Il 24 dicembre 1952, nel campo dov’era prigioniero da ormai 6 anni, padre Placid festeggiò la Vigilia di Natale insieme ai suoi compagni ungheresi. La letizia di quella veglia clandestina fu indimenticabile. E non solo per loro...
Padre Placid Oloffson (1916-2017) fu un religioso benedettino e sacerdote dell’abbazia di Pannonhalma in Ungheria. Appena dopo la Seconda Guerra mondiale fu mandato a Budapest come professore di un liceo e assistente di un movimento cattolico: a causa di alcune sue prediche contro il comunismo divenne uno degli obiettivi della persecuzione comunista. Arrestato e torturato, fu infine condannato a 10 anni di detenzione nei gulag, dal 1946 al 1955. Nei vari gulag in cui fu internato scoprì la sua vera vocazione: aiutare i compagni di prigionia a tenere alto il morale, a confidare nel Signore e a provare a sopravvivere a quell’inferno. Padre Placid ha raccontato in più occasioni particolari della sua detenzione nei gulag, del suo apostolato clandestino e del modo in cui riusciva a procurarsi il necessario per celebrare la Santa Messa. Tra i tanti episodi vi è questo gustoso episodio natalizio da cui emerge l’importanza della gioia del Natale.
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All’inizio del dicembre del 1952 nel campo di concentramento eravamo in 38 ungheresi: ci riunimmo e decidemmo che in qualche modo avremmo festeggiato il Natale. Nell’Unione Sovietica il 24 e il 25 dicembre sono giorni lavorativi nei quali non ci sono feste, ma già allora sapevo che al Cremlino di Mosca e nelle grandi piazze delle città per il 1° gennaio innalzavano lo “jolka”, ovvero il pino. I pionieri – cioè i membri delle associazioni giovanili del partito – vi danzavano attorno e veniva il “gyedmaroz”, il “Nonno gelo”, che portava i regali. Nell’era comunista anche da noi in Ungheria non c’era il Natale, non si festeggiava Gesù Bambino, ma c’era solo la festa del pino e di Nonno gelo (in ungherese télapó). Lo stesso avveniva nell’Unione Sovietica.
Il mio capo era un tenente, il quale aveva una figlia di quattro anni, che soffriva di una paralisi infantile per la quale doveva stare sdraiata e ingessata per buona parte del corpo. Per questa bimba fabbricavo con la carta piccoli giocattoli, bamboline e cose del genere. Proposi questo ai compagni di prigionia ungheresi: «Ragazzi, chiedo al capo, che per il 1° di gennaio per la sua figlia malata allestiamo un piccolo jolka, un piccolo pino decorato, e così per il 24 dicembre avremo anche noi il nostro albero di Natale». Come è naturale furono tutti d’accordo. Feci portare dal bosco una piantina di pino. Per questo nel periodo precedente al Natale tutte le sere mangiavamo velocemente la nostra zuppa di cavoli e quella di avena e poi ci ritrovavamo insieme. Tutti collaborarono a preparare questa straordinaria Vigilia di Natale.
Due giorni prima della Vigilia venne a visitarmi un giovane compagno di prigionia che, lavorando da qualche parte fuori dal campo, aveva trovato un piccolissimo mozzicone di candela e aveva avuto una brillante idea. Se quel mozzicone di candela lo avessimo messo di fronte al piccolo albero di Natale e lo avessimo acceso, allora sul muro si sarebbe disegnata l’ombra di un grande albero di Natale.
La mattina del 24 dicembre, quando ricevemmo la nostra razione quotidiana di pane da mangiare con la zuppa di cavoli, tutti conservarono il loro pane per la festa della sera. Tagliai dal pane dei piccoli pezzi: con la crosta feci piccoli cubetti, e con la mollica altri cubetti. Devo aggiungere che noi per i dieci anni di prigionia non abbiamo mai visto carne, in quanto ogni giorno ci venivano dati solo 40 grammi di pesce. Ricevevamo infatti dei piccoli pesciolini – chiamati komsza – che nemmeno i gatti mangiavano. Questo ci facevano mangiare, ma mai carne. Sapevo però che i cittadini sovietici ricevevano dei pacchetti, e nei pacchetti degli ucraini c’era sempre aglio. Ne chiesi un po’ ad un ucraino. Con uno spicchio di aglio strofinai i cubetti di crosta di pane, in modo tale che ci ricordassero il sapore della salsiccia. Appeso al collo portavo poi un sacchettino con i 12 dg di zucchero che ricevevamo mensilmente (se lo ricevevamo!). Quello infatti era prezioso e bisognava mangiarlo subito o conservarlo con cura perché altrimenti lo rubavano. Con quello zucchero cosparsi i cubetti di mollica di pane: ecco pronto il nostro dolce natalizio. Allora: abbiamo la salsiccia, abbiamo il dolce, dunque c’è tutto!
Due dei compagni giunsero, e dissero che non potevano partecipare alla nostra Vigilia di Natale, perché dovevano svolgere il servizio alla stazione elettrica. La stazione elettrica era un generatore di corrente, in quanto là, nei boschi, non c’erano i cavi della corrente e pertanto ogni lager era alimentato con un generatore. Avevano infatti modificato un trattore Stalinec facendolo diventare un generatore di corrente per alimentare innanzitutto i quattro riflettori delle torri di guardia e poi per provvedere alle necessità elettriche delle baracche dei prigionieri e delle case delle guardie. I due compagni dissero che, dopo aver consumato la zuppa di cavoli, quando noi ci saremmo riuniti per tenere la nostra festa natalizia, loro avrebbero provocato un corto circuito nel generatore elettrico, per rendere ancora più lieta la nostra festa.
Venuto il momento della festa, infatti, il buio copriva tutto il mondo, ma in quel momento dalle torri di controllo incominciarono a sparare razzi luminosi colorati, affinché nessun prigioniero provasse a scappare. Nella nostra festa non c’erano stelle filanti, ma per il quarto d’ora nel quale pregammo, cantammo e tenemmo la nostra festa natalizia, nel cielo del lager c’erano dei fuochi d’artificio che non avevo mai visto! Pensammo che proprio in quel momento i nostri parenti a casa accendevano le candele dell’albero di Natale e che forse anche noi in futuro le avremmo di nuovo accese. In poche parole il prigioniero di un lager ha sempre molta fantasia... e così dimenticammo per un poco quella miseria in cui vivevamo.
Mangiavamo la nostra “salsiccia” e il nostro “dolce” e proprio in quel momento si aprì la porta ed entrò un famoso poeta sovietico, che era stato vincitore del premio Stalin prima di cadere in disgrazia. Mi ricordo persino il nome, Ivan Fagyejevics Szolovjov. Ero solito parlare molto con lui. Entrò, guardò e se ne andò. Ben sapevamo che sarebbe andato dal comandante a denunciarci, infatti nell’Unione Sovietica la cospirazione è un delitto peggiore dell’omicidio, e quando 36 ungheresi si riuniscono insieme in una stanza può trattarsi solo di cospirazione. Nonostante il sospetto che ci avrebbe denunciato, concludemmo la nostra Vigilia di Natale e fu di nuovo mattino. Il giorno successivo volevo parlare con quel buon uomo, per dirgli che, se non avesse trovato la sera precedente il comandante, non dicesse nulla, in quanto in fin dei conti non avevamo fatto male a una mosca.
Da lontano il poeta mi fece un segno e anch’io gli risposi a gesti, facendogli capire che anche io volevo parlare con lui. Ma non riuscii ad aprire bocca perché lui mi disse – traduco parola per parola: «Tu ben sai che io sono stato educato e cresciuto come un ateo. Ma ciò che ho visto ieri, che voi in una tale situazione, in forza della vostra fede, sapete sorridere, questo per me è la più grande dimostrazione dell’esistenza di Dio».
Per quel miscredente la nostra gioia e il nostro sorriso contava come una dimostrazione dell’esistenza di Dio. Che significato grandioso ha la gioia! Che significato grandioso ha il fatto che noi siamo figli del Vangelo, figli della lieta notizia della Redenzione! Perciò non è consentito lamentarsi ma nella vita bisogna sapere cogliere le piccole gioie.