MODELLI DI VITA
“Il mio delitto? La carità!”. Padre Girotti, martire a Dachau
dal Numero 11 del 16 marzo 2014
di Paolo Risso

Una vita di studio e di preghiera; un cuore pieno di carità. Poi le umiliazioni, le indicibili sofferenze del campo di concentramento, l’eroico sacrificio della vita.

Era in fiamme in quegli anni della “Grande Guerra”. Ad Alba (Cuneo), tra vicolo Rossetti e la piazza dallo stesso nome, c’era spesso un gruppo di ragazzi che giocavano rumorosi. Uno di loro – quello che sembrava il loro leader – si chiamava Giuseppe Girotti. Gli amici lo chiamavano Beppe, o anche semplicemente, in dialetto “Pinot”. Giocavano “da matti”, ma di tanto in tanto il Beppe alzava gli occhi e guardava la croce svettante sul campanile romanico del Duomo: là dentro, la presenza di Gesù lo attirava come una calamita.

“Beppe, il capo”

Presso l’altare del Duomo – il bel San Lorenzo di Alba – Beppe andava ogni mattina a servire la Santa Messa al suo parroco e ai sacerdoti che passavano a celebrare, anche prestissimo. A servire la Messa, portava anche i suoi piccoli amici, piccolo apostolo della Santa Messa, che lui sentiva come la realtà più bella e più sublime che ci sia.
Gli altri lo stimavano perché aveva un cuore buono ed era facile all’amicizia. Lui amava tutti, ma quando c’era da difendere i più deboli, come i suoi due fratellini Giovanni e Michele, sapeva “cazzottare” a dovere i compagni che facevano “i furbi”. Lo chiamavano “Beppe il capo”. Serviva la Messa anche al Vescovo, quando, attorniato dai canonici, “pontificava” in Duomo. Il Vescovo si chiamava mons. Francesco Re e dall’alto della sua statura, celebrati i “Sacri Riti”, si chinava a discorrere qualche minuto con quel ragazzino dagli occhi intelligenti e dal ciuffo sbarazzino sulla fronte.
Gli nacque in cuore un grande desiderio: “Voglio farmi prete”. Lo disse al parroco il quale gli promise un posto in Seminario. Ma il posto non veniva mai e lui cominciava a preoccuparsi, perché già aveva finito le elementari e non voleva perdere tempo.
Giuseppe Girotti era nato da umilissimi genitori ad Alba, il 19 luglio 1905, e ora a 13 anni voleva realizzare la sua vocazione. Un giorno, capitò ad Alba un Padre Domenicano a predicare in Duomo. Beppe ascoltò il bianco frate e volle parlargli. Gli aprì il cuore e gli disse il suo desiderio di diventare sacerdote. Il frate gli parlò chiaro: «Ma perché non vieni da noi?». Beppe gli rispose: «Ma io vengo subito, basta che mi lasci andare a dirlo alla mamma».
Il 5 gennaio 1919 entrò felice nel Collegio Domenicano di Chieri (Torino) per iniziare gli studi. Il 30 settembre 1922 vestiva il bianco abito di san Domenico: era diventato fra Giuseppe Girotti. Dopo il Noviziato a “La Quercia” (Viterbo), professava i santi Voti la prima volta il 15 ottobre 1923. Quindi gli studi filosofici e teologici nello Studentato di Chieri. Si rivelò intelligentissimo, sempre buono come un fratello, pronto a dare una mano a tutti con estrema generosità, allegro della gioia dei figli di Dio, devotissimo della Madonna e del suo Rosario.
Il 3 agosto 1930, padre Giuseppe era ordinato sacerdote a San Domenico di Chieri dal vescovo di Vigevano, il Domenicano mons. Scapardini. L’indomani, 4 agosto, festa di san Domenico, la prima Messa nel Duomo di Alba tra i genitori, parenti e amici: festa umile e grande.

Professore ed esegeta

I superiori lo mandarono a Roma a seguire corsi di Teologia all’Angelicum, l’Ateneo dei Domenicani. Aveva già conseguito a Santa Maria delle Rose, a Torino, il titolo di “Lettore” che lo abilitava a insegnare nelle scuole dell’Ordine. Il suo provinciale, padre Ibertis, lo mandò a Gerusalemme a frequentare l’école biblique, fondata e diretta da padre Marie-Joseph Lagrange, biblista insigne, coltissimo e santo.
Allievo prediletto dell’illustre Maestro, padre Beppe visse anni felici pieni di studi intensi e di preghiera estatica nei luoghi di Gesù. Nel 1934 era dottore in Scienze bibliche, come si diceva allora “prolita in Sacra Scrittura”. Immediatamente fu destinato a insegnare Teologia biblica nello “Studio” domenicano di Santa Maria delle Rose a Torino. I suoi 40 allievi avevano pochi anni meno di lui e lo amavano come un fratello maggiore «che – ricorda il padre Giacinto Bosco, suo allievo in quei tempi – non si dava mai pace finché non avesse fatto il possibile per aiutare chi lo cercava».
Seguirono nel 1936 la pubblicazione de I libri sapienziali da lui commentati, e, nel 1942, Isaia commentato da padre Giuseppe Girotti, dedicato alla Madonna il 20 giugno, a Torino, festa della Consolata. Era il primo saggio del grande Biblista, che sarebbe diventato, se la sua vita fosse stata un po’ più lunga.
Tra i lettori dei suoi libri – che confutavano pure le eresie moderniste, condannate da san Pio X, ma mai distrutte – un giovane vescovo, mons. Giuseppe Siri, che sarà arcivescovo di Genova e Cardinale, e citerà padre Girotti nel suo capolavoro Getsemani, scritto in difesa della Verità.
In quel periodo padre Girotti ebbe a soffrire fino ad essere allontanato dall’insegnamento e mandato nel convento di San Domenico a Torino. Padre Giuseppe “non aprì bocca”, simile al Servo di Jahvè, del capitolo 53 di Isaia, che lui aveva commentato con accenti commossi, con l’impegno di imitare Lui, Gesù, appassionato e crocifisso. Quando il padre Cordovani, “teologo di Pio XII”, da Roma seppe il torto che gli era stato fatto, commentò: «Queste sono le prove che formano i santi».
Dottissimo e poliglotta, esperto di latino e greco con cui pure parlava e componeva deliziosi carmi, aveva il cuore semplice e buono di un bambino e andava ogni giorno a esercitare il suo ministero sacerdotale tra i poveri e i vecchi dell’Ospizio davanti al suo convento, parlando e confessando in dialetto. Ciò che contava per lui era amare come Gesù e far amare Lui. Senza arrendersi per le incomprensioni, si accingeva a commentare Geremia e a pubblicare studi sul monachesimo.
Non rimase però a lungo senza cattedra. Fu chiamato a insegnare Sacra Scrittura all’Istituto dei Missionari dalla Consolata: tanta gioia nel cuore tra i suoi chierici, futuri apostoli del Vangelo in Africa e ai popoli pagani.

Fratello... immolato

Era scoppiata la Seconda Guerra Mondiale. Gli ebrei erano perseguitati, specialmente dopo l’8 settembre 1943. Padre Giuseppe, come moltissimi altri preti e religiosi, obbedienti alla voce di Pio XII, rimasto l’unico difensore degli uomini più soli, in primo luogo, proprio degli ebrei, si buttò nella carità a servizio dei fratelli più abbandonati. «Tutto quello che faccio – si scusò con il suo priore – è solo per la carità».
Sapeva di rischiare molto, anche la vita, ma in lui, come nei santi, «la carità di Cristo ci spinge» al di là di ogni paura. Il 29 agosto 1944, padre Girotti venne arrestato dai tedeschi. Iniziava la sua terribile “via Crucis”: le “carceri nuove” a Torino, San Vittore a Milano, campo di concentramento a Bolzano. Poi sul carro bestiame, destinazione Dachau. Era la prima domenica di ottobre, festa della Madonna del Rosario. A don Dalmasso, suo giovane compagno di prigionia, disse: «Oggi diremo tanti Rosari. Io, da buon domenicano, devo rosariare con solennità».
Il 9 ottobre 1944, sotto una pioggia fine e gelida, padre Girotti e altri preti deportati si avviavano a patire e a morire a Dachau. Il loro delitto era stato “la carità”. Pochi ritorneranno a casa. Unica certezza: condividere nel dolore e nella pace, nell’offerta, il mistero della Passione e Morte di Gesù, sotto lo sguardo dolce e consolante di Maria, la Madre dolorosa del Calvario.
Nell’ambiente orribile, si doveva solo lavorare in modo disumano e subire le umiliazioni più atroci. Padre Giuseppe, dimentico di sé, testimoniava l’amore di Gesù e lo donava a piene mani. Sempre disponibile ad ascoltare, a incoraggiare, ad assolvere, si privava della sua piccola porzione di cibo per soccorrere i più bisognosi, i più giovani.
Da qualche tempo i preti deportati, alle 4 del mattino, a piedi scalzi si radunavano in uno stanzone, adibito a cappella, dove uno celebrava la Messa per tutti, e gli altri ricevevano la Comunione. Con Gesù Eucaristico, padre Giuseppe era sereno e forte, persino lieto. Sapeva di andare incontro alla morte, ma sorrideva e pregava di continuo. Nel gelo mortale dell’inverno di Dachau, egli sapeva che non ce l’avrebbe fatta a resistere: «Dobbiamo prepararci a morire – diceva ogni tanto –, ma serenamente, con le lampade accese e la letizia dei santi».
Il Natale del 1944 fu quasi bello, come poteva esserlo in un lager. Padre Giuseppe tenne due conferenze sulle virtù teologali e un mese dopo, il 21 gennaio 1945, nell’Ottavario per l’unità dei cristiani, pronunciò un discorso altissimo in latino, un invito forte ai separati a tornare all’ovile della Chiesa Cattolica, ai cattolici a vivere sino in fondo la Verità che posseggono.
Ora nel lager infuriava il tifo. Pulci, pidocchi, sporcizia e crudeltà. Ridotto a scheletro vivente, lo si vedeva con il Rosario tra le mani, segno di speranza. Il 19 marzo celebrò l’ultima volta la festa del Santo che tanto amava: san Giuseppe, sposo verginale di Maria e padre putativo di Gesù, del quale si proponeva, se fosse scampato, di scrivere “una vita popolare, avvalorata da una fedele ricostruzione storica”.
Non si reggeva più e lo portarono in infermeria, dove si andava per morire. Qualcuno come Edmond Michelet, un illustre deportato francese, che diventerà ministro con il generale De Gaulle, riuscì a portargli spesso la Comunione e dirà di lui: «Giovane domenicano dalla figura angelica che con i suoi grandi occhi neri invocava Gesù-Viatico per la vita eterna».
Il 1° aprile 1945, era Pasqua di Risurrezione. Si sparse la voce nel lager che padre Giuseppe era morto quella mattina – si disse – finito con una iniezione di benzina: una morte simile a quella di san Massimiliano Maria Kolbe e del beato Tito Brandsma. Aveva 39 anni. Al fondo del suo giaciglio rimasto vuoto, una mano amica scrisse: «San Giuseppe Girotti».
Nel 1986, invitato dalla postulazione, scrissi la sua prima biografia completa , allegata alla sua Causa di beatificazione iniziata nella diocesi di Torino, nella primavera del 1988. Nel 1992 redassi la documentazione sul martirio di padre Giuseppe Girotti, imprigionato, deportato e “finito” in odio a Cristo, in odio alla carità del Cristo, la “causa” già giunta a Roma dal 1990, proseguì come causa di un martire e non solo confessore della Fede. Allo scrivente, la biografia di padre Girotti ha portato il dono di una grande amicizia, quella raccomandata da san Francesco di Sales per sostenerci nella Fede cattolica, soprattutto nei tempi oscuri di oggi, pieni di confusione e di apostasia. Grazie, padre Beppe, per quanto e chi mi hai donato!
Il 26 aprile 2014, padre Giuseppe Girotti viene beatificato come apostolo e martire della carità, nel Duomo di Alba, dove lui ragazzo servì e, sacerdote esemplare, celebrò il Santo Sacrificio della Messa, configurandosi, fin da allora, al Servo Sofferente di Jahvè, Gesù immolato per la Salvezza del mondo.

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