RELIGIONE
Perfetto imitatore di Cristo
dal Numero 9 del 28 febbraio 2016
di Suor M. Pia D’Anselmo, FI

Anche la psicologia è coinvolta nella spiegazione cristiano-cattolica del martirio di san Massimiliano M. Kolbe ad Auschwitz: il martirio si ha infatti quando la morte violenta viene accettata dalla vittima con un atteggiamento di interiore mitezza e motivata dall’amore a Dio e ai fratelli, in conformità a Cristo. L’analisi del comportamento del Santo nel Campo di sterminio presenta realizzate queste condizioni.

La parola «martire» è la traduzione della parola greca «martyr» che vuol dire «testimone». Il significato del «martirio cristiano», nel senso stretto del termine, è quindi quello di testimonianza cruenta di Cristo, vale a dire della sua dottrina o di una verità, che fa parte di essa, come pure di una virtù cristiana, fino all’effusione del sangue (1).
Nel caso di san Massimiliano, l’offerta volontaria della vita al posto di un compagno di prigionia, è «testimonianza» evidente del Vangelo di Gesù Cristo, basato sulla carità verso Dio e verso il prossimo. L’efficacia di questa «testimonianza» viene espressa dall’ing. G. Bieleki nel seguente modo: «Ad Oswiecim si sentiva la degradazione dell’uomo, decine di migliaia di uomini vivevano la crisi dell’umanità in se stessi... La psiche dell’uomo veniva turbata senza alcuna pietà e misericordia... si riportava l’impressione che tutto il mondo affogasse nell’odio reciproco... Ed ecco, all’improvviso, una forte scossa riscuote il campo... L’atto del Padre Kolbe è diventato per migliaia di detenuti prova e testimonianza che il mondo vero esiste come esisteva prima... È stata una scossa piena di ottimismo che ha rigenerato e rinvigorito le forze... Quella morte è stata la salvezza per migliaia di uomini...» (2).
La «testimonianza cruenta di Cristo» conferisce al martire il privilegio della perfetta imitazione di Cristo. In effetti la vita cristiana è nella sua essenza «imitazione di Cristo»: la Teologia cristiana, infatti, partendo dal Dogma della Incarnazione, svolge il concetto che il Figlio di Dio s’è reso visibile per offrire all’uomo un «modello che egli possa imitare» (3). Questa imitazione si attua soprattutto con la bontà e l’amore verso il prossimo, secondo le stesse parole di Gesù: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,12). E proprio perché l’amore di Cristo verso gli uomini culmina nella morte di croce per la loro salvezza, il Cristiano vede nel martirio la maniera migliore per attuare il suo programma essenziale: imitare Cristo.
Col martirio il cristiano imita esternamente il suo «modello» venendosi a trovare anch’egli vittima di una persecuzione inflitta per odio alla propria Religione («Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi», Gv 15,20). Così per avere un martire, in senso giuridico, è necessario verificare il vero «movente da parte del persecutore» che deve agire spinto dall’odio verso la Fede (4), nonostante indichi qualche altro motivo, o come nel caso di san Massimiliano, i motivi religiosi sembrino mescolati a motivi politici (vedi a questo proposito il martirio al tempo della Rivoluzione francese del secolo XVIII).
L’odio dell’ideologia nazista verso la Fede cattolica, in particolare la sua politica di distruzione nei confronti della Chiesa in Polonia, sono ormai noti (5); inoltre, attraverso le varie testimonianze del dialogo tra il “Lagerführer” Fritsch e il Martire, appare evidente che la vera causa della liberazione del Gajowniczek e l’inclusione del Padre Massimiliano nel gruppo dei condannati, è il fatto che quest’ultimo è un Sacerdote cattolico (6).
Ecco quanto testimonia il Signor Gniadek: «Al principio di marzo del 1941 mi trovavo nella prigione di Pawiak, a Varsavia, nella cella 103, al Reparto III. Insieme con me v’era un ebreo di nome Singer. Dopo alcuni giorni nella stessa nostra cella traferiscono il Padre Kolbe, che era vestito con la tonaca da religioso e rasato sebbene prima della guerra portasse la barba.
Fui molto lieto di averlo compagno [...]. La presenza del Kolbe mi calmava; ma avevo però sempre la sensazione che da un momento all’altro me lo avrebbero portato via. Dio sa dove.
Dopo cinque giorni dal suo trasferimento tra noi, ricevemmo l’ispezione del capo-reparto (un nazista). Quando scorse Padre Kolbe con l’abito religioso, mi sembrò come se gli dovesse venire un colpo. L’odio di quell’uomo era non solo per la veste religiosa, ma anche e soprattutto per il Crocifisso e il rosario (che pendevano dal cingolo del nostro Francescano). Dopo il rapporto fatto dall’ebreo ch’era il più anziano della cella, il capo-reparto afferrò il Crocifisso di Padre Kolbe e tirandolo a strattoni gridava: “E tu credi in questo?”. Al che Padre Kolbe con la massima calma rispose: “Credo e come!”.
Il tedesco divenne color paonazzo per l’ira. Senza por tempo in mezzo colpì Padre Kolbe sul viso. Ripeté per tre volte la domanda e tre volte ebbe la stessa risposta e tre volte lo schiaffeggiò. Avrei voluto scagliarmi contro di lui, ma nella certezza di peggiorare le cose, cercai di dissimulare la mia ira, perché altrimenti la guardia avrebbe infierito ancora di più contro Padre Kolbe, e si sarebbe poi anche vendicato su di noi» (7).
Fondamentale è la testimonianza del Dr. Niceto Francesco Wlodarski: «Dopo la scelta dei dieci prigionieri Padre Massimiliano uscì dalla fila e togliendosi il berretto si mise sull’attenti dinanzi al Comandante. Questi, sorpreso, indirizzandosi a Padre Massimiliano disse: “Che cosa vuole questo sporco polacco?”.
Padre Massimiliano, puntando la mano verso Francesco Gajowniczek, già prescelto per la morte, rispose: “Sono un sacerdote cattolico polacco; sono anziano, voglio prendere il suo posto, perché egli ha moglie e figli...”.
Il Comandante, meravigliato, parve non riuscire a trovare la forza per parlare. Dopo un momento, con un cenno della mano, pronunziando la sola parola: “Fuori!”, ordinò al Gajowniczek di tornare nella fila lasciata un momento prima. In tal modo Padre Massimiliano prese il posto del condannato [...].
Pare incredibile che il Comandante Fritsch abbia tolto dal gruppo dei condannati il Gajowniczek ed abbia accettata l’offerta di Padre Kolbe e che non abbia piuttosto condannati tutti e due al bunker della fame. Con un mostro come quello ciò sarebbe stato possibile» (8).
Viene allora spontaneo domandarsi se tutti i Sacerdoti cattolici, vittime dei campi di sterminio, siano anch’essi dei martiri. Per risolvere questo dubbio, bisogna tener presente che la Chiesa dichiara ufficialmente un martire se viene riconosciuta la sua accettazione volontaria, paziente e mite della morte sull’esempio di Gesù Cristo (9). Ne consegue che la conformità del martire a Cristo deve essere soprattutto interiore, esprimendosi con lo stesso atteggiamento mansueto e forte dinanzi alla morte e nell’identico movente: l’amore (10).

San Massimiliano martire: perfetto imitatore di Cristo

La Commissione di questa Causa, per dichiarare san Massimiliano martire, ha agito in un certo senso da «psicologo comportamentista», dovendo risalire dalle testimonianze del suo comportamento di fronte alle atrocità subite nel lager, al suo atteggiamento interiore, per poterne valutare l’eventuale conformità a quello di Cristo durante la sua dolorosa Passione.
Secondo le varie testimonianze contenute nei Processi e i vari episodi raccolti dal Postulatore della Causa (11), tutto il comportamento del Padre Kolbe nel campo, in particolare il suo atto eroico di offerta, è animato soprannaturalmente dall’amore verso il prossimo ad imitazione di Gesù Cristo. Egli infatti giustifica la propria permanenza nel lager sostenendo di esservi venuto allo scopo di condividere la triste sorte di tanti fratelli, mentre al momento del suo ricovero nel «rewir» ringrazia l’Immacolata per la possibilità avuta di consolare e incoraggiare gli ammalati presenti (12).
La situazione disperata della maggior parte dei prigionieri gli offre l’opportunità di svolgere la sua «missione apostolica» a vantaggio dei più deboli e afflitti. Divide così la misera razione di cibo con i più bisognosi, raduna tramite conferenze i prigionieri suscitando in loro nuove speranze per il futuro, riceve le loro Confessioni sacramentali, ecc. (13).
In particolare, tramite la propria offerta di vittima, può prestare il suo aiuto di Sacerdote ai condannati a morte, sostenendoli, specie negli ultimi istanti, col conforto religioso. Testimonia a questo proposito Fra Ferdinando Kasz: «La presenza di Padre Kolbe era necessaria nel bunker – diceva il sig. Borgowiec – poiché con il suo contegno sosteneva gli altri. Pregava, rialzava lo spirito degli altri e con ciò prolungava la vita dei prigionieri, i quali erano a tal punto psichicamente disfatti, che morivano anche pochi giorni dopo essere stati rinchiusi nel bunker» (14).
Il suo eccezionale amore verso il prossimo lo spinge al perdono dei persecutori, sull’esempio di Cristo («Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno», Lc 23,34). Esistono diverse testimonianze delle sue esortazioni al perdono degli oppressori. Ad esempio, H. Sienkiewicz attesta in proposito: «Durante la permanenza del Servo di Dio nel lager non ho notato che nutrisse un qualche odio per i tedeschi – al contrario, non solo egli stesso pregava per i tedeschi, ma esortava anche noi a pregare per la loro conversione» (15).
La sua mansuetudine nei confronti dei nemici appare evidente specialmente in alcuni episodi in cui il Santo diviene vittima di particolari crudeltà. Rimando a quelli più conosciuti del «Pawiak», descritto dal sig. Gniadek; del letame, raccontato da F. Gajowniczek, e quello delle fascine di legno, riferito da C. Sweda, in cui il Martire nonostante le ingiuste percosse, mantiene sempre una calma sorprendente (16).
Questo suo atteggiamento inconsueto rispetto alla norma generale di sopravvivenza vigente nel campo, desta stupore generale perfino fra i nazisti. Il signor Borgowic riporta l’impressione degli Essmänner di fronte al sacrificio di san Massimiliano, mentre egli sta consumando la propria vita nel bunker della morte: «Ad ogni ispezione, mentre già quasi tutti giacevano sul pavimento, si vedeva Padre Massimiliano Kolbe in piedi o in ginocchio in mezzo a loro: con sguardo sereno fissava coloro che entravano. Le SS, conoscendo il suo sacrificio e sapendo pure che tutti coloro che si trovavano con lui nella cella morivano innocenti, portando rispetto a Padre Kolbe, dicevano tra di loro: “Questo prete è proprio un gentiluomo. Uno così qui non l’abbiamo mai avuto”» (17).
Dalle testimonianze riportate nei Processi, alla Commissione è apparso sufficientemente chiaro che l’atto di offerta di san Massimiliano è motivato soprannaturalmente dalla volontà di imitare Cristo nella morte per salvare il prossimo. Infatti, come Padre Kolbe stesso ha scritto, egli è fortemente convinto che «nel lavoro della conversione e della santificazione si agisce nel modo più efficiente tramite la croce, la sofferenza, il sacrificio» (18).
Il gesto di Padre Kolbe risulta, così, consono con le parole della Costituzione Conciliare Lumen gentium: «Il martirio col quale il discepolo è reso simile al Maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e a Lui si conforma nella effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa dono insigne e suprema prova di carità» (n. 42).
Infine, il 10.10.1982, la Chiesa stessa riconosce ufficialmente il suo atto eroico elevando san Massimiliano agli onori dell’altare col titolo di «Martire della Fede».  

da: Il Martirio di San Massimiliano M. Kolbe secondo la Psicologia della Religione

Note
1) Cf. C. Noce, Il martirio, Roma 1987; E. Piacentini, Il martirio nelle Cause dei Santi, Città del Vaticano 1979.
2) J. Bar, Il martirio di San Massimiliano M. Kolbe, Roma 1975, p. 77.
3) Cf. M. Pellegrino, La spiritualità del martirio. Il martire e Cristo, Torino 1957.
4) E. Piacentini, op. cit.
5) Cf. J. Bar, op. cit.
6) Vedi la testimonianza di J. Sobolewski, in Proc. Apost. di Varsavia, Positio super virtutibus, p. 442.
7) A. Ricciardi, Beato Massimiliano M. Kolbe, Roma 1971, pp. 348-349.
8) Ivi, p. 382.
9) Cf. E. Piacentini, op. cit.
10) Cf. M. Pellegrino, op. cit.
11) Cf. A. Ricciardi, op. cit.
12) Cf. H. Sienkiewicz, in ivi, p. 562.
13) Cf. M. Koscielniak, in ivi, p. 891.

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