Non era bastata tutta la Sua vita di santità, la Sua divina predicazione, nemmeno i Suoi miracoli... Ecco allora l’ultima prova d’amore, la più estrema: la morte ignominiosa sulla Croce. Madre Speranza di Gesù, fondatrice delle Ancelle e dei Figli dell’Amore Misericordioso, recentemente beatificata, contempla le scene della Passione di Gesù come solo chi ha avuto il privilegio di condividerne le sofferenze sa fare...
La morte in croce è la più disonorevole e ripugnante, eppure è stata la più adatta agli alti disegni di Dio sia per quel momento che per il futuro.
Non c’era infatti in quel momento altro che nella morte del Redentore esprimesse meglio l’idea del sacrificio e del sacrificato.
Nudo, solo, indifeso, inchiodato, si va dissanguando lentamente. Non è possibile immaginare una vittima più struggente. Su un’altura dal vasto orizzonte, orientato verso tutto il mondo, visibile e accessibile a tutti, sta l’altare della croce dove si consuma il primo sacrificio cruento della Nuova Alleanza.
Tra cielo e terra sta sospeso, quale Mediatore, con le braccia aperte per abbracciare il mondo. Ferito, e alle numerose ferite se ne aggiungono altre quattro. Su queste ferite aperte dai chiodi nelle mani e nei piedi poggia tutto il peso del corpo mentre il ferro a spigolo dei chiodi lacera e tortura senza posa l’interno delle ferite. Terribile e insopportabile è la posizione del corpo, così esageratamente stirato e disteso sulla croce che il più piccolo movimento gli causa atroci dolori.
All’estrema tensione dei muscoli straziati e lacerati si aggiunge una febbre altissima, che avvolge il corpo intero in un calore di fuoco che brucia in tutte le ferite. L’abbondante perdita di sangue gli causa un’arsura insopportabile che gli esaurisce le forze e lo consuma. Per quanto grande sia il martirio del corpo, ancor più grande è il martirio della sua anima. Egli, l’Innocenza, la Purezza, la Santità fatta persona, subisce tutte queste aspre sofferenze e una morte così crudele, senza il conforto derivante dalla consapevolezza della sua innocenza, come avviene nei Martiri e nei Santi. Egli non subisce la morte dell’innocente ma quella del criminale: è infatti il grande peccatore, su cui gravano i peccati di tutto il mondo.
Così muore il Salvatore del mondo; è necessario che muoia così perché solo così, esaltato sulla croce, innalzato sul popolo che lo circonda, può dare morendo un tale eccezionale esempio e mantenere dignità e grandezza, proprie del Salvatore.
Nella morte di Gesù si assommano tutti i dolori, le pene e le angosce di coloro che sono morti e moriranno sulla terra. E la croce riassume ed esprime il culmine di tutte le sofferenze della vita del Salvatore.
In nessun altro posto Gesù fece maggiori prodigi che sulla croce con le mani e i piedi immobilizzati; mai fece miracoli più grandi di quando, sospeso sulla croce, era tutto una piaga. Durante la vita aveva risuscitato alcuni morti, guarito alcuni malati, perdonato dei peccatori, guadagnato dei discepoli, cacciato i demoni da alcuni ossessi. Morendo fra i tormenti sulla croce, ha vinto la stessa morte, ha cancellato il peccato, ha redento il dolore, ha trionfato sull’inferno, ha soggiogato il mondo e attirato a Sé l’umanità.
In quel momento ha avuto inizio la regalità di Cristo; ha cominciato a regnare sul mondo dal legno della croce che si è trasformata in qualcosa di diverso; da patibolo è divenuta trono; da simbolo di maledizione, segno di benedizione; da strumento di morte, albero di vita. Da legno secco, morto e senza foglie, potenza germinativa di rigoglioso fogliame e di abbondanti frutti, ha messo profonde radici in ogni posto e ovunque genera e produce frutti di vita eterna. Sì, nella croce si trovano tante tribolazioni e ignominie, ma anche una sublime grandezza, potenza e forza vittoriosa.
Gesù è abbandonato
Gli Apostoli e i Discepoli abbandonano Gesù. Dove sono Pietro, Giacomo, Andrea e gli altri da Lui tanto amati, che hanno goduto del suo affetto e partecipato della sua fama? Dove sono i Discepoli che erano fieri di chiamarlo Maestro? Per la paura sono fuggiti e si sono nascosti, negando di essere stati un tempo suoi amici. Così si avvera la profezia: «Ecco verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo».
Gesù è abbandonato dal popolo che prima lo acclamava con fervore e gioia. Favorito delle sue benedizioni, ora le ricambia abbandonandolo e fuggendo da Lui come fosse un lebbroso. Perfino i bambini, che prima erano felici di stargli accanto e gli avevano cantato “osanna”, hanno il cuore turbato: lo guardano con occhi dubbiosi tenendosi lontani per il suo aspetto che incute orrore. Hanno sentito dire che è cattivo e anch’essi gridano “crocifiggilo”.
Gesù è abbandonato anche dalle autorità il cui obbligo è accertare la verità e porsi imparziali a fianco dell’innocente. L’autorità religiosa aveva chiesto la sua morte e l’aveva ottenuta con la forza, sobillando il popolo.
Neppure Nicodemo aveva osato insistere nella sua protesta. L’autorità civile, nelle cui mani stava la decisione finale, l’aveva vigliaccamente consegnato, pur riconoscendone l’innocenza e proclamandola pubblicamente. Perfino uno dei due malfattori costretti alla stessa morte, lo rifiuta bestemmiando. Solo uno lo difende, il buon ladrone, unica voce che dal patibolo si leva in sua difesa. Non lo abbandona un piccolo gruppo: la sua Santissima Madre, il Discepolo amato e alcune donne che rimangono fedeli al suo fianco.
Durante la cena della sera precedente, tutti avevano partecipato dei suoi santi insegnamenti e delle grazie da Lui comunicate. Ma nell’orto, per la paura, il loro numero è diminuito. Fino al Getsemani lo seguono in undici; al luogo della sua agonia tre; fin sul Calvario, ai piedi della croce, uno. Qui lo abbandona anche la luce del sole e rimane avvolto nelle tenebre, sospeso nel vuoto, immagine del più totale abbandono. Questa stessa sofferenza dell’abbandono si rinnova per il Signore nel Sacramento Eucaristico.
Gesù prega per i suoi nemici
È nobile pregare per i nemici, ma molto più è scusarli con amore, come fa Gesù dicendo con incredibile carità: «Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno».
Per scusare la malvagità dei cuori trova l’unica scusa possibile: la cecità di spirito. Ma è proprio vero che non sanno quello che fanno? Non hanno visto i suoi miracoli? Pilato stesso non ha riconosciuto apertamente la sua innocenza? È vero che i rozzi soldati romani ignoranti, le guardie e gran parte del popolo disorientato, non sapevano ciò che facevano. A questi certamente si riferiscono le parole dell’Apostolo: «Se l’avessero conosciuto, non avrebbero crocifisso il Signore della vita». Ma possono ugualmente essere scusati i sacerdoti giudei e i dottori della legge? Sì, Gesù include pure loro nella sua commovente supplica al Padre, perché il vero amore non esclude nessuno dal perdono, neppure il più incallito dei nemici.
Il buon ladrone
«In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso».
Lo smarrimento. La vita di un ladro che si conclude sul patibolo suppone una lunga sequenza di sbagli e di crimini. «Noi riceviamo quanto meritiamo per le nostre azioni», confessa il buon ladrone.
Era uno degli uomini sbandati, travolti dalla impetuosa corrente della vita, come alberi sradicati e abbattuti lungo il corso di un fiume. Un uomo senza patria, né casa; errante e vagabondo. Quanti di questi poveri sbandati si trovano nelle grandi città. Beati loro, se alla fine, incontrano un Sacerdote o Religiosa nel cui spirito c’è qualcosa del buon Pastore morto sulla croce!
Il raggio di luce. Quel ladro fino ad allora non aveva conosciuto Gesù, né l’aveva mai visto. Per questo in un primo momento lo insultò come gli altri. Ma vedendone la straordinaria dignità, la pace e la mansuetudine ne fu ammirato e quel poco di rettitudine e lealtà che conservava lo porta a formulare questo giudizio: quest’uomo è innocente. «Noi abbiamo peccato; Lui invece non ha fatto nulla di male».
Strano! I sacerdoti, gli scribi, i farisei, il popolo sbandato e l’altro ladrone lo condannano esclamando: «È reo di morte». E il buon ladrone contro tutti afferma: «È innocente, non ha fatto nulla di male». Eppure il buon uomo non ha letto le Sacre Scritture come i capi del Sinedrio e del tempio, né ha mai ascoltato gli insegnamenti del Signore come gli Apostoli, né come Pietro lo ha visto camminare sulle acque o trasfigurato.
Egli lo vede soltanto ora, agonizzante e coperto d’ignominia, e tuttavia penetra nel mistero della croce più di tutti loro che invece si scandalizzano al vederlo così umiliato. Di più, egli arriva ad adorare come Re della gloria Colui che vede pendere dalla croce: «Signore, ricordati di me quando sarai nel tuo regno».
La preghiera. Non era difficile supplicare Gesù quando passava tra la gente circondato dalla fama dei suoi miracoli; quando da ogni parte si udivano richieste di aiuto e lo invocavano: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Ma ora tali acclamazioni si sono spente e al loro posto risuonano voci di scherno: «Se tu sei il Cristo salva te stesso e anche noi»; «Ha salvato altri, non può salvare se stesso».
Soltanto uno prega con grande fiducia: «Signore, ricordati di me quando sarai nel tuo regno». Non gli chiede di essere liberato dalla croce e da quelle sofferenze, che vuole subire per riparare i propri peccati: «Noi riceviamo ciò che abbiamo meritato con le nostre azioni». Non pretende nulla; chiede solo: «Ricordati di me».
Quante cose c’insegna, a volte, l’approssimarsi della morte! Ad un povero criminale insegna a pregare con tanta devozione e fervore da commuovere i presenti e il sacerdote che assistono. È una conversione autentica, in extremis; il ladrone fa quanto è necessario per morire santamente: si confessa, si pente e si volge al Crocifisso come a un’ancora di salvezza, lo bacia con fiduciosa devozione e viene ricompensato in modo straordinario: il perdono completo dalle labbra stesse di Gesù, l’Indulgenza plenaria in punto di morte, indulgenza che tutto cancella e l’assicurazione dell’eterna Salvezza.
Si realizza così quello che Gesù aveva detto: «Molti dei primi saranno ultimi, e gli ultimi primi».
Stavano presso la croce di Gesù Maria sua madre, Giovanni, Maria di Cleofa e Maria di Magdala
Nella Vergine Maria, ai piedi della croce, risplendono fedeltà e fortezza, due qualità del suo amore materno.
Fedeltà materna. Nei giorni felici di Gesù, quando il sole del successo splendeva nel cielo della sua vita e lo acclamavano le moltitudini, la Madre si era tenuta in disparte, come sullo sfondo della scena. Ma giunta per Lui l’ora della Passione e dell’ignominia, Ella si fa avanti e si mette pubblicamente al fianco del Figlio. In piedi rimane accanto al letto di morte del Figlio amatissimo. È lì il suo posto di mamma.
È vero purtroppo che non può far nulla per alleviare le pene del Figlio, per estinguere la sua sete e curare le sue ferite, ma vuole almeno mostrare apertamente con la sua presenza che è tutta Sua, a Lui fedele anche se tutti l’abbandonano.
La Santissima Vergine rimane accanto al Figlio, amato ora come quando da bambino le sorrideva. È stato ed è l’unico amore, fedele fino alla morte. Tu, come ti comporti con Gesù?
Ho sete
Il tormento della sete naturale. Come tutte le altre membra, anche la bocca, le labbra, la lingua, il palato e la gola del buon Gesù dovevano partecipare della sua Passione.
Sì, ha sete! L’abbondante sudore di Sangue nell’orto, la grande quantità di Sangue versata a causa della flagellazione, il lungo percorso e doloroso cammino al Calvario, i raggi ardenti del sole, l’amara pozione di mirra che gli hanno fatto bere e le crudeli ferite dei chiodi della crocifissione gli dovrebbero procurare una sete insopportabile.
Cerchiamo in questo lamento gridato da Gesù “Ho sete!” anche un altro significato più profondo e capiremo che è espressione di quella sete infinita di salvezza delle anime che brucia ardentemente l’anima del Redentore del mondo. Proprio questo desiderio, durante la vita l’aveva portato, senza sosta né riposo, di villaggio in villaggio, di città in città.
Adesso che dalla croce, Egli rivolge il suo ultimo sguardo su Israele e sull’estensione della terra, cresce senza misura questo desiderio che lo tormenta e lo consuma indicibilmente. «Sitio – Ho sete».
Oh! Sacra sete, causa di tante meraviglie! Sai cos’è o no? Se veramente ami il divino Maestro, la proverai, altrimenti ti sarà sconosciuta.
Gli danno da bere una bevanda composta di aceto allungato con acqua che dissetava senza ubriacare.
L’abbandono del Padre
Stravolto, le labbra tremanti e gli occhi colmi di lacrime e di orrore, Gesù alza lo sguardo al cielo ed esclama: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Che significa questa parola? È possibile forse una separazione tra il Figlio e il Padre? No, Gesù in tal caso non avrebbe potuto dire “Dio mio”.
Era sempre vero ciò che aveva detto una volta: «Io e il Padre siamo una cosa sola», e un’altra volta: «Colui che mi ha mandato è con me e non mi lascia solo». Per questo poco dopo torna a chiamarlo Padre e dice: «Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito».
Forse nella persona di Gesù è avvenuta una dicotomia tra la divinità e l’umanità, ossia, la natura divina ha smesso di convivere con la natura umana allontanandola da sé? Questo grido di dolore è forse la voce della sacra umanità di Cristo che si sente staccata e abbandonata dalla divinità?
No, la natura divina e quella umana sono così intimamente unite in una sola Persona che nulla può separarle, neppure la morte. Egli muore infatti come Redentore divino e umano e non soltanto come uomo.
L’anima di Gesù si sentì totalmente abbandonata da Dio e dalla divinità perché il Padre celeste pose tra sé e l’anima di Gesù la nube oscura della Giustizia divina, offesa dal peccato e carica del castigo esigito dalla legge. Fu questa nube di peccato e di giustizia a produrre le tenebre del Calvario, nella cui spaventosa oscurità fu immersa l’anima del buon Gesù, la coscienza beatifica della sua filiazione divina.
La natura divina, senza separarsi, si ritirò e lasciò che la natura umana soffrisse da sola.
Gesù prese su di sé ogni colpa e ogni castigo del mondo, per cui ricadde su di Lui la pena dell’abbandono divino; il più severo e tremendo castigo. In tal modo Egli volle allontanare da noi questa maledizione. Il peccatore si allontana da Dio e per questo è da Lui abbandonato. Gesù volle sperimentarlo su di Sé e assaporarne l’intensa amarezza fino in fondo.
Per legge eterna il peccato causa il castigo e la maledizione di Dio. Se Gesù con la Passione e Morte doveva soddisfare pienamente la colpa fino a cancellarla, non poteva sottrarsi al castigo più tremendo meritato dal peccatore: l’abbandono di Dio. Pertanto caricò sulla propria anima, per toglierlo a noi, il tormento proprio dei condannati all’inferno e alzò la sua voce per essere udito non solo dal Padre ma anche da noi.
Il suo pietoso lamento è un messaggio d’amore che dice: “Per voi sono giunto a soffrire questo terribile castigo”.
Anche su di noi può calare la notte oscura della solitudine, tanto oscura che ci sembra di essere abbandonati da Dio e dagli uomini, di non provare alcun conforto nei misteri della Fede e nella preghiera nella quale dobbiamo lottare contro l’aridità e lo sconforto.
In una situazione simile, che fare? Non scoraggiamoci né disperiamo, ma fissiamo lo sguardo su Gesù Crocifisso. Nel nostro abbandono rifugiamoci nel Suo e uniti a Lui gridiamo al Cielo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Diciamo allora: «Tu, Gesù mio, hai voluto soffrire tutto questo per me, io ora voglio soffrirlo con Te e per Te».
Tutto è compiuto
Gesù sente vicina la sua fine. Si raccoglie profondamente e ancora una volta contempla tutta la sua vita, dalla nascita alla croce. Che vita meravigliosa tra questi due punti estremi! «Padre – aveva detto Gesù nella sua preghiera di commiato – ho compiuto l’opera che mi hai affidato». Con più diritto può ripetere ora questa frase avendo portato a termine la parte più difficile di quest’opera: la sua amara Passione. Per questo grida forte affinché tutti lo sentano: «Tutto è compiuto».
È compiuta la grande opera della Redenzione. Il Padre ha accettato l’espiazione del suo amato Unigenito che rappresenta il genere umano. «Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna». E il Figlio ha pagato perfettamente l’alto prezzo della redenzione; ha cancellato il debito inchiodandolo sulla croce. Le porte del Cielo, chiuse fino a quel momento, si riaprono. La Nuova Alleanza di amore e misericordia fra Dio e gli uomini rimane sigillata dal Sangue dell’Agnello divino che toglie i peccati del mondo e incomincia il nuovo regno di grazia e di verità.
«Tutto è compiuto».
Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre nelle tue mani consegno il mio spirito», e, chinato il capo, spirò. «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio il mondo e torno al Padre». Questo momento è arrivato.
Gesù non muore come un qualunque figlio di Adamo che viene meno come povero peccatore, con debolezza e fragilità, dopo una lunga e sofferta agonia. Egli muore di propria volontà: «Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso poiché ho il potere di offrirla e riprenderla di nuovo».
Uno dei soldati gli aprì il fianco e subito ne uscì sangue ed acqua
Alle tre del pomeriggio, dopo tre ore di agonia, si consuma nel Calvario, sull’altare della croce, il Sacrificio offerto a Dio per noi dal Redentore.
Dalla bocca di Gesù esce una voce chiara e potente: «Tutto è compiuto». Poi, come un bambino, vinto dal sonno, che alla sera dà la buona notte alla mamma e nasconde la testolina nel grembo materno, così il Figlio di Dio si arrende al sonno della morte. Con un leggero tremito si accascia il sacro Corpo di Gesù e dolcemente l’anima lo abbandona, la testa si inclina... tutto è compiuto. Ma non cessa la crudeltà umana, né l’amore divino. La crudeltà umana infierisce un’ultima volta sul Corpo immacolato di Gesù, con un ulteriore oltraggio al suo Cuore e l’amore risponde a questa nuova ingiuria donando con generosità l’ultima goccia di Sangue rimastagli.
La barbara consuetudine dei Romani lasciava sulla croce i giustiziati a dissanguarsi lentamente fra atroci sofferenze fino alla morte, i cadaveri restavano appesi al legno fino a corrompersi o ad essere divorati dagli avvoltoi e dai vermi.
La legge di Mosè, invece, ordinava che si desse sepoltura ai crocifissi il giorno stesso dell’esecuzione. I Romani si adattarono a quest’ultima usanza. Dato però che nella crocifissione non sempre la morte giungeva rapidamente, si cercava di accelerarla spezzando le gambe al condannato o schiacciandogli il torace.
Sembra che questa profanazione del cadavere di Gesù fosse nei piani dei suoi nemici, ma fallì. Mentre gli aguzzini spezzavano le gambe ai due ladroni, il cadavere di Gesù fu rispettato per intervento del centurione romano, che ai piedi della croce era diventato suo discepolo; egli prese l’iniziativa di verificare personalmente la morte del Crocifisso.
Come soldato sceglie il modo che crede più dignitoso e, con mano ferma ed esperta, lo trafigge facendo penetrare la lancia fino al cuore; ciò causa infallibilmente la morte. La fuoriuscita dell’acqua e del sangue è la prova che il Cuore è stato realmente colpito.
Il colpo di lancia non causò più dolore a Gesù che era già morto, ma trapassò l’anima della Santissima Madre che era presente e non poteva separarsi dal Cuore del Figlio. Possa questa lancia crudele penetrare anche nel nostro cuore!