Giovane dalla laboriosità enorme, dall’impressionante autodisciplina, dal coraggio intrepido: questo era Gabriel Garcia Moreno, futuro prodigioso Presidente della Repubblica equadoregna, all’alba della sua conversione.
Il secolo XIX fu uno dei più indifferenti religiosamente e dei più anticattolici nella storia. I governi rivoluzionari o liberali ovunque calpestavano le Leggi di Dio e della sua Chiesa. Le false filosofie avvelenavano le menti: la fede nell’idolo del progresso generava una speranza cieca e falsa che al termine di quel secolo – ossia agli inizi del sanguinoso XX – portava a credere che fosse finalmente venuta l’epoca della pace. Mutatis mutandis, possiamo affermare che il XIX secolo assomigliava in vari suoi aspetti al nostro secolo XXI. Tanto più valgono per noi gli esempi presi da esso. Tanto più vale per i nostri tempi l’esempio di un uomo politico, anzi di uno statista efficacissimo, il quale – citando un numero antico de La Civiltà Cattolica – «a mezzo del secolo decimonono [...] raccolse la bandiera di Cristo gettata vituperosamente nel fango da Governi prima intimoriti, poi dominati da una setta sacrilega [Massoneria]. Per onore di quella bandiera cinse la spada, per lei compilò leggi: e lei dispiegando, solo, a capo della sua nazione si volse contro la corrente del secolo rinnegandone apertamente i pregiudizi, calpestandone la falsa politica, sfatandone l’empietà»[1] . Quell’uomo fu Gabriel Garcia Moreno, presidente dell’Ecuador.
L’opera di Garcia Moreno
Sin dall’inizio della sua indipendenza (ottenuta nel 1830) l’Ecuador si era trovato quasi ininterrottamente in balia di vari despoti liberali o radicali. Per trent’anni, il popolo profondamente cattolico, aveva subito governi più o meno apertamente anticattolici. Il tesoro pubblico, continuamente derubato dagli ufficiali corrotti, era sempre vuoto. Mancavano le strade, le scuole, un buon esercito, un’efficace amministrazione... Il cileno Eloy Proano così descriveva la situazione dell’Ecuador in questo periodo: «Era sempre la rivoluzione, sempre la guerra civile e la guerra esterna che si disputavano i brandelli dei cadaveri sanguinosi, sempre la persecuzione della Chiesa, la sacrilega usurpazione dei suoi beni, la proscrizione dei suoi ministri, la profanazione dei suoi templi, la deportazione dei suoi figli, la bancarotta in permanenza, il commercio annientato, la pubblica istruzione trasformata in veleno corruttore, tutti i vizi messi in mostra alla luce del sole, in una parola il regno del male in tutta la sua orridezza»[2].
Tali erano le circostanze nelle quali si trovò Gabriel Garcia Moreno, quando nel 1861 per prima volta divenne Presidente della Repubblica. Con un’interruzione di quattro anni (1865-1869), durante i quali gran parte delle conquiste del suo governo fu sciupata, Garcia Moreno governò l’Ecuador fino alla sua morte da martire, il 6 agosto 1875. Durante i dieci anni delle sue presidenze egli riuscì a tra l’altro a costruire cinque grandi strade, tra le quali quella da Quito a Guayaquil (difficilissima a costruire a motivo dei monti e paludi che attraversa, con innumerevoli ponti: «Un lavoro solido e stupendo, le cui difficoltà sembravano insuperabili», come nota “La Civiltà Cattolica”[3]); fondare una grande scuola politecnica, collegi in tutte le città, scuole anche nei villaggi piccoli, persino per ragazze; costruire un modernissimo osservatorio astronomico a Quito (gli strumenti del quale furono pagati dal presidente col proprio denaro), quattro musei, un faro nella costa dell’oceano a Guayaquil; organizzare le Corti di giustizia, sanare l’amministrazione pubblica dalla piaga della corruzione, riformare (se non addirittura formare) l’armata; riformare la Costituzione, concludere il Concordato, contribuire alla fondazione di quattro nuove diocesi ed alla notevole rinascita della vita regolare degli ordini religiosi... E non solo, dato che concluse una tale opera di rinnovamento senza far crescere il debito pubblico né le imposte, ma al contrario bilanciando bene il tesoro pubblico e diminuendo le tasse[4].
Nel presente articolo vogliamo guardare la figura gigantesca del Garcia Moreno dal punto di vista spirituale. Perciò non ci soffermeremo sull’enorme opera politica e sociale del nostro protagonista, dando più spazio soltanto ad alcuni importanti avvenimenti della sua presidenza, in particolare quelli che in modo più perfetto illustrano l’influenza della sua vita interiore su quella pubblica. Vogliamo innanzitutto vedere le radici di quest’albero ricco di frutti sì meravigliosi.
La grazia perfeziona la natura
La vita di Gabriel Garcia Moreno può essere divisa in due parti: prima e dopo la sua conversione, accaduta a Parigi nel 1855. La grazia però perfeziona natura, e infatti (come scriveva sant’Antonino) «chi ha la natura più preparata, quando è mosso dalla grazia, opera con maggiore perfezione ciò che è perfetto». Così appunto accade nel caso del nostro protagonista: già prima della sua conversione egli acquistò e praticava molte delle virtù naturali in modo eminentissimo, preparando così un saldo fondamento per la sua attività dopo la conversione.
Il futuro Presidente nacque a Guayaquil nel giorno della vigilia di Natale dell’anno 1821, allora nel periodo di guerre liberatrici condotte soprattutto da Simone Bolivar contro l’amministrazione spagnola. Dopo una educazione primaria, ricevuta grazie al generoso aiuto del sacerdote padre Betancourt (la famiglia Garcia, ricca ancora durante l’educazione dei fratelli maggiori del Nostro, s’impoverì radicalmente dopo la morte del papà), Garcia Moreno compì, con ottimi voti, gli studi di giurisprudenza a Quito. Dal periodo universitario si ricorda l’ampiezza degli interessi scientifici del futuro presidente (studiava praticamente tutte le scienze, amando particolarmente la matematica e chimica), la sua laboriosità enorme, l’autodisciplina impressionante, il coraggio intrepido. Eccone solo alcuni esempi.
Spesso gli capitava studiare non solo le giornate intere, ma anche durante le notti; non poche volte sedeva per ore e ore con i piedi a bagno nell’acqua fresca per allontanare il sonno e studiare fino alle due di notte, nonostante ciò poi si alzava ugualmente prestissimo. Una volta però si lasciò per qualche tempo attirare da divertimenti onesti, ma che ostacolavano questo ritmo di studi. Per combattere questa mollezza, rasatasi la testa (in modo da non poter comparire tra gli amici) si rinchiuse in una stanza, studiando per sei settimane senza dare alcun segno di vita. Un’altra volta, durante una passeggiata, sedette col libro all’ombra di una roccia. Dopo un po’ di tempo s’accorse che la grande pietra sopra la sua testa era quasi interamente staccata, in modo che in ogni istante avrebbe potuto cadere su di lui. In un primo momento, mosso dall’istintiva paura, fuggì dal pericolo della morte, subito però – vergognandosi di una tale debolezza – tornò a sedersi là, e per parecchi giorni ritornò a fare la sua lettura sotto questa “spada di Damocle”, fino a sottomettere pienamente l’istinto alla ferrea volontà.
Nel 1845 col suo amico Sebastiano Wisse intraprese un viaggio scientifico nell’interno dei vulcani Pichincha e Sangay: la spedizione, secondo l’espressione del suo biografo padre Berthe, «forse più avventurosa cui uomo si sia mai arrischiato per amore della scienza»[5]. I risultati di questa esplorazione furono presentati all’Accademia delle Scienze di Parigi ed ampiamente descritti dal celebre naturalista Alexander von Humboldt[6].
Continua
[1] La Civiltà Cattolica, fasc. 632 (1876), p. 148.
[2] A. Berthe, Garcia Moreno, Roma 1940, p. 206.
[3] La Civiltà Cattolica, fasc. 609 (1875), p. 261.
[4] Diceva il beato Pio IX sull’opera di Garcia Moreno nel 1871: «Infatti senza un intervento tutto speciale di Dio, non si potrebbe comprendere come in sì breve tempo abbiate potuto ristabilire la pace, pagare parte notevole del debito pubblico, raddoppiato le rendite, soppresso le imposte vessatorie, restaurato l’insegnamento, aperto strade, creato ospizi, ospedali», A. Berthe, op. cit., p. 621.
[5] Ivi, p. 104.
[6] A. von Humboldt, Kleiner Schriften, Stuttgart 1853, pp. 77-85.