La storia della Chiesa ha sentito parlare tanto spesso di “riforma”. Sarà bene domandarsi quale sia il senso della parola “riforma” o riformare. Il suo stesso significato etimologico appella a preziosi fondamentali princìpi dai quali, se veramente si vuol riformare, non si può prescindere, in nessun modo.
Ri-formare equivale a «formare di nuovo». Il verbo latino «reformo» significa sia «prendere un’altra forma» sia «ritornare alla forma di prima».
La «forma» da rispristinare è quella, si direbbe, «costitutiva» dell’essere stesso, ed è alla base di qualsiasi altra forma esterna.
Qual è la forma che una eventuale riforma della vita religiosa dovrebbe rispristinare? La vita religiosa, secondo l’unanime insegnamento dei santi e dei teologi, è il dedicarsi esclusivo al servizio di Dio: «Si chiamano religiosi, per antonomasia, insegna san Tommaso, coloro che si danno totalmente a Dio, offrendosi a Lui in olocausto» [1]. Il religioso, afferma a sua volta il Vaticano II, che emette i voti «si dona totalmente a Dio sommamente amato, così da essere con nuovo e speciale titolo destinato al servizio e all’onore di Dio» [2]; «La vita religiosa è ordinata innanzitutto a far sì che i suoi membri seguano Cristo e si uniscano a Dio con la professione dei consigli evangelici» [3]. Così, in forma più esplicita e completa, la vita religiosa comprende i seguenti elementi: imitazione di Cristo, professione dei Consigli evangelici, vita comune, vita contemplativa e/o attiva, nella Chiesa e per la Chiesa.
Da queste esplicitazioni conseguono già dei princìpi o delle conclusioni di grande importanza, e cioè:
Se riformare è rispristinare o ritornare alla forma costitutiva e, per così dire, alla propria anima più intima e profonda, è evidente che la riforma è un’operazione soprattutto interiore. È nell’intimo dell’essere, cioè, che bisogna restaurare, guarire, ricomporre. I mutamenti esteriori di abiti, di leggi, di attività, pur con la loro innegabile utilità, non costituiscono ancora, di per sé, la riforma, così come abiti nuovi e abbondanza di belletti e gioielli non cambiano affatto il vero essere di una donna.
Se riformare è tornare alla forma primitiva, vuol dire che questa va sempre accettata e rispettata così com’è. Tentare di manometterla, in qualche modo, è attentare alla sua vita. Un uomo che venisse intaccato – se fosse possibile – nella sua forma costitutiva, diverrebbe angelo o bestia o qualsiasi altra cosa, ma non sarebbe più uomo, essere composto di corpo e d’anima, di intelligenza, volontà e istinti. Che se manomettere la forma costitutiva è distruggere l’essere stesso specifico, vuol dire che la forma costitutiva, quali che siano i tempi e le condizioni, deve rimanere sostanzialmente immutabile. È questa immutabilità, in effetti, che assicura l’identità del proprio essere, perdurando in tutti i mutamenti accidentali, che pur sono inevitabili per fattori ambientali, storici, ecc. Così l’uomo è rimasto quello che è sia al tempo delle caverne o delle palafitte, e sia nelle società più opulente e raffinate. Quasi la stessa cosa deve dirsi della vita religiosa. Se essa, come si diceva, è consacrazione al totale servizio di Dio, tale rimane in ogni tempo e in ogni circostanza e per ogni anima. Si avrebbe, diversamente, quello che si vuole, non la vita religiosa.
E tuttavia, qualunque ritorno alla riforma primitiva non è mai un ritorno puro e semplice. La rinnovazione di una casa, per esempio, pur conservando intatte le strutture portanti, le fa assumere un volto nuovo, la fa divenire, generalmente, più funzionale. Ciò significa che ripristinare non è senza mutazione almeno accidentale. La stessa cosa deve dirsi della riforma della vita religiosa: tornando, questa, ad essere quella che era, assume pure un «volto» nuovo e diverso. La riforma, cioè, non si attua senza un aggiornamento anche. Un adattamento che ricorda, da vicino, quella mirabile facoltà dell’uomo, per cui egli riesce a vivere sempre e dappertutto, rimanendo se stesso. La riforma, così, è ritorno al vecchio e adattamento al nuovo; un continuo riandare al passato e un protendersi al presente e al futuro. Vecchio e nuovo, passato, presente e futuro debbono coesistere in un equilibrio dinamico. Il prevalere di un elemento, o addirittura il fermarsi nell’uno o nell’altro, è rischioso fino alla morte!
In pratica, per il rinnovamento della vita religiosa, è assolutamente necessario tenere ferme le seguenti fondamentali applicazioni:
Se la vita religiosa è chiara testimonianza, per gli uomini, del primato dell’amore di Dio, dovendo essere «una ricerca costante di Dio» [4], è evidente che essa deve essere tale in qualsiasi contingenza di tempo o di luogo, e per qualsiasi tipo di persone. Intaccando questo, con il pretesto di aggiornarsi, si avrebbe tutto, ma non la vita religiosa.
Se la vita religiosa è testimonianza di «un amore unico e indiviso per Cristo, d’una dedizione assoluta alla crescita del suo Regno» [5], è evidente che quali che siano le circostanze o le esigenze di un rinnovamento e di un aggiornamento, nessun altro amore o modello, di qualsiasi genere e qualità, può sostituirsi a Cristo. Tanto più poi se l’amore o il modello proposto, magari sotto mille espedienti ed orpelli, fosse il mondo con le sue mode passeggere. Perché tra mondo e Cristo esiste incompatibilità così netta e irriducibile, da rendere impossibile e deleterio qualsiasi compromesso. E infatti, Cristo dice sempre obbedienza eroica, abnegazione totale, povertà assoluta; il mondo invece dice sempre orgoglio, egoismo, chiasso, vuotaggine: «Tutto il mondo giace nel maligno» (1Gv 5,19); e perciò: «Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui» (1Gv 2,16).
E se la vita religiosa è professione di Consigli evangelici (povertà, castità, obbedienza), questi debbono pur professarsi nella loro realtà di disagio e di rinunzia. Non si può, in nome dell’aggiornamento, parlare di diritti del cuore o della persona, o avanzare pretese, così come sono avanzate da un sindacalista o da un dipendente ad un datore di lavoro, o da un comune mortale, il cui massimo scopo è rendere più confortevole la propria esistenza.
E se la vita religiosa è contemplazione e/o azione apostolica, non si può, in nome di un sofisma oggi ricorrente che tutto è azione e prassi, cacciarsi, anima e corpo, in un attivismo frenetico, sia pure con la migliore buona volontà del mondo di fare del bene ai fratelli, ignorando o riducendo al minimo la vita interiore e la preghiera.
E se, finalmente, la vita religiosa è vita e azione nella Chiesa e per la Chiesa, non si può impostare o costruire, al di fuori o, peggio, in contrasto con la Chiesa, solo perché la moda odierna, scriteriata e razionalista, è tutta permeata di anticonformismo e di spirito di contestazione all’Autorità costituita!
Che se la vita religiosa deve aggiornarsi ai tempi, senza affatto svuotarsi, vuol dire che l’adattamento dev’essere prudente e soprannaturale. Prudente perché va studiato, ponderato e, soprattutto, verificato dall’esperienza e dai suggerimenti di santi e di esperti. Soprannaturale, perché voluto non tanto per la paura di apparire sorpassati o per il desiderio di fare più spazio alla propria libertà, quanto per meglio testimoniare Cristo e più generosamente donarsi alle anime. E, anche, soprannaturale perché attuato non in prospettive umane e «ragionevoli» secondo la carne, quanto sulla follia stessa dell’amore di Dio e del mistero della Croce.
Questo continuo ritorno alla propria forma, assieme all’incessante adattamento alle mutate condizioni dei tempi, pone sempre più in luce la mirabile ricchezza del carisma del Fondatore, così come, per analogia, l’uomo più sa adattarsi e vivere bene, e più si rivela essere superiore e dominatore. La fedeltà è sempre arricchimento in tutti i sensi! Un aggiornamento, invece, fondato sulle mode del giorno, non può essere che allontanamento e tradimento dello spirito del Vangelo e del carisma dei Fondatori, e perciò autentico impoverimento.
Continua
Note
[1] Summa Theologiae, II-II, q. 186, a. 1.
[2] Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n. 44.
[3] Decreto Perfectae Caritatis, n. 2.
[4] Evangelica Testificatio, n. 1.
[5] Ivi, n. 3.