commise dei crimini; è del resto noto come le guerre civili, per vari motivi, tendono solitamente ad una violenza maggiore rispetto alle altre guerre. Bisogna tuttavia sottolineare con forza che vi è una grande differenza tra il mirare l’attacco in particolare contro le vittime innocenti, disarmate e consacrate a Dio e l’attaccare invece i militi comunisti o anarchici. C’è una grande differenza: commettere gli abusi (fermo restando che è sempre un male) in una guerra giusta o organizzare tutta la rivoluzione, tutto il sistema d’ingiustizia, dove i crimini non sono un abuso, ma una norma. C’è una grande differenza: rispondere con crudeltà alle crudeltà o suscitare le crudeltà altrui con le crudeltà proprie. C’è infine una grande differenza: lasciarsi trascinare dall’odio difendendo i sacrosanti diritti o agire per odio contro tali diritti.
L’apologia dell’“ultima crociata” non mira a giustificare le crudeltà accidentalmente commesse dai crociati: queste rimangono biasimevoli. Il soldato, tanto più il milite di una crociata, non dovrebbe mai odiare, mai esser crudele; e pur compiendo bene il suo dovere di combattere e dunque anche uccidere il nemico. Purtroppo, la pratica bellica è tale che accanto alla fioritura delle virtù umane, cavalleresche e cristiane, vi si trova in abbondanza anche ogni tipo di vizio: e lo si può trovare da tutte le parti del conflitto. Ma ciò ovviamente non significa che nessuna parte del conflitto ha ragione. Se due persone discutono sul risultato dell’equazione 2+2=..., possono benissimo arrivare tutte e due alla rabbia ed agli insulti (tanto più che non è un tema che offre vasto campo alle argomentazioni), tuttavia solo chi dice: “=4” ha ragione.

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