Nonostante le pressioni esterne, lo Stato tailandese ha impedito che il grembo delle proprie donne divenisse luogo di insano commercio. I risvolti della maternità surrogata sono molteplici e inquietanti: il popolo asiatico ha fiutato il pericolo.
Nel lembo sudorientale dell’Asia, in Tailandia, dove ambite spiagge del turismo internazionale coesistono con zone dell’entroterra in cui la povertà, prima dello stomaco, rode i presupposti minimi dell’esistenza umana, si trovano nababbi disposti a spendere 12mila, 13mila euro, per fittare il grembo di una donna. Le donne ingaggiate, malcapitate vittime quanto complici di questa terribile locazione, ospiteranno per nove mesi il bambino che poi dovranno cedere. Queste le condizioni contrattuali di base e il prezzo di mercato. Il tempo della gravidanza consentirà alla madre surrogata di guadagnare quanto altrimenti avrebbe ottenuto in dieci anni di lavoro. Non c’è che dire: il turismo procreativo è diventato un business!
Ora, se la disperazione può trasformare il grembo di una donna in un frigorifero e un bambino in merce da vendere, è solo perché abbiamo smarrito il vero senso della vita e la povertà finisce per fornire l’alibi alle nostre cattive azioni. Manca la verità del Cristo; quella che qualifica il senso della vita vera.
In Tailandia, però, da qualche giorno è cambiato qualcosa. Per questa volta il potere di acquisto del denaro non è riuscito a comprare anche le coscienze. Lo Stato, infatti, ha vietato la maternità surrogata ed ora i ricchi compratori non possono più soddisfare tutti i “diritti”, compresi quelli di acquistare un “figlio”. Dovranno rivolgere altrove la loro singolare domanda di mercato.
Tutto comincia due anni fa quando i coniugi Farnell, una coppia di australiani, tramite loro mediatori, commissiona un bambino ad una giovane tailandese. Il diavolo però fa le pentole, non i coperchi e, a volte, le cose non vanno secondo i desideri dei compratori. Nel grembo di Janbua Pattaramon, la madre in affitto, trovano posto due gemelli. Uno di essi, il piccolo Gammy, è down. Alla gestante è prospettato l’aborto. Lei rifiuta la soluzione perché contraria ai suoi convincimenti religiosi. Peccato che non abbia deciso prima di non prestarsi anche al fitto sinistro del proprio sacco di gestazione! Quando arriva il giorno della nascita, i “gran signori” australiani prendono il figlio sano e scartano quello malato, né più, né meno come si fa quando lasciamo sul banco di vendita la merce difettata. D’altronde, chi può costringere qualcuno a spendere i propri soldi per un acquisto con un’imperfezione di fabbrica? Chissà se non verrà anche il giorno in cui butteremo nel cassonetto della spazzatura il figlio prima acquistato, così come si fa con un paio di scarpe quando diventano inutilizzabili.
Intanto Gammy è spacchettato da un posto all’altro, finché i giudici australiani, bontà loro, hanno concesso la cittadinanza tailandese su richiesta della madre locata. Il piccolo però è cardiopatico, bisognoso di cure mediche. Allora è cominciata una gara di solidarietà; sono stati raccolti un bel po’ di dollari. Speriamo che il fatto non sia visto come un affare di gran lunga più vantaggioso del fitto dell’utero e che sia espressione di una ritrovata dignità di madre, verso un piccolo bisognoso di amore, cure e protezione.
La maternità surrogata solleva inquietanti interrogativi, da film degli orrori. Può avere, infatti, degli effetti al di là dell’immaginabile. E se un pedofilo decidesse di ordinare una serie di bambini da destinare poi alla soddisfazione di insane voglie? Esagerazioni? No! Quando scoppiò il caso di Gammy, nell’agosto dell’anno scorso, numerosi periodici riportarono la notizia della fedina penale del padre acquirente. Nella fattispecie risultano denunce per molestie a minori. La possibilità, dunque, che la maternità surrogata possa trasformarsi in un laboratorio dove si fabbricano prodotti per il mercato del sesso, è reale.
Se casi come questi non ci fanno comprendere che un figlio non è un diritto, che il grembo materno non si loca e i nascituri non si vendono come carne in macelleria, è perché il peccato ha accecato la nostra mente. Non v’è motivo di credere che la ragione possa tornare a diventare la regina delle nostre azioni, finché l’uomo non si convincerà della necessità di pentirsi e di ritornare a Dio.