L’uomo è composto di anima e corpo, di materia e spirito. I due costituenti sono antagonisti, spesso in conflitto fra loro; la legge della natura infatti si oppone alla legge dello spirito. Il progredire nella vita morale consiste nel far morire la carne per far sì che lo spirito raggiunga la beatitudine della Vita eterna.
È una delle curiose anomalie dell’odierna civiltà il fatto che l’uomo, nel momento in cui raggiunge un’altissima capacità di controllo sulla natura, abbia, in grado così infimo, la capacità di dominare se stesso.
Il gran vanto del tempo presente è il dominio dell’uomo sul Creato: abbiamo imbrigliato le cascate per ricavarne energia, sottomesso l’aria affinché ci trasporti per il mondo su ali d’acciaio, abbiamo strappato alla terra i segreti del suo passato.
Tuttavia, a dispetto di questo dominio sul mondo esterno, sulla natura, non c’è forse mai stato altro periodo storico in cui l’uomo abbia avuto meno dominio su se stesso. Appare forte come un gigante nella sua capacità di controllare le forze della natura, il macrocosmo, è invece debole come un nanerottolo nel domare le passioni e le inclinazioni della sua natura, il microcosmo.
Se la sua vita terrena in sostanza è una fucina, il luogo ed il tempo in cui si forgiano caratteri forti e virtuosi, se essa implica uno scontro acerrimo contro quelle forze e quei poteri che vorrebbero distoglierci dal nostro ideale, dobbiamo ammettere che la vera meta da conquistare è la vittoria su se stessi, che il vero progresso consiste propriamente nel dominare i nostri impulsi sregolati, la nostra tendenza all’egoismo, piuttosto che nel dominare i venti e le acque.
Ma questa vittoria su se stessi non può essere conseguita se non mediante quel combattimento che nel lessico cristiano è chiamato mortificazione. Mortificarsi significa morire a se stessi, sconfiggere l’amore di sé, per vivere dell’amore di Dio. Anzitutto significa morire per vivere. È una legge, tanto nell’ordine della natura quanto in quello della grazia soprannaturale, che una forma superiore di vita può essere ottenuta solo attraverso la rinuncia ad una sua forma inferiore.
La vita dello spirito, quella cioè del Regno di Dio, è conseguita solo morendo a questo mondo, sacrificando la carnale, con la sua concupiscenza. Ricordate come Nostro Signore enfatizzò quest’aspetto della mortificazione pronunciando quelle parole che risuonano assai debolmente in questo tempo dal cristianesimo latte e miele: «Se il chicco di grano caduto per terra non muore, rimane solo, se invece muore produce molto frutto» (Gv 12,24). «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa» (Mt 7,13). «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24). «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). «Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo: è meglio per te entrare nella vita zoppo, che esser gettato con due piedi nella Geenna. Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, che essere gettato con due occhi nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue» (Mc 9,43-48). «Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12). «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc 9,24).
Questi ammonimenti suonano strani nel nostro tempo, convinti che la vita terrena sia la sola certa e che quindi valga la pena di godersela, mangiando, bevendo e divertendosi, perché domani dovremo morire. Sono parole talvolta rifiutate scrollando le spalle, come se appartenessero ad un lontano passato, giudicate incompatibili con la vita moderna fatta di comfort e di piacere. La legge della mortificazione, che consiste nel morire per vivere, è uno dei principi fondamentali della vita e non può essere ignorato da chi comprenda il significato e lo scopo della vita su questa terra. Come disse un poeta: «La vita che nasce ha in sé il germe della morte, ma la morte ha con sé il germe della nuova vita. La ghianda che cade per terra fa nascere la quercia, la pioggia che cade rende il terreno lussureggiante. Nella felce, la foglia dell’anno trascorso muore quando germoglia quella del nuovo anno. Nulla prende vita se qualcosa non muore e nulla muore senza che qualcosa prenda vita. Fin quando i cieli non scompariranno e il tempo, la radice nascosta di ogni mutamento, non si seccherà, la vita e la morte saranno compagni inseparabili sulla terra, poiché essi formano una coppia, anzi sono come una cosa sola: la vita che muore è vita che nasce».
Posa lo sguardo sulla struttura gerarchica della creazione, il regno minerale, quello vegetale, quello animale e l’uomo. Osserva quanto rigorosamente è verificato il principio secondo il quale una forma di vita superiore è ottenuta a spese di una inferiore. Affinché la luce del sole, l’acqua piovana e le sostanze minerali del terreno condividano la gioia della vita vegetale, sperimentando il fascino della vita biologica, essi devono rinunciare al modo di esistere – individuale ed autonomo – del proprio livello per unirsi organicamente nella pianta. Affinché l’erba del prato sia resa partecipe della gioia della vita animale, sperimentando il fascino della vita sensibile, del vedere, sentire, odorare, gustare, essa deve rinunciare alla propria forma inferiore di esistenza per unirsi organicamente all’animale, venendo strappata dal suolo e metabolizzata dall’animale: la morte è la condizione per la vita. Affinché la luce del sole, l’acqua piovana, le piante ed i fiori, le bestie e gli uccelli, in breve tutta la coorte delle creature senz’anima razionale, possa condividere la gioia della vita umana, di una forma di vita superiore, capace di pensare e di amare, pure essa deve rinunciare alla propria forma inferiore di esistenza, passando per una sorta di Getsemani e di Calvario in cui muore alla sua forma autonoma ed indipendente di vita.
Allo stesso modo, affinché un uomo possa essere reso partecipe della vita di Cristo – e l’uomo non può considerare la propria come la suprema forma di vita più di quanto lo possa affermare una rosa di sé –, se mai egli possa entrare in comunione con Lui, con il Sangue divino che scorre nelle sue arterie e lo Spirito di Dio che pulsa nel suo Cuore, egli deve prima rinunciare alla vita carnale. Sì, egli deve nascere di nuovo, poiché, a meno che l’uomo non rinasca alla vita divina, morendo alla propria natura, non gli è concesso di entrare nel Regno di Dio. La legge del Calvario è quindi legge per ogni cristiano: senza la Croce non ci sarà mai Risurrezione, senza la sconfitta del Calvario nessuna vittoria pasquale, senza i chiodi, non le gloriose ferite, senza indossare l’abito del disprezzo, nessuna veste splendente come il sole, senza la corona di spine, nessuna aureola luminosa, senza la discesa nel sepolcro, non ci sarà mai l’ascensione al Cielo; poiché la legge, emanata prima dell’inizio del tempo e in vigore fino alla consumazione dei secoli, stabilisce che nessuno venga coronato di gloria prima di aver combattuto e vinto, nessuno possa godere della vita divina prima di essere morto a se stesso ed al proprio io egoistico. Ma in questa rinuncia alla forma inferiore di vita, la mortificazione, lungi dall’essere un segno di debolezza è al contrario la manifestazione di potenza: la volontà domina se stessa, di propria mano si dispone a subire una serie di sconfitte per conseguire la più fulgida vittoria; gli atti di mortificazione del proprio io, formano la scala che eleva l’uomo a più nobili altezze, la perfetta sottomissione della natura carnale alla volontà spirituale diventa la vittoria che porta l’uomo a godere della Beatitudine eterna dell’unione con Dio.
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