Siamo giunti quasi alla fine del nostro percorso di Avvento francescano guidati dal pastorello Tommasino. Abbiamo visto l’importanza della virtù della semplicità e dell’amabilità per la spiritualità francescana; abbiamo ricevuto anche noi da Gesù Bambino queste due perle e siamo pronti ora ad annunciarle al mondo con il nostro esempio. Manca però ancora qualcosa: l’ultima perla che Gesù Bambino ha donato al suo pastorello, cioè la perla dell’abbandono.
Nel divino Infante noi vediamo prima di tutto il Figlio di Dio che si presenta totalmente docile, sottomesso e abbandonato al Padre. È caratteristica propria dell’infanzia quella di dipendere in tutto e per tutto dai genitori: il bambino, a partire da quando si trova nel grembo materno, è affidato totalmente alle cure dei genitori; una volta cresciuto è comunque dipendente, in quanto apprende da loro (o dovrebbe apprendere) tutto, sia in ambito religioso che in ambito materiale.
Nelle mani di questo Bambino Dio ha posto l’universo: le schiere angeliche, le creature celesti e terrestri lo servono, eppure – umanamente parlando – Gesù è solo un bambino, che ispira tenerezza e non si fa vincere in amore, Egli da sé non ha pensiero, movimento o vita, ma vive per mezzo del Padre.
Lo spirito francescano si fonda sommamente sull’abbandono filiale di Gesù nelle braccia del Padre: il Serafico Padre e tutti i suoi figli sono consapevoli di essere piccole creature nelle mani di Dio, di essere deboli e di non poter fare niente senza la sua grazia. San Francesco, mettendo in pratica alla lettera il Vangelo, comprese molto bene tutto ciò, e si rese conto che l’uomo si deve rivolgere a Dio non solo come creatura, ma come figlio, sempre bambino, anche se adulto di età. Quando il Santo, nel 1206, davanti al vescovo di Assisi si spogliò degli abiti restituendoli al padre, disse: «Fino ad ora ho chiamato mio padre Pietro di Bernardone; ma poiché ho fatto proposito di servire a Dio, gli rendo la pecunia e tutti li vestimenti... volendo da qui innanzi dire: Padre nostro che sei nei cieli». Divinamente ispirato, san Francesco ricorda a tutto il popolo lì presente che prima di tutto noi siamo figli di Dio; da quel momento egli non ebbe per padre che Dio e per madre la Chiesa. L’anima spiritualmente abbandonata, infatti, riconosce la sua figliolanza spirituale con il Padre celeste e, anche nelle difficoltà e nelle persecuzioni interiori o esteriori, non si turba, non si angoscia, ma rimane serena e abbandonata interamente a Dio. Dio è nostro Padre, l’Immacolata è nostra Madre, come quindi può accaderci qualcosa di male? Ogni evento è guidato dalla divina Provvidenza e anche ciò che umanamente può apparirci negativo, in realtà agli occhi di Dio viene disposto per il nostro bene. Lo spirito di san Francesco è ripieno di quest’abbandono fiducioso: egli comprende la volontà di Dio su di lui e la abbraccia totalmente, senza chiedersi: «Come farò? Chi mi dirà come vivere? Dove andrò?». Egli non immagina minimamente di essere un Fondatore e né pensa alla schiera di anime che avrebbe preso esempio da lui. Il suo primo compagno, Bernardo, lo segue spontaneamente ed egli lo accetta solo dopo aver consultato il Vangelo.
L’abbandono è come un’armatura spirituale invincibile per tutti i figli di san Francesco, è la corazza di luce che li protegge da ogni avversità. Come non vedere questa virtù risplendere in massimo grado nella vita di sant’Elisabetta d’Ungheria? Ella, figlia del re d’Ungheria, entrata nel Terz’Ordine Francescano, fu scacciata barbaramente dalla corte con i suoi figli piccoli. Un bando vietava ai sudditi di accoglierla e la povera regina non aveva alcun posto dove andare. Trovò rifugio in una stalla e, per ringraziare Dio che le aveva donato la sua povertà, in una chiesa dei Frati Minori lì vicino intonò il Te Deum.
L’anima francescana non conosce turbamento o angoscia: si sente sicura nelle mani di Dio, perciò non fa molti progetti per l’avvenire perché lascia al Padre disporre ciò che Egli riterrà opportuno. Ce lo immaginiamo Gesù Bambino nella mangiatoia che inizia a pensare o a preoccuparsi: «Che cosa farò ora? Come posso coprirmi meglio dal freddo? Avrò un giorno una casa? Come potrò adempiere la missione del Padre se non ho neanche da mangiare...?». Nulla di tutto questo chiaramente. L’anima serafica è come un’aquila librata in Dio che vive solo di Lui e in Lui. Anche se un giorno non avrà più nulla, se perderà ogni cosa, casa, affetti, salute ecc... non si dispererà mai, non si farà travolgere dalle tempeste della vita ma, come ha fatto Gesù in tutta la sua vita, dirà sempre: «Ecco, io vengo. Sul rotolo del libro di me è scritto che io faccia il tuo volere» (Sal 39,8-9).