SANTO NATALE
Dalla cattedra alla mangiatoia. Il Natale di 4 Dottori serafici
dal Numero 46 del 19 dicembre 2021
di Padre Ambrogio M. Canavesi

Nessun timore a discendere dall’altezza della loro sublime scienza teologica per venire a contemplare la piccolezza e l’umanità del Bambino Gesù adagiato nella grotta di Betlemme: la sola conoscenza non soddisfa l’anima francescana, se non diventa vita e amore, nutrimento spirituale e contemplazione.

Sin dalle origini il francescanesimo è pervaso da una serie di opposizioni e antitesi che lasciano sbalordito il mondo: unire la più austera povertà alla più raffinata nobiltà di animo, la ricerca della pace allo spirito militante e belligerante, la felicità più esuberante con la penitenza più cruda poteva riuscire solo a un genio del calibro di san Francesco. Ma in realtà la genialità del “semplice e idiota” san Francesco, non è altro che la più cocciuta e ostinata volontà di imitare – fin nei particolari – la vita di Gesù Cristo. 

Il Cristocentrismo francescano – ovvero una visione spirituale e teologica che vede nell’Incarnazione del Verbo il centro della Rivelazione – prima di divenire una teologia coerente e una spiritualità ordinata fu piuttosto vita e azione, la vita di san Francesco e dei suoi primi compagni, tutti tesi a rivivere nelle loro membra “il mistero di Colui che si era fatto povero per noi in questo mondo”. 

Alla luce di ciò non è per nulla strano constatare che i tre grandi Dottori francescani – sant’Antonio da Padova, san Bonaventura da Bagnoregio e san Lorenzo da Brindisi – unitamente al grande maestro il beato Giovanni Duns Scoto, non abbiano avuto paura di discendere dall’altezza e sublimità della loro scienza teologica per venire a contemplare la piccolezza e l’umanità del Bambino Gesù adagiato nella grotta di Betlemme. 

Per un francescano vero – e un Dottore francescano è ancora più a giusto titolo “un francescano vero” – non vi è alcun problema, perché tutto ciò risponde esattamente allo stesso piano di salvezza per cui il Verbo divino non ebbe paura a discendere dal seno della Santissima Trinità per “esinanirsi”, cioè per rimpicciolirsi ed espropriarsi di sé, e venire qui tra noi, a condividere la nostra condizione mortale, compresa l’umiltà dello stato di fanciullo e la terribile morte in Croce. Anzi, ciò non è affatto un’umiliazione della scienza teologica, bensì l’unico punto di partenza coerente per cogliere il Cristianesimo nella sua più sconvolgente novità: Dio si è fatto uomo! 

 

Sant’Antonio da Padova: tra il Bambinello e la sua santa Madre

Forse non esiste una chiesa al mondo dove il Santo portoghese non sia presente con un suo dipinto o con una sua statua. Se la causa prossima di questa universalità è la fama legata ai suoi innumerevoli e straordinari miracoli, oltre che la benefica pratica del “pane di sant’Antonio” per i poveri, è vero tuttavia che le raffigurazioni di sant’Antonio lo ritraggono sempre con in braccio il Bambinello Gesù. È nota la vicenda che ha dato origine a questa consuetudine artistica e devozionale: il Santo venne ospitato a Camposampiero – nei pressi di Padova– da un benefattore, che pensò bene di dare al grande predicatore francescano una stanza tutta per lui. Rispettoso del silenzio e della preghiera del Santo, il benefattore non seppe però vincersi in un’occasione dalla curiosità di vedere come passasse le sue giornate in quella stanza. Ma ecco che sbirciando dalla porta si rese conto di cosa tenesse sant’Antonio chiuso in quella stanza: il Santo infatti teneva in braccio Gesù Bambino, scambiando con lui gesti di affetto e tenera devozione. 

Ma questo evento straordinario non fu certo una casualità nella vita del Santo. Colui che aveva lasciato il comodo e dotto convento dei canonici agostiniani di Coimbra, per seguire Cristo nell’umiltà e povertà della vita francescana, volle penetrare con l’anima nella grotta di Betlemme fino a prendere il Bambinello in braccio anche con il corpo. Basti leggere le prediche del Dottor Evangelico – come viene chiamato il nostro Santo – sul Natale per comprendere di cosa si stia parlando. «O povertà, o umiltà! Il padrone di tutte le cose è avvolto in fasce, il re degli angeli è adagiato in una stalla. Vergognati, o insaziabile avarizia! Sprofonda, o umana superbia!». È la fanciullezza di Gesù a stupire sant’Antonio, emozionato e commosso davanti a un tale “folle” abbassamento di Dio: «“Troverete un bambino”, troverete la sapienza che balbetta, la potenza resa debole, la maestà abbassata, l’immenso fatto bambino, il ricco fattosi poverello, il re degli angeli che giace in una stalla, il cibo degli angeli divenuto quasi fieno per gli animali, colui che da nulla può essere contenuto, adagiato in una stretta mangiatoia». 

E perché Dio ha voluto farsi bambino? La domanda che ha stuzzicato tanti intelletti illustri, trova nelle pagine del Dottor Evangelico una spiegazione brillantissima e originale: «Se fai un’ingiuria a un bambino, se lo provochi con un insulto, se lo percuoti, ma poi gli mostri un fiore, una rosa o qualcosa del genere, e mentre gliela mostri fai l’atto di dargliela, non si ricorda più dell’ingiuria ricevuta, gli passa l’ira e corre ad abbracciarti. Così, se offendi Cristo con il peccato mortale e gli fai qualsiasi altra ingiuria, ma poi gli offri il fiore della contrizione o la rosa di una confessione bagnata dalle lacrime, egli non si ricorda più della tua offesa, perdona la colpa e corre ad abbracciarti e a baciarti». E ne parla proprio chi questi abbracci e baci li ha ricevuti di persona.

Nella benedetta grotta di Betlemme, però, accanto a Gesù c’è Maria e così il Natale per sant’Antonio diviene un’occasione per richiamare alla memoria il dolce mistero della Madre di Dio. Lo stupore dell’Incarnazione di Dio si riflette su Maria Santissima, in quanto il Figlio di Dio diventa suo figlio: «Diede dunque alla luce il figlio. Quale figlio? Il Figlio di Dio, Dio stesso. O tu, donna più felice di ogni altra, che hai avuto il figlio in comune con Dio Padre!». E in effetti il compimento dei giorni della gravidanza di Maria è anche il compimento del giorno atteso dai secoli dai patriarchi, il giorno dell’Incarnazione del Figlio di Dio: «“Si compirono in lei i giorni del parto”. Ecco la pienezza del tempo, il giorno della salvezza, l’anno della benevolenza. Dalla caduta di Adamo fino all’Avvento di Cristo fu tempo vuoto». Ma il vuoto e la desolazione della terra vengono riempiti dal frutto del grembo di Maria e dunque a giusto titolo sant’Antonio erompe in una preghiera alla Vergine: «A te, o beata Vergine, sia lode e gloria, perché oggi siamo stati ricolmati dei beni della tua casa, cioè del tuo grembo. Noi che prima eravamo vuoti, ora siamo pieni; noi che prima eravamo malati, ora siamo sani; noi che prima eravamo maledetti, ora siamo benedetti, perché, come dice il Cantico dei Cantici: “Ciò che da te proviene è il paradiso”, o Maria! (Ct 4,13)». 

Ma la piccolezza, la mansuetudine e l’innocenza del pargoletto di Betlemme non devono ingannare, in quanto Gesù viene come Re e conquistatore, pronto a sbaragliare l’impero di Satana e del peccato, come ben esprime con una metafora militare il Dottor Evangelico: «Dice infatti Isaia: “Sul suo capo ha posto l’elmo della salvezza” (Is 59,17). L’elmo è l’umanità, il capo è la divinità; il capo è nascosto sotto l’elmo, la divinità è nascosta sotto l’umanità. Quindi nessun timore: la vittoria è dalla nostra parte, perché con noi c’è un Dio in armi». 

 

San Bonaventura da Bagnoregio: vivere Gesù Bambino

Non vi è dubbio che nella schiera dei maestri francescani il primo posto sia occupato da san Bonaventura da Bagnoregio, detto il Dottore Serafico per la sua capacità di esprimere in trattati e tradurre in sillogismi la pura e genuina spiritualità del Serafino di Assisi. E nonostante il santo Vescovo e Dottore abbia primeggiato come professore universitario, come Ministro generale e “secondo fondatore dell’Ordine”, e, infine, anche come protagonista della storia ecclesiastica del tempo, mai il nostro Dottore Serafico perse l’umiltà e la povertà insegnatagli da san Francesco. Anzi, mai perse nemmeno «la santa orazione e devozione», che il Serafico Padre indicava a tutti – e soprattutto ai professori – come vera virtù e dote del frate francescano. L’indirizzo “pratico” della filosofia e della teologia bonaventuriana anzi sono l’eredità di san Francesco al suo Ordine: la mera conoscenza non soddisfa l’anima francescana, in quanto la conoscenza deve diventare vita e amore, contemplazione non arida ma feconda, nutrimento e unzione spirituale. 

Il Natale per il Santo francescano è un mistero altissimo e fecondo nel quale «il Re dei re e Signore dei signori si è fatto umile servo degli uomini, il Dio gloriosissimo, che risiede al sommo della maestà, è disceso ad abitare in un’umile mangiatoia; il Dio, desiderio degli angeli, si è fatto spettacolo per i pastori; il Dio, creatore di tutte le cose, si è fatto compagno degli animali; il Dio immenso si è fatto agnello purissimo; il Figlio unigenito, che è nel grembo del Padre, si è fatto primogenito della Vergine» (Sermo 86). Davanti a questo mistero strabiliante non è quindi strano che san Bonaventura voglia – al pari del Serafico Padre – entrare e gustare l’odore del fieno, sentire il freddo pungente e «rifocillarsi spiritualmente con la nascita di Cristo nella carne» (Sermo 87). Davanti a Gesù Bambino, il fiore di Jesse, «si deve degustare qualcosa della sua perfetta armonia e del meraviglioso e piacevole profumo» (Sermo 79) oppure – con un’altra immagine – dal Sole di giustizia che sorge ci si deve lasciare illuminare e infiammare nella mente, irrigare e purificare nei sentimenti, confortare e ristorare negli animi (cf. Sermo 83). In altre parole non bisogna solo contemplare da fuori, ma vivere il mistero del Natale, dato che – secondo un’altra feconda intuizione bonaventuriana – ogni festa porta con sé una “grazia di conformazione”. E la conformità a cui aspira davanti al Natale è quella espressa con una frase celebre: l’anima si disponga a essere «parvula cum parvulo Jesu», ovvero piccola con il piccolo Bambino Gesù

È da qui che nacque un suo breve ma intenso capolavoro, ovvero l’opuscolo Le cinque feste di Gesù Bambino, in cui invita l’anima a rivivere nella propria intimità i misteri della sacra infanzia di Gesù (Annunciazione, Natale, Santo Nome di Gesù, Epifania, Purificazione): «La dolce meditazione di Gesù, pia contemplazione del Verbo incarnato, allieta con più soavità, inebria più graditamente, consola e conforta l’anima devota più perfettamente del miele stesso e del profumo di tutti i migliori fragranti aromi». Innanzitutto l’anima deve apprestarsi a rivivere il sublime momento dell’Annunciazione dell’Angelo alla Vergine Maria, perché «una volta purificato l’intelletto con il lavacro della contrizione e infiammato ed elevato l’affetto con la scintilla dell’amore, Gesù Cristo possa essere spiritualmente concepito dall’anima fedele». Gesù Bambino concepito in noi con il concorso del Padre Celeste, che feconda la nostra mente, deve essere poi partorito, mettendo in pratica il santo proposito concepito. Ma per compiere questo, Gesù, come fu a Betlemme, deve trovare in noi Maria perché «da questa Maria Gesù Cristo non disdegna di nascere spiritualmente con gioia, senza sofferenza e senza affanno». Infatti l’anima nostra si fa come Maria «nutrendolo di sante meditazioni, lavandolo con devote e calde lacrime, avvolgendolo in casti desideri, portandolo tra le braccia dell’amore santo, baciandolo con frequenti sentimenti di devozione e riscaldandolo nel petto mistico della propria mente». Dopo che la nostra anima ha «dato il nome al Fanciullo spiritualmente nato da lei», tocca ora ai tre re, «cioè le facoltà della stessa anima» – ovvero intelletto, volontà e memoria – andare a cercare il Bambinello «indagando con la meditazione, anelando con i sentimenti e domandando con mente devota». E una volta trovatolo, ecco gettarsi ai suoi piedi ad adorarlo e ad offrire a Lui i loro preziosi doni: «L’oro dell’amore ferventissimo, offrite l’incenso della devotissima contemplazione, la mirra dell’amarissima contrizione: l’oro della carità per i beni che Dio vi ha conferito, l’incenso della devozione per il gaudio che vi ha preparato, la mirra del pentimento per i peccati commessi. In questo modo, dunque, o anime, cercate, adorate e offrite!». 

Infine, una volta che Gesù è completamente formato in noi, e così la nostra anima è stata purificata, confortata e arricchita, ecco che resta solo di recarsi al cospetto di Dio e offrire spiritualmente Gesù vivente in noi – ovvero la nostra anima conformata al Bambinello divino – a imitazione di Maria, che presentò Gesù nel Tempio.

 

Beato Giovanni Duns Scoto: il maestro dell’Incarnazione del Verbo

Per quanto non figuri nell’elenco ufficiale dei Dottori della Chiesa, non si può negare al talento speculativo di Giovanni Duns Scoto almeno il titolo con cui è passato alla storia, ovvero quello di Dottore Sottile. La sottigliezza nell’argomentare, nel confutare gli avversari e nel trovare soluzioni ai principali problemi teologici e filosofici lo rese uno degli scolastici più celebri del Medioevo e, soprattutto, il caposcuola della teologia e filosofia francescana. Beatificato ufficialmente solo da Giovanni Paolo II, il beato Giovanni Duns Scoto è colui che espresse nella maniera più rigorosamente argomentata e più perfettamente formulata quella tendenza presente nel francescanesimo sin dagli inizi che viene denominata “Cristocentrismo”. Cristo – il Verbo Incarnato – è la chiave di volta non solo della Storia della salvezza ma dell’intera creazione sin dagli inizi, e da questa centralità nasce una teologia e una spiritualità coerente, secondo la quale l’Incarnazione della seconda Persona della Santissima Trinità non è strettamente finalizzata alla Redenzione del genere umano dopo la caduta di Adamo ed Eva. «Pensare che Dio avrebbe rinunciato a tale opera se Adamo non avesse peccato – scrive il grande teologo francescano –, sarebbe del tutto irragionevole! Dico dunque che la caduta non è stata la causa della predestinazione di Cristo, e che – anche se nessuno fosse caduto, né l’angelo né l’uomo – in questa ipotesi Cristo sarebbe stato ancora predestinato nella stessa maniera» (Reportata Parisiensia, in III Sent., d. 7, 4). Il mistero dell’Incarnazione non si spiega dunque tanto con la caduta di Adamo ed Eva – e dunque con la necessità di un Redentore – quanto piuttosto con il piano ordinatissimo che Dio ha attuato nella creazione dell’universo. Quel Dio ordinatissimo che crea con assoluta libertà – e quindi per amore – creò prima di tutto una natura umana capace di rispondere al suo amore perfetto con un perfetto amore, e questo non poteva essere che un uomo-Dio, il Verbo Incarnato. Da qui deriva una delle teorie fondamentali della teologia francescana, quella del “primato assoluto di Cristo”, che è alla base anche della Regalità di Cristo. Per queste profonde riflessioni attorno al mistero di Cristo Duns Scoto meritò il titolo di “cantore del Verbo Incarnato”.

Ma parlare dell’Incarnazione significa necessariamente tirare anche in causa il Natale, in quanto è vero che l’Incarnazione precede la Natività, ma è anche vero che solo quest’ultima manifesta al mondo il Verbo Incarnato. Ancor più interessante è però far notare che questo interesse per il Cristo, per il Dio fattosi uomo, non è affatto una mera curiosità speculativa, ma scaturisce da un cuore pieno di amore per il Verbo Incarnato. Un episodio della sua vita d’altronde basta a dimostrare questo suo amore: non è ben chiaro quando e dove sia da situare, ma secondo molti avvenne proprio mentre il nostro Beato si preparava a fare i suoi voti religiosi solenni. La notte di Natale, soggiornando a Parigi, il Dottore Sottile si mise in preghiera solitaria in chiesa, contemplando il mistero di quella notte santissima: a un certo punto fu preso da un desiderio così veemente di vedere il Pargoletto divino che, non potendo tenerlo per il petto, incominciò a sospirare e a pronunciare a fior di labbra le parole amorose del Cantico dei cantici. Al sentire quelle parole e volendo soddisfare il desiderio del suo fedele servo, Gesù gli comparve tra le braccia sotto la forma di bellissimo neonato, che lo accarezzava e lo baciava. Dopo quella sublime esperienza, il nostro Giovanni Duns Scoto non solo si accese ancor di più d’amore per il Verbo Incarnato e del desiderio di spendersi per approfondire questo mistero, ma divenne anche più osservante nella vita religiosa, nell’astinenza e nell’eroismo della santità.

 

San Lorenzo da Brindisi:  lunghe Messe  di Natale e il Bambinello eucaristico

Sostanzialmente concorde con il grande caposcuola francescano sulla teoria del primato assoluto di Cristo si muove anche il pensiero di san Lorenzo da Brindisi, figura di grande spicco nel panorama cattolico a cavallo tra XVI e XVII secolo. Figura poliedrica di mistico, uomo di cultura, Ministro generale e persino di improvvisato soldato nella battaglia di Albareale, il cappuccino san Lorenzo da Brindisi è passato alla storia soprattutto come grande predicatore, annunciatore del Vangelo e apostolo: non a caso quando Giovanni XXIII si trovò a nominarlo Dottore della Chiesa, scelse per lui il titolo di Dottore Apostolico. Sono ancora pochi purtroppo gli studi sistematici sul pensiero e la vita di san Lorenzo, ma basta anche compulsare il suo famoso Mariale – l’amplissima raccolta di prediche sulla Madonna – per comprendere la centralità che l’Incarnazione del Verbo ha nel suo pensiero: l’Incarnazione non è stata voluta da Dio innanzitutto come rimedio per il peccato originale, bensì per la gloria di Cristo e la manifestazione della potenza di Dio. Una citazione del Mariale è sufficiente per comprendere la cifra del pensiero del nostro Dottore Apostolico sul tema dell’Incarnazione del Verbo: «L’Incarnazione è il miracolo più grande, perché mediante essa è avvenuta l’unione di distanze infinite. La scala che vide Giacobbe, congiungeva la terra al cielo, immensamente distanti tra loro; ma l’Incarnazione unisce Dio e l’uomo. E Dio è infinitamente più distante dall’uomo, che il cielo dalla terra. Grande miracolo, l’Incarnazione, a cagione della comprensione dell’Incomprensibile; Maria, infatti, contiene in sé ciò che i cieli non possono contenere». 

In realtà però se si vuole andare ancora più al nucleo del mistero dell’Incarnazione, e soprattutto della sua ragione, della sua causa prima, non si può evitare il tema dell’amore: l’Incarnazione del Verbo, la venuta tra noi di Gesù Cristo, è innanzitutto un mistero di amore. Il Natale così è «opera meravigliosa della infinita pietà e carità divina verso l’uomo: Dio ha talmente amato il mondo da dare il suo Figliuolo Unigenito». 

Ma, per sua stessa natura, l’amore non può essere solo contemplato da lontano, ma deve essere fruito e goduto nel profondo dell’anima, fino a catturare con sé tutti i sensi. Non è spiegabile altrimenti la devozione con cui san Lorenzo da Brindisi celebrava la Santa Messa di Natale e che costituisce un unicum nella storia della mistica. Al Santo cappuccino, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, capitava spesso di godere di fenomeni straordinari durante la Messa, il che rendeva la celebrazione abbastanza lunga. Ma niente poté eguagliare la celebrazione delle Sante Messe natalizie degli ultimi anni precedenti la sua morte (1619): tenendo presente che parliamo delle tre Sante Messe che ogni sacerdote può offrire il giorno della Natività del Signore, queste si prolungarono per più di dieci ore. I testimoni non sono chiari, ma sembra che già negli anni 1614-’15 la celebrazione natalizia di san Lorenzo da Brindisi si prolungò per 14 ore, lunghezza eguagliata negli anni successivi a Bassano e a Verona, come testimonianze autorevoli affermano. Ma il record si ebbe nel 1618 a Genova quando, celebrando nell’altare del sottocoro del convento della Concezione, la celebrazione delle tre Sante Messe natalizie si estese dalle 5 di mattina alle 20 di sera, ovvero per 16 ore. Quali prodigi di grazia e rapimenti estatici avvenissero a san Lorenzo in quelle occasioni sarebbe quasi impossibile immaginarlo, se un altro testimone – fra’ Adamo da Rovigo – non ci avesse informato su quello a cui poté assistere servendo da chierichetto a una celebrazione di san Lorenzo da Brindisi in Monaco di Baviera. Celebrando una notte la Santa Messa dopo il Mattutino, arrivati al momento dell’elevazione dell’Ostia consacrata, il suddetto frate Adamo vide distintamente che, mentre padre Lorenzo elevava il Corpo di Cristo, sull’altare comparve un bellissimo Bambino che emanava uno splendore celestiale. Il Bambinello divino, inoltre, non si limitava a stare sull’altare, ma cominciò a baciare e accarezzare il Santo cappuccino e persino a trastullarsi con la sua lunga barba, come fosse un vero e proprio fanciullo. La vista di questo prodigio fece completamente svenire frate Adamo, che si rinvenne solo un quarto d’ora dopo, ma poté almeno svelarci il “segreto” della Messa di san Lorenzo: Gesù Bambino, il Dio fattosi carne e fattosi pane, per dare vita e felicità agli uomini.

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