SPIRITUALITÀ
La Voce divina che è in noi
dal Numero 19 del 12 maggio 2013
di Stefano Arnoldi

Un uso improprio e riduttivo del concetto di “coscienza” ha confinato la religione e la morale nell’ambito del personale e del soggettivo. È necessario recuperare la vera nozione di coscienza, per arginare il moderno dilagante relativismo.

Oggi sempre più spesso si sente dire: “Ho agito secondo coscienza; l’importante è comportarsi secondo coscienza” sottolineando, dunque, la primaria importanza che essa assume. Reminiscenze del catechismo giovanile sono quelle che insegnavano “Dio ha iscritto i 10 Comandamenti nel cuore di ciascun uomo, che sia egli cristiano o meno; sicché tutti possono agire secondo coscienza”. In realtà giustificare le proprie azioni, le proprie decisioni, i propri atteggiamenti, asserendo che si è agito secondo coscienza, non significa un bel niente.
Certo tutti disponiamo di una coscienza (sulla quale l’uomo non ha un potere assoluto; solo in alcune occasioni, e con estrema difficoltà, può avere su di essa una certa influenza, arrivando persino, nei casi estremi, a soffocarla e, senza dubbio tutti sappiamo, nel nostro cuore, ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ciò che è vero e ciò che è falso... (in questo senso ogni uomo ha iscritto nel cuore i 10 Comandamenti), benché a volte decidiamo di agire malamente, falsamente, ingiustamente...
Scriveva il beato John Henry Newman (1801-1890): «La coscienza implica un rapporto tra l’anima e un qualcosa di esterno, anzi di superiore a essa; è un rapporto con una perfezione che non possiede, con un tribunale sul quale essa non ha alcun potere». Per chiarire il carattere trascendente, non puramente soggettivo, della coscienza, Newman la presentava spesso come voce divina in noi, come «l’eco della voce di Dio in noi», sosteneva.
«La coscienza – continuava – è un principio impiantato in noi prima di qualunque formazione, sebbene l’esperienza e l’educazione siano necessarie per il suo vigore, il suo sviluppo, la sua maturazione». Ecco il punto: parlare semplicemente di coscienza non ha senso, lo ha invece il parlare di retta coscienza. Perché la coscienza va formata, va maturata, va accudita, va cresciuta; in caso contrario, pur conservando intatto il suo carattere trascendente che si farà sentire, secondo i casi, con rimorsi o con approvazioni, rimarrà pur sempre una coscienza oscurata per ignoranza o per disubbidienza. Dove allora attingere per formare rettamente la coscienza? È la parola rivelata da Dio, per mezzo del suo Figlio Gesù Cristo, la scuola di formazione della coscienza.
Tale scuola spinge continuamente ad avvicinarsi al centro dell’essere, occupato da Dio. Si tratta di una sollecitazione così potente che è capace di proiettare l’uomo fuori di se stesso, e di gettarlo perfino al di là del proprio io, superando qualsiasi resistenza. «Fin quando l’uomo – spiegava il card. Newman – governa il suo cuore e la sua condotta con questo sentimento intimo del bene e del male, e non con le massime del mondo, tale sentimento non dà riposo alla coscienza, annulla qualunque monotonia, e spinge l’uomo avanti in un itinerario che dura tutta la vita».
Newman ha trattato più volte, nei suoi profondissimi e impareggiabili scritti, il tema della coscienza: molto, dunque, ci sarebbe da dire; B. Haring ha scritto: «Nessun moralista può ignorare la grande visione di Newman sulla coscienza». Tuttavia sono convinto del fatto che il cuore della riflessione sia questo: la coscienza, per essere veramente tale, deve essere formata, formata cattolicamente. In caso contrario le verrà assegnato un valore non propriamente giusto, un’importanza inferiore a quella che in realtà riveste. È quanto ha sottolineato papa Benedetto: «La modernità ha messo in evidenza il valore della coscienza umana. Ma qui troviamo un grave rischio, perché nel pensiero moderno si è sviluppata una visione riduttiva della coscienza, secondo la quale non vi sono riferimenti oggettivi nel determinare ciò che vale e ciò che è vero, ma è il singolo individuo, con le sue intuizioni e le sue esperienze, ad essere il metro di misura; ognuno, quindi, possiede la propria verità, la propria morale». (Il Papa ha trattato più volte questo tema a proposito degli equivoci diffusi rispetto al tema della coscienza nel pensiero del card. Newman).
      «Se si sbaglia nozione della coscienza – continua il Papa – la conseguenza più evidente è che la religione e la morale tendono ad essere confinate nell’ambito del soggetto, del privato: la fede con i suoi valori e i suoi comportamenti, cioè, non avrebbe più diritto ad un posto nella vita pubblica e civile». Ne nasce il più tipico e grave paradosso della modernità: «Da una parte, nella società si dà grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, dall’altra, la religione tende ad essere progressivamente emarginata e considerata senza rilevanza e, in un certo senso, estranea al mondo civile, quasi si dovesse limitare la sua influenza sulla vita dell’uomo». E ancora: «Le conseguenze più gravi di questo errore moderno – insegna il Papa – si manifestano quando la presenza cristiana è progressivamente emarginata dalla vita del mondo civile». Non è forse questo il dramma della dittatura del relativismo?
Che fare allora? Si tratta di abbandonare una nozione immatura o deviata della coscienza per tornare a quella vera, per ricostruire un mondo dove Dio e l’uomo tornino a incontrarsi (ed ecco che emerge il valore della Liturgia!), dove ragione e fede collaborino in una positiva e proficua interazione fra sana laicità e fede cristiana. Del resto, ed è bene ricordarlo, la coscienza «si limita a fare, umilmente e provvisoriamente, le veci di Dio, a preparare la sua venuta» (Newman): è anche questo, in fondo, ciò di cui ogni uomo (che si definisce cattolico) dovrà rendere conto...

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