Il Sacerdote è lo stesso, la Vittima la stessa. Il Sacrificio della Santa Messa è lo stesso Sacrificio del Calvario: questa incruenta, quello cruento... ogni gesto, ogni parola, celano la Passione di Lui...
Preso il pane fra le mani, Gesù disse: «Questo è il mio corpo, il quale sarà consegnato a voi», cioè messo a morte. Levato poi il calice del vino, disse: «Questo è il mio sangue del nuovo testamento, che sarà sparso per molti in remissione dei peccati». Sicché, nel simbolo incruento della spartizione del Sangue dal Corpo, mediante la consacrazione separata del Pane e del Vino, Cristo, al cospetto di Dio e degli uomini, s’impegnò a morire, e configurò la sua Morte, che sarebbe avvenuta alle tre del pomeriggio seguente.
Egli si offriva come una Vittima da immolare, e, affinché gli uomini non dimenticassero mai che “nessuno ha un amore più grande di questo, di uno che dia la vita per i suoi amici”, diede alla Chiesa il Comandamento divino: «Fate questo in memoria di me».
Il giorno dopo, quel che aveva prefigurato e simboleggiato venne da Lui tradotto in realtà, allorché fu crocifisso tra due ladri e il suo Sangue sgocciolò dal suo Corpo per la redenzione del mondo.
Cristo non offrì due sacrifici distinti e completi, uno nel Cenacolo, l’altro sul Calvario. La Cena e la Croce costituirono un unico completo sacrificio.
«In codesto Sacrificio Divino che si svolge durante la Messa, è compreso e immolato, in modo incruento, lo stesso Cristo che altra volta si è offerto per tutti, e in modo cruento, sulla Croce... È sempre la medesima Vittima, e sempre lo stesso Sommo Sacerdote, che oggi ha compiuto l’offerta attraverso il ministero dei suoi sacerdoti, dopo aver offerto, ieri, se stesso sulla Croce: solo che il modo dell’oblazione è diverso» (Concilio di Trento, Sessione 22).
L’importante, quindi, è assumere nei confronti della Messa il debito atteggiamento mentale, e ricordare questa realtà essenziale: che il Sacrificio della Messa non è qualche cosa che sia avvenuta millenovecento anni fa: sta avvenendo tuttora. Non appartiene al passato, come la firma della Dichiarazione d’Indipendenza: è un dramma perpetuo, sul quale il sipario non è ancora calato. Non è da credere che sia avvenuto molto tempo fa e che, pertanto, non ci riguardi più di qualsiasi altra cosa già trascorsa: il Calvario appartiene a tutti i tempi e a tutti i luoghi.
Il Confiteor | «Padre, perdona loro, perché non sanno quel che fanno» (Lc 23,34)
La Messa ha inizio col Confiteor. Il Confiteor è una preghiera nella quale noi confessiamo i nostri peccati e chiediamo alla Madre Benedetta e ai Santi d’intercedere presso Dio per il nostro perdono, giacché solo i puri di cuore possono vedere Dio. Anche il Nostro Signore Benedetto inizia la sua Messa col Confiteor. Ma il suo Confiteor differisce dai nostri in questo: che Egli non ha peccati da confessare. Egli è Dio e quindi è senza peccato: «Chi di voi mi convincerà di peccato?». Il suo Confiteor non può pertanto essere una preghiera in cui s’implori il perdono dei suoi peccati: sebbene può essere una preghiera in cui s’implora il perdono dei nostri peccati.
Altri avrebbe urlato, imprecato, bestemmiato, nel sentirsi trafiggere mani e piedi: nessuno spirito di vendetta alberga nel Cuore del Salvatore, nessun appello parte dalle sue labbra per la punizione dei suoi assassini, Egli non pronunzia preghiera alcuna per trovare la forza di sopportare la sua sofferenza. L’amore incarnato dimentica le ingiurie, dimentica le sofferenze, e in quell’ora di assorta agonia rivela in certa misura l’altezza, la profondità e l’ampiezza dello stupendo amor di Dio, in quanto recita il suo Confiteor: «Padre, perdona loro, perché non sanno quel che fanno».
Egli non disse: «Perdonami», ma: «Perdona loro». Il momento della morte era certamente il più adatto a produrre la confessione dei peccati, perché nelle ultime, solenni ore la coscienza afferma la propria autorità; e, nondimeno, non un solo sospiro di penitenza fuggì dalle sue labbra. Egli si era associato ai peccatori, non mai al peccato. In morte come in vita, non ebbe mai coscienza d’esser venuto meno, neanche per una volta, al suo compito verso il Padre suo Celeste. E perché? Perché un uomo senza peccato non è soltanto un uomo: è più d’un uomo. Noi ricaviamo le nostre preghiere dalle profondità della nostra consapevolezza di peccatori: Egli ricavò il suo silenzio dalla sua intrinseca innocenza. La sola parola «Perdona» basta a provare che Egli è il Figlio di Dio.
Si osservi il motivo in base al quale Egli chiese al Padre suo celeste di perdonarci: «Perché non sanno quel che fanno». Quando qualcuno c’insulta, o ci biasima ingiustamente, noi diciamo: «Avrebbe dovuto informarsi meglio». Ma quando pecchiamo contro Dio, Egli trova una giustificazione che ci valga il perdono: la nostra ignoranza.
[...] Quanto a noi, è diverso. Noi non scorgiamo le conseguenze delle nostre azioni con la stessa chiarezza con cui gli angeli scorsero le conseguenze delle loro: siamo più deboli, noi, siamo ignoranti. Ma se sapessimo che ogni peccato di orgoglio intesse una corona di spine per la testa di Cristo; se sapessimo che ogni contraddizione al suo divino Comandamento produce per Lui il segno della contraddizione, ossia la Croce; se sapessimo che ogni azione dettata dall’avidità e dall’avarizia inchioda le sue mani, e che ogni incursione negli oscuri meandri del peccato trafigge i suoi piedi; se sapessimo quanto è buono Dio e seguitassimo, tuttavia, a peccare, non potremmo mai essere salvati. È soltanto la nostra ignoranza dell’infinito amore del Sacro Cuore a condurci entro la cerchia di coloro che odono il suo Confiteor dalla Croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quel che fanno».
Queste parole, e che ciò s’incida profondamente nelle nostre anime, non costituiscono una scusa per continuare a peccare, bensì un motivo di contrizione e di penitenza. Il perdono non nega il peccato. Nostro Signore non nega la tremenda realtà del peccato [...].
In altre parole, il mondo moderno nega il peccato. Nostro Signore ci rammenta che esso è la più atroce di tutte le realtà [...].
Egli che amò gli uomini fin in punto di morte, permise al peccato di sfogare la sua vendetta su di Lui, ond’essi potessero, una volta per sempre, intenderne l’errore che si esprimeva nella crocifissione di Lui che li aveva, più d’ogni altro, amati.
Qui il peccato non viene negato, ma, per quanto orrendo sia, la Vittima perdona. In quella sola e medesima occasione, c’è il segno della più assoluta depravazione e il sigillo del perdono Divino. Da allora in poi, nessun uomo può guardare un crocifisso e dire che il peccato non è da prendersi in considerazione, né può dire che il peccato non può essere perdonato. In quanto soffrì, Egli rivelò la realtà del peccato; in quanto lo assunse, dimostra la sua misericordia verso i peccatori.
Chi perdona è appunto la Vittima che ha sofferto: e in codesta combinazione di una Vittima così umanamente bella, così divinamente amorevole, così assolutamente innocente, troviamo un Grande Crimine e un ancor più Grande Perdono. I peggiori peccatori possono rifugiarsi sotto la protezione del Sangue di Cristo, perché questo Sangue ha il potere di deviare le acque della vendetta che minacciano di sommergere il mondo.
[...] Il Confiteor è, ai piedi dell’altare, il nostro grido d’indegnità: il Confiteor pronunziato dalla Croce è la nostra speranza di perdono e di assoluzione. Terribili furono le ferite inferte al Salvatore, ma la ferita peggiore sarebbe quella di dimenticare che siamo stati noi a produrgliele. Dal che può salvarci il Confiteor, perché in tal modo ammettiamo di aver qualcosa da farci perdonare – e più di quanto non sapremo mai.
L’Offertorio | «Ti dico in verità: oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43)
Questo è adesso l’Offertorio della Messa, perché Nostro Signore offre se stesso al Padre suo Celeste. Ma per ricordarci che non si offre da solo, sebbene unitamente a noi, Egli unisce a sé, col suo Offertorio, l’anima del ladrone di destra. Perché più completa fosse la sua ignominia, lo avevano, con sottile malizia, crocifisso tra due ladri. In vita, aveva camminato fra i peccatori, sicché adesso, in morte, lasciavano che pendesse tra essi. Senonché, Egli mutò la scena, facendo dei due ladri i simboli delle pecore e dei capri, che si terranno alla sua destra e alla sua sinistra quando, di fra le nuvole del cielo, con la sua Croce allora trionfante, Egli verrà a giudicare e i vivi e i morti.
Entrambi i ladri, dapprima, ingiuriarono e bestemmiarono, fin quando uno di loro, che la Tradizione chiama Disma, volse il capo e lesse sul viso del Salvatore crocifisso la mansuetudine e la dignità [...].
Mentre il ladro di sinistra diceva: «Se tu sei il Cristo, salva te stesso e noi», il ladro pentito lo riprese e disse: «Neppure tu temi Dio, tu che ti trovi qui a subire lo stesso supplizio? Per noi, esso è giustizia, perché noi riceviamo la pena dei nostri delitti, ma lui non ha fatto nulla di male». Questo stesso ladro invocò poi, non già di ottenere un posto fra i seggi dei potenti, ma soltanto di non essere dimenticato: «Signore, ricordati di me, quando sarai giunto nel tuo regno».
Tanta afflizione e tanta fede non devono rimanere senza ricompensa. Mentre il potere di Roma non era riuscito a farlo parlare, mentre i suoi amici credevano che tutto fosse perduto e i suoi nemici credevano che tutto fosse guadagnato, Nostro Signore ruppe il silenzio. Da accusato, divenne Giudice: da crocifisso, divenne il Divino Assessore delle anime, allorché al ladro pentito disse con voce squillante: «Oggi sarai con me in paradiso». Oggi: cioè quando hai recitato la tua prima ed ultima preghiera; oggi sarai con me: e dove sono io, ivi è il Paradiso.
Con queste parole Nostro Signore, che al Padre suo Celeste offriva se stesso sotto la specie della grande Ostia, unisce adesso a sé, sulla patena della Croce, la prima piccola ostia che sia mai stata offerta durante la Messa [...].
Sulla Croce, Nostro Signore non soffre da solo: soffre con noi. Ecco perché al suo Sacrificio unì il sacrificio del ladro. Appunto questo intende dire san Paolo quando afferma che noi dovremmo colmarci di quelle cose che mancano alle sofferenze di Cristo; il che non significa che, sulla Croce, Nostro Signore non soffrisse nella misura del possibile, bensì che il Cristo fisico e storico soffrì quanto gli era possibile soffrire nella sua natura umana, ma che il Cristo Mistico, ossia Cristo e noi, non ha sofferto nella misura in cui noi avremmo dovuto soffrire. Non tutti gli altri buoni ladroni registrati dalla storia del mondo hanno ancora ammesso i loro torti e invocato d’essere ricordati. Ora Nostro Signore è in Cielo, e quindi non può più soffrire nella sua natura umana, ma può soffrire ancora nelle nostre nature umane [...].
Come, quel giorno, il Nostro Signore Benedetto scelse il ladro quale piccola ostia del sacrificio, così oggi sceglie noi quali altre piccole ostie unite a Lui sulla patena dell’altare [...].
Noi siamo dunque presenti in ogni singola Messa sotto l’apparenza del pane e del vino, che rappresentano i simboli del nostro corpo e del nostro sangue. Non siamo spettatori passivi, come potremmo essere durante uno spettacolo teatrale, ma contribuiamo insieme con Cristo ad offrire la nostra Messa. Se c’è un’immagine capace di descrivere la nostra parte in codesto dramma, è questa: dinanzi a noi c’è una grande croce sulla quale è distesa la grande Ostia, Cristo; intorno, sul Colle del Calvario, ci sono le nostre piccole croci, sulle quali noi, le piccole ostie, dobbiamo essere offerti. Quando Nostro Signore va alla sua Croce, noi andiamo alle nostre piccole croci e ci offriamo unitamente a Lui, in incruenta oblazione, al Padre Celeste.
In quel momento adempiamo alla lettera i minimi particolari del comandamento del Salvatore: “Prendete ogni giorno la vostra croce e seguitemi”. Con queste parole Egli non chiede di fare nulla ch’Egli stesso non abbia già fatto. Né è valida scusa dire: «Sono una povera indegna ostia». Che tale era il ladro.
Si osservi che nell’anima di quel ladro si ebbero due atteggiamenti, che lo resero entrambi gradito a Nostro Signore. Il primo fu il riconoscere ch’egli aveva meritato quel che stava patendo, ma che l’innocente Cristo non meritava la sua Croce: in altre parole, egli si pentì. Il secondo fu la fede in Colui che gli uomini ricusavano ma che egli, il ladro, riconobbe nella sua essenza di Re dei re.
A quali condizioni diventiamo piccole ostie nel Sacrificio della Messa? Come può il nostro sacrificio diventare tutt’uno con quello di Cristo e a Lui gradito quanto quello del ladro? Soltanto riproducendo nelle nostre anime i due atteggiamenti dell’anima del ladro: pentimento e fede.
Prima di tutto, dobbiamo pentirci così come si pentì il ladro, e dire: «Merito il castigo per i peccati che ho commesso. Sento il bisogno di sacrificarmi». Alcuni di noi non sanno quanto siamo malvagi o ingrati nei confronti di Dio, che, se lo sapessimo, non ci dorremmo tanto delle contrarietà e dei dolori della vita. Le nostre coscienze sono simili a camere immerse nell’oscurità dalle quali la luce sia rimasta esclusa per molto tempo: tiriamo le tende, ed ecco, ci accorgiamo che tutti gli angoli che credevamo puliti sono polverosi.
[...] E, invece, quanto più ci pentiamo, tanto meno ci preoccupiamo di sottrarci alla nostra croce. Quanto più scorgiamo la nostra reale essenza, tanto più, col buon ladrone, diciamo: “Ho meritato questa croce”. Egli non volle scusarsi, non volle giustificare il suo peccato. Volle, anzi, essere una misera ostia sulla sua piccola croce: e ciò perché si era pentito. Né a noi è concesso altro modo di diventare, unitamente a Cristo, altrettante piccole ostie durante la Messa se non quello di far sanguinare i nostri cuori; perché se non ammettiamo di essere feriti come possiamo poi provare il bisogno di sanarci? Se non facciamo atto di contrizione per la parte da noi avuta nella Crocifissione, come possiamo mai chiedere che tale peccato ci venga perdonato?
La seconda condizione per diventare un’ostia durante l’Offertorio della Messa è la fede. Il ladro guardò sopra la testa del Nostro Signor Benedetto e vide una scritta che significava «Re». Strano re, invero! In luogo d’una corona aveva spine; invece della porpora regale, il suo stesso Sangue; invece d’un trono, una croce; invece di cortigiani, carnefici; invece d’una incoronazione, una crocifissione. E, nondimeno, sotto tutta quella scoria il ladro vide l’oro, e, fra tutte quelle bestemmie, pregò.
Così profonda era la sua fede che fu contento di rimanere in croce. Il ladro di sinistra chiedeva d’essere deposto, ma non così il ladro di destra. Perché? Perché quest’ultimo sapeva che ci sono mali maggiori delle crocifissioni, e un’altra Vita di là dalla croce. Aveva fede nell’Uomo sulla croce centrale il quale, se avesse voluto, avrebbe potuto mutare le spine in ghirlande e i chiodi in bottoni di rosa; ma aveva fede anche in un Regno di là dalla croce, sapendo che le sofferenze di questo mondo non son degne di essere paragonate alle gioie avvenire. Insieme col Salmista, la sua anima gridò: «Quand’anche camminassi in mezzo all’ombra della morte, non avrei paura di alcun male, perché tu sei con me».
[...] E così il buon ladrone: pur sapendo che Nostro Signore avrebbe potuto liberarlo, egli non chiese di essere deposto dalla croce perché neppure Nostro Signore ne discese, ad onta della sfida a Lui rivolta dalla plebaglia. Il ladro voleva, se possibile, essere una piccola ostia, proprio alla fine della Messa. Ciò non significava ch’egli non amasse la vita: l’amava quanto l’amiamo noi. Voleva la vita, e una vita lunga, e la trovò, che non c’è una vita più lunga della Vita Eterna. A ciascuno di noi, analogamente, è concesso di scoprire la Vita Eterna. Ma non c’è altro modo di penetrarla se non il pentimento e la fede che ci uniscono alla Grande Ostia: al Cristo Sacerdote e Vittima. Talché diventiamo ladri spirituali e, ancora una volta, rubiamo il Cielo.
Continua