SANTO NATALE
“Vivere Betlemme” meditando sul Vangelo di san Luca
dal Numero 46 del 19 dicembre 2021
del servo di Dio Pier Carlo Landucci

Semplici e solenni, le parole dell’Evangelista raccontano a tutti i secoli la nascita del Dio Bambino a Betlemme. La profonda umiltà e la dolce pace che traspira da tutta la narrazione, ben introducono nel clima della santa Grotta, e riflettono mirabilmente le corrispondenti disposizioni di Gesù, Maria e Giuseppe, consegnandoci il grande insegnamento del Natale cristiano.

Le circostanze stupefacenti, specialmente di povertà, della natività di Gesù, dipendono in gran parte dalla nascita a Betlemme. Anche a Nazareth vi sarebbe stata certamente una grande povertà, ma mai sarebbe mancato lo stretto necessario, come mancò invece a Betlemme. 

Il viaggio di Maria e le condizioni di Betlemme in quel tempo, tutto dobbiamo pertanto pensare minutamente preordinato dalla divina Provvidenza, per realizzare quelle mirabili circostanze della nascita di Gesù. La divina Provvidenza si servì anche questa volta – come suole ordinariamente – delle cause seconde. Il censimento indetto da Augusto ne fu il mezzo. Dice infatti l’evangelista Luca che «tutti andavano a farsi registrare, ciascuno nella propria città» (Lc 2,3) – ciò secondo il costume ebreo – e siccome Giuseppe era «della casa e della famiglia di Davide ascese nella Giudea, alla città di Davide, che si chiama Betlemme» (Lc 2,4). 

L’adempimento dei divini disegni dipendeva però principalmente dall’andata anche della Madonna a Betlemme, e Giuseppe difatti vi andò con Lei: «con Maria, sua sposa, la quale era incinta» (Lc 2,5). 

 

«Con Maria» 

Quale il motivo di questa andata anche della Madonna? Non era, per molte ragioni, assolutamente sconsigliabile? Il viaggio era infatti prevedibilmente faticosissimo, specialmente in tale epoca, d’inverno e nel colmo della stagione delle piogge. Si trattava d’un cammino simile a quello della visita a santa Elisabetta, di circa 130 km – per la via più dritta – essendo Betlemme a 9 km a sud di Gerusalemme, ma le condizioni erano questa volta molto più disagiose per Maria, essendo essa al nono mese della sua gravidanza. Si trattava di quattro giorni di cammino da compiersi a piedi, come facevano i poveri, mettendo su un asinello la poca roba che avrebbero potuto portare con sé. La brutta strada montuosa – per cui veristicamente san Luca dice «ascese», essendo Betlemme a 770 m – per le intemperie e per l’afflusso maggiore dovuto al censimento – afflusso del resto sempre grande, anche in tempi ordinari, in quella arteria importante – era particolarmente scomoda. E scomodissimi dovevano essere i luoghi di pernottamento che, nella migliore ipotesi, erano i «caravanserragli» di allora. La difficile accoglienza a Betlemme, affollatissima, era pure prevedibile. Ma, quel che più conta, per san Giuseppe e la Vergine Santissima non si trattava soltanto di affrontare un sacrificio personale, ma di mettere in condizioni immensamente penose e difficili la vita stessa del Figlio divino. [...].

Dovette trattarsi dunque d’una pratica necessità, non di una elezione. Questa necessità alcuni la trovano nell’obbligo del censimento esteso anche alle donne, almeno alle ereditiere, il che è probabile. Qualunque fondamento abbia tuttavia tale ipotesi, essa deve sempre congiungersi a un altro motivo forse più importante, poiché sembra insinuato dallo stesso Evangelista, quando ricorda nel versetto 5 che la Vergine sposa che l’accompagnava «era incinta». E sappiamo che era ormai prossima al parto. In queste condizioni, cioè nella imminenza della nascita del divin Figlio, poteva Maria essere lasciata sola? Poteva esser lontano il purissimo sposo, mentre stavano per adempiersi i preannunciati divini misteri? Ella dovette dunque accompagnare Giuseppe – anche a prescindere da altri motivi – proprio perché era imminente la nascita di Gesù. 

Umanamente parlando quindi tutto andava a rovescio. Il censimento e il relativo viaggio, già disagioso per tutti e tanto più per un povero artigiano come Giuseppe, urgeva proprio in un momento in cui i santi coniugi avevano più bisogno di pace e di quiete. Divinamente parlando tutto andava invece mirabilmente a verso. Non c’era stato bisogno nemmeno d’una apparizione angelica per indicare il da farsi: bastarono le cause seconde ad additare il cammino di nuove rinunzie e nuovi sacrifici. 

Essi, sperduti poverelli, si muovevano al cenno, di risonanza mondiale, del grande imperatore di Roma; ma, inconsapevolmente, questi si era mosso al cenno dei divini voleri, facendo muovere a sua volta, milioni di uomini a servizio di Maria, di Giuseppe e di Gesù che veniva così a nascere dovecome la divina Provvidenza voleva. E ciò perché la Sacra Famiglia lasciasse all’umanità gli insegnamenti ineffabili di Betlemme: «Che fate voi principi del mondo? [...]. Ma Dio ha altre mire e voi le eseguite, per quanto non rispondano alle vostre viste umane» (Bossuet). 

Come il fiat dell’Annunciazione fu un atto di eroica obbedienza, così anche questo della natività fu improntato eroicamente alla medesima virtù. Nell’Annunciazione, l’obbedienza era alla volontà di Dio direttamente manifestata, ora è a quella stessa volontà indirettamente manifestata, traverso l’ordine dell’autorità civile costituita. L’obbedienza ha fatto incarnare il Verbo eterno e l’obbedienza lo ha fatto nascere così a Betlemme. [...].

 

Un viaggio di eroico abbandono

Affiora anche l’ipotesi che i santi sposi si siano mossi e abbiano affrontato il disagio del viaggio nella speranza di tornare prima del parto. E, pur supposto che in vista della profezia di Michea («poiché da te [Betlemme] mi uscirà un Principe...»: Mic 5,1-2) avessero visto nel viaggio per il censimento una possibile indicazione divina per la nascita a Betlemme, non avrebbero potuto non subordinare tale incerta interpretazione del divino volere all’ipotesi di trovarvi una tollerabile sistemazione, preparati, in caso contrario, a tornare a Nazareth. [...]. 

D’altra parte la verginità del parto poté rendere nascosta la sintomatologia della sua imminenza. Oppure si potrebbe pensare a qualche imprevisto ritardo per contrattempi di viaggio o inaspettato prolungamento delle pratiche burocratiche. Oppure l’una e l’altra cosa insieme. Si noti che la stessa narrazione di san Luca della natività suggerisce l’idea d’una cosa inaspettata: «Avvenne che, mentre stavano là, giunse per lei il tempo di partorire» (Mic 2,6). 

In tale ipotesi lo sconvolgimento «umano» dei piani, l’inaspettata attuazione e rivelazione definitiva del divino disegno, la conseguente indigenza umana di tutto, assurgono a una drammaticità ancor più impressionante. E il fiat della conformità al divino volere non si attenua, ma si perfeziona e si esalta. Essi poterono avere la speranza di tornare in tempo, ma non la certezza. Per quel tanto che c’era di probabilità contraria si abbandonarono interamente alla Provvidenza divina. Restare a Nazareth, più sicuramente, finché fosse nato Gesù, no; il decreto del censimento era cosa certa e rappresentava indubbiamente una manifestazione del divino volere, non infirmata da quella sola probabilità contraria. Soltanto la certezza dell’imminente nascita avrebbe potuto costituire un’indicazione prudenziale della divina volontà che restassero. 

S’attuava in tal maniera ancora una volta, come vedremo poi sempre, la forma più perfetta ed eroica dell’abbandono in Dio e della conformità al suo volere, che è di vivere nell’adesione ad esso, istante per istante, nell’oscurità del domani, condotti dal Cielo, passo passo, come per mano.   

 

«Giunse il tempo»

Arrivati a Betlemme, il grande momento arrivò. Le parole dell’Evangelista, semplici e solenni, si proiettano e si inquadrano in tutto il corso dei secoli, in tutta la storia dell’umanità. Dicono ben più della consueta espressione che indica il termine di una gravidanza. «Giunse per lei il tempo di partorire» (Lc 2,6). Quel compimento dei tempi si identificava con la pienezza, la maturità di ogni epoca, perché per la nascita del Redentore divino il tempo riceveva il lievito dell’eternità. San Paolo dirà pure: «Venuta la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio fatto da donna, fatto sotto la legge» (Gal 4,4). San Luca prosegue così a descrivere il grande, il supremo avvenimento dell’universo: «E diede alla luce il suo figliolo primogenito, e lo avvolse in fasce, e lo adagiò in una mangiatoia: poiché non v’era per loro posto nell’albergo» (Lc 2,7). 

L’umiltà («fasce», «mangiatoia», «non v’era posto») e la pace («lo adagiò») di questa descrizione, senza alcuna enfasi magniloquente, senza alcun iroso sdegno per l’oltraggio della stalla, mentre depongono in modo tanto avvincente in favore della limpida obiettività del narratore, sono un riflesso mirabile delle corrispondenti disposizioni di Gesù, di Maria e di Giuseppe. 

E sono disposizioni inconciliabili con lo spirito del mondo. L’empio Marcione – osserva il Fouard, in questo punto (Vita di N. S. Gesù Cristo, S.E.I. 1936, I, p. 83) – fin dai primi secoli, rigettando questa follia, gridava: «Toglietemi dagli occhi questi spregevoli panni e questa capanna indegna del Dio ch’io adoro». Ma noi invece proprio quei panni e quella paglia miriamo e adoriamo, che ci dicono l’amore, la follia d’amore, del Verbo eterno, che «annientò se stesso» per noi (Fil 2,7). [...].

 

La stalla

San Giuseppe dovette sperimentare in questo tragico momento, pur conservando la pace del perfetto abbandono in Dio, tutto il tremendo peso della sua responsabilità e tutto il sacrificio della sua povertà. Il dolore più cocente di uno sposo, d’un padre di famiglia povero, non è la privazione personale, ma il sacrificio della famiglia che da lui implora il sostegno e non lo può ottenere. Immaginiamo quindi lo schianto di Giuseppe! Alla immacolata Sposa, al divin Redentore che stava per nascere, l’una e l’altro affidati a lui per messaggio angelico dal Cielo, a causa della sua povertà, non poter trovare un umile tetto! E ciò proprio nel paese del suo casato, anzi probabilmente nel paese dove era nato! [...]. 

Eppure un riparo qualsiasi urgeva. Il suo occhio si volse allora a una piccola grotta situata un po’ a oriente, sul pendio della collinetta in cima alla quale era costruita l’antica borgata (cf. Lagrange, L’Evangelo di Gesù Cristo, Morcelliana, 1935, p. 33). Serviva da stalla, come simili grotte tuttora adibite a tale uso in Palestina. Questo è sicuro perché san Luca dice una parola sola, ma tremendamente rivelatrice: parla di una mangiatoia! Ora la mangiatoia rivela una stalla. Né v’è ragione di pensare che non servisse, anche attualmente, a tale uso, in un periodo di sì grande affluenza non solo di uomini portati, ma di giumenti portanti. Tanto più che san Luca non avrebbe mancato forse, nel caso contrario, di notarlo, egli che, narrando la morte del Signore, si preoccuperà di rivelare la particolare mondezza del sepolcro ove fu deposto il corpo divino, perché nuovo: «Dove nessuno mai era stato ancora posto» (Lc 23,53). 

Tale stalla era dunque presumibilmente occupata da bestie, tetra come ogni grotta e sudicia come ogni stalla – salvo quella sistemazione alla buona, che avrà cercato di dargli Giuseppe – ma alquanto discosta dal villaggio e quindi solitaria e tranquilla: ciò bastava alla futura Madre. Ed egli, col cuore trepidante, e con il più eroico atto di povertà che si possa concepire, l’additò a Maria. I loro animi profondi e pensosi con un solo sguardo si incontrarono, si compresero, si fusero nuovamente in un palpito di soavissima eroica immolazione. 

 

Il primo amplesso: suprema esultanza e supremo dolore

«Et peperit filium suum primogenitum» (E diede alla luce il suo figlio primogenito): cinque semplicissime parole che fanno eco alle altre cinque dell’Annunciazione e di san Giovanni (1). Anche qui non si poteva dire, in meno, un fatto più grande. [...]. 

San Luca presenta la Vergine Santissima completamente sola in questo sublime momento. Ella lo dà alla luce, Ella stessa lo involge nei poveri panni che aveva potuto avere, Ella lo deporrà nella mangiatoia: tutto come chi non avesse avuto alcun bisogno di quegli aiuti soliti a darsi da altre donne alle partorienti, figlie di Eva peccatrice e quindi colpite dalla tremenda sentenza: «Con dolore partorirai figli» (Gen 3,16). E infatti ben diversa dalle altre dovette essere la sublime nascita di Gesù da Maria Santissima la quale era preservata dal peccato originale e aveva concepito per opera di Spirito Santo. [...]. 

Sostiamo un momento, mentre abbiamo più volte sottolineato il sacrificio, a contemplare l’esultanza sconfinata della Vergine Santissima. È il sublime momento in cui il suo sguardo celestiale si posa per la prima volta sulle adorate sembianze del divino Infante e le sue mani immacolate lo portano al cuore e al primo bacio delle sue materne labbra. 

Alcuni santi ebbero il rarissimo privilegio di godere per alcuni istanti l’amplesso del Bambinello, apparso miracolosamente tra le loro braccia, e ne furono ineffabilmente rapiti poiché son le sembianze più commoventi e più tenere di Dio, quelle del Bambino Gesù. Ma quelle erano apparenze, questa realtà. Il santo vecchio Simeone ebbe il privilegio maggiore di stringere tra le sue braccia il Bambinello proprio nella sua realtà e proruppe nell’esultanza del «Nunc dimittis». Santa Elisabetta esultò all’avvicinarsi di Maria che portava con sé invisibilmente Gesù. Ma tutti costoro erano cuori di santi: questo invece il Cuore Immacolato della Regina dei santi! 

Essa inoltre andava a Gesù non solo con divina carità sospingente al divino Signore, come i santi – tanto più infiammata però quanto incomparabilmente più abbondante era in Lei la grazia – ma anche con traboccante tenerezza materna verso di Lui, immensamente più grande essa pure d’ogni tenerezza di madre, quanto più sensibile era il suo Immacolato Cuore e più amabile il suo Figliolo: palpiti dolcissimi di figlia dunque per il suo Dio e palpiti tenerissimi di madre per il suo Gesù. Gesù era il suo tesoro perché nato da Lei, ma suo in modo tutto speciale ed inimitabile, perché Egli non aveva avuto alcun padre naturale terreno: ed era il tesoro suo, ma di valore veramente infinito perché concepito di Spirito Santo e quindi capolavoro di Dio: anzi uomo-Dio. 

E se i gaudi santi del Signore sono tanto più profondi quanto più sono preparati nel raccoglimento, nella meditazione e nella preghiera, quanto dovevano esserlo in Maria, che si era preparata a quel momento con nove mesi di intimo raccoglimento e ineffabile unione con Gesù vivente in Lei? 

 

«E lo avvolse in fasce»

All’esultanza però si congiunse subito il più straziante dolore, eco materna, profonda, ai primi vagiti del neonato Signore. Era il freddo (2) della notte natalizia che lo pungeva – ed era certo notte, come la descrizione dei pastori veglianti e della luce dell’Angelo (cf. Lc 2,8-9) dimostrano –; erano l’oscurità della grotta, le ripugnanti esalazioni della stalla, lo sporco delle pareti, il fiato degli animali, quel po’ di paglia preparata nella mangiatoia che lo accoglievano: mentre tutto lo splendore dell’universo raccolto in una sola reggia, non sarebbe stato degno di Lui. La mancanza nella Vergine Santissima di qualsiasi dolore fisico nel dare alla luce Gesù, fu largamente compensata dall’intenso dolore morale. Anche Maria quindi, in questo senso, con indicibile strazio diede alla luce il Salvatore. Ma abbiamo detto, a ragione veduta, che l’esultanza si congiunse allo straziante dolore, perché realmente essi stavano insieme. Erano una esultanza e uno strazio d’amore. Era un amore che si accendeva sempre più, davanti alle supreme umiliazioni in cui Ella vedeva immerso Gesù, per nostro bene. [...]. 

Si comprende anche facilmente come tali sentimenti di amore e di dolore tanto più accendessero il Cuore di Maria via via che compiva i primi atti materni, che facevano risaltare il contrasto supremo tra la gloria dovuta a Dio e quella spaventosa miseria. Ravvolse dunque il Bambinello nei poveri panni che poté avere a disposizione. E questa cosa che noi diciamo con tanta facilità le dovette ferire il cuore in modo profondissimo, non solo per la povertà di quei panni, ma perché non aveva alcun posto per appoggiare Gesù e per disporre bene quelle fasce, se non le sue ginocchia materne e quel poco di paglia. 

 

«E lo adagiò in una mangiatoia» 

Poi lo prese tra le sue immacolate mani e lo depose, con inenarrabile e lacerante dolcezza, in quella incredibile culla. Nessuna ribellione suona nelle parole del Vangelo, anzi tutto spira serenità e pace. Sembra che Gesù sia stato deposto nel luogo a Lui più conveniente. Ma non era egli Re, successore di Davide, nato per sedere sul trono di gloria? Non era stato detto: «A lui darà il Signore Iddio il trono di Davide suo padre, e regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,32-33)? Sì, Gesù doveva esser posto su un trono di conquista suprema, di divina conquista, dal quale tutte le genti sarebbero state attirate e dominate. Ma questo trono si sa quale sarebbe stato un giorno, la Croce: «Ed io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32); onde la Liturgia canta: «Regnavit a ligno Deus» (Dio regnò dal legno [della Croce]). Ora al trono della Croce corrispondeva bene, qual preludio, nella nascita, quello della mangiatoia; come nella vita pubblica vi corrisponderà la mancanza d’ogni sia pur modesta dimora: «Non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Quella obbrobriosa culla era il trono del suo trionfo, contro la regalità corrotta della terra di cui, a nove chilometri di distanza, era palpitante esempio la dorata ed empia reggia di Erode il Grande. [...].

Un ultimo sguardo alla grotta, prima che arrivino i pastori, uno sguardo a questa reggia e alla beata triade che la occupa. In tutt’e tre i sacri personaggi sono le stesse virtù. Ma se guardiamo ciò che in ciascuno emerge per il compito avuto, e ci riferiamo al motivo per cui essi si trovarono in questa grotta di miseria, vediamo rispettivamente tre note caratteristiche in questa corte divina: la povertà, la castità, l’umiltà. La povertà rifulge in san Giuseppe che non poté trovare i mezzi per un ricovero migliore, la castità nella Vergine Santissima come sopra accennammo, l’umiltà in Gesù che, tutto prevedendo e regolando come Dio, elesse – «disprezzata l’ignominia» (Eb 12,2) – la suprema umiliazione di quella miserabile culla. 

Sono i tre colori del glorioso vessillo del divino Re. E sopra è una grande parola che li abbraccia tutti e ne è il comune segreto: la parola amore.   

 

tratto da: Maria Santissima nel Vangelo

 

Note

1) Maria Santissima all’arcangelo Gabriele: «Fiat mihi secundum verbum tuum» (Avvenga di me secondo la tua parola); san Giovanni nel prologo del suo Vangelo: «Et verbum caro factum est» (E il Verbo si fece carne).

2) Le lunghe notti invernali sono fredde e dure, anche in Palestina, nelle stamberghe mal chiuse della povera gente. A Gerusalemme, per esempio – vicina e quasi alla stessa altezza di Betlemme, e non molto diversa di clima –, si conoscono anni di forte nevicata e il termometro può scendere anche a 5 e 7° sotto zero.

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