Il dibattito teologico sull’esistenza del limbo deve necessariamente fondarsi anzitutto sui vari interventi magisteriali, i quali hanno accennato in diverse occasioni a questo tema, pur senza volerlo definire come dogma di Fede.
Dopo aver trattato i quattro Novissimi, che la Tradizione della Chiesa ha consegnato al “depositum fidei” come articoli di Fede divina e cattolica non impugnabili e quindi rigorosamente da credere e fermamente ritenere, è il caso di occuparci di un problema teologico – che ha peraltro attirato recenti attenzioni da parte di alcuni – che non è oggetto di esplicita e chiara definizione di Fede non impugnabile, ma appartiene alla categoria di “dottrina comune” la cui negazione sarebbe atto teoricamente possibile senza incorrere in eresia formale, ma comunque non avulso da temerarietà. Si tratta del limbo, ossia di quel particolare luogo e stato caratterizzato dalla sola pena del danno, in cui verserebbero, dopo la discesa agli inferi di Cristo (che liberò tutti coloro che vi sostavano in attesa della Redenzione, ossia i santi dell’Antico Testamento, non esclusi perfino san Giovanni Battista e san Giuseppe), solo coloro che sono morti senza essere privati della colpa d’origine, ossia i bambini non battezzati. La soluzione del problema è certamente rilevante, anche in ordine alla delicata questione circa la sorte che attende le anime dei bambini abortiti, sia quelli che naturalmente si ritrovano ad essere tali, sia le vittime – ahimè – dell’esecrabile e gravissimo delitto dell’aborto volontario, e gli eventuali possibili rimedi da porre in essere. Vedremo che, riguardo questa tematica, il Magistero della Chiesa (attraverso papi e concili) è stato tutt’altro che silente (pur senza dichiarare esplicitamente alcun dogma di fede); tuttavia alcune delle opinioni che saranno espresse durante la trattazione sono di natura personale dello scrivente (cosa del tutto lecita, essendo questa materia – fin quando non ci saranno ulteriori, più esplicite e chiare definizioni in un senso o nell’altro – del tutto libera) e non si mancherà di farlo notare man mano che si dovessero esporre.
Cominciando dagli autorevoli interventi magisteriali in merito, il più antico a nostra disposizione è quello del glorioso pontefice Innocenzo III (colui che approvò la forma di vita dei frati di san Francesco d’Assisi), il quale nella lettera a Imberto di Arles del 1201 scrisse queste testuali parole: «La pena del peccato originale è la mancanza della visione di Dio, mentre la pena del peccato attuale è il tormento dell’inferno eterno» (Denz. 780). Queste parole affermano chiaramente che conseguenza del solo peccato originale è la privazione della visione beatifica e che quindi basta la sua presenza per impedire all’anima di potervi accedere.
Qualche lustro più tardi, il Concilio di Lione (1274) sancì che «le anime di coloro che muoiono in peccato mortale o con il solo peccato originale, subito discendono nell’inferno, anche se punite con pene differenti» (Denz. 858, il corsivo è mio). Il Concilio distingue chiaramente chi muore in stato di peccato mortale da chi muore col solo peccato originale, sancendo che si discende entrambi nel generico “inferno”, ma con pene differenti. Combinando tale asserzione con quella precedente di Innocenzo III, è più che evidente che la diversità di pene deve consistere nella sola pena del danno per chi muore col peccato originale e nei tormenti del senso per chi con la propria volontà ha peccato mortalmente senza pentirsene.
Papa Giovanni XXII, nella lettera agli Armeni del 1321, aggiunse un ulteriore tassello a tale mosaico. Scrisse infatti che «le anime di coloro che muoiono in peccato mortale o con il solo peccato originale, discendono subito nell’inferno, per essere tuttavia punite con diverse pene e in diversi luoghi» (Denz. 926, anche stavolta il corsivo è mio). Dunque si ha anche una “diversità di luoghi” e non solo una diversità di pene. È chiara l’allusione alla differenza che, nella tradizione teologica cattolica, si era nel tempo andata stabilendo tra il cosiddetto “inferno dei dannati” (ossia l’inferno in senso stretto) e “gli inferi, o Sheòl, o limbo” (ossia l’inferno in senso lato o ampio), dove dimorerebbero le anime di coloro che sono morti solo col peccato originale e senza peccati personali attuali e dove discese il Salvatore nel Sabato Santo, a liberare i santi dell’Antica Alleanza.
Il Concilio di Firenze (1439) si spinse ancora più oltre, giungendo a dichiarare di voler definire come verità di Fede la diversità di pene tra i peccatori in senso stretto e coloro che muoiono col solo peccato originale, senza tuttavia entrare dettagliatamente e in modo particolareggiato nel merito dell’esistenza del limbo come luogo particolare e distinto dall’inferno (cosa che, col senno di poi, forse sarebbe stata opportuna): «[Inoltre definiamo che] le anime di quelli che muoiono in stato di peccato mortale attuale o con il solo peccato originale, scendono immediatamente nell’inferno, per essere punite con pene diverse» (Denz. 1306, corsivi sempre miei). È questo senz’alcun dubbio il testo più autorevole a favore della tesi che sostiene l’esistenza del limbo, che l’avrebbe “trasformato” in verità di Fede solo se fosse stato un tantino più esplicito, ossia specificando la diversità delle pene e che il limbo sarebbe un luogo particolare diverso e distinto dall’inferno.
Infine, tra gli interventi magisteriali in senso stretto (con cui chiudiamo questa prima parte del discorso), va annoverato quello di papa Pio VI che nella Costituzione Auctorem fidei (1794) – ove condannava le proposizioni del Sinodo di Pistoia – scrisse: «[Si condanna] la dottrina che rigetta come favola pelagiana quel luogo degli inferi (che i fedeli ovunque chiamano con il nome di limbo dei bambini) nel quale le anime di coloro che sono morti con il solo peccato originale sono punite con la pena della privazione eterna senza la pena del fuoco» (Denz. 2626, corsivi miei). Anche questo intervento, per la verità, è forte e abbastanza esplicito ed è di risoluta condanna nei confronti dei negatori di questa realtà: afferma l’esistenza di un “luogo degli inferi”, chiamato dai fedeli limbo dei bambini, dove si soffre la pena del danno senza altre pene del senso, in primis la pena del fuoco. Anche questa affermazione, di chiara natura magisteriale, deve essere tenuta nella debita considerazione prima di avanzare conclusioni precipitose e affrettate circa l’esistenza o meno di questa realtà. Tuttavia, non potendo definirsi esercizio di Magistero solenne e infallibile da parte del Romano Pontefice, non può essere invocata come definitoria (in senso stretto) dell’esistenza del limbo.
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