Don Bosco viene ricordato anche per il suo metodo pedagogico, definito “preventivo”, ovvero un metodo che mira ad evitare gli errori comportamentali piuttosto che a curarli. Esso si contrappone ad altri metodi, rivelatisi privi del giusto equilibrio.
Il 31 di gennaio ricorre la memoria liturgica di san Giovanni Bosco (1815-1888). Cogliamo dunque l’occasione per riflettere, in questi malaugurati tempi di trascuratezza – per usare un eufemismo – sull’educazione della gioventù, e per comprendere il peso della pedagogia negativa, sempre più distante dai valori fondativi di una formazione equilibrata e stabile delle creature umane. La vincente e salutare pedagogia preventiva di don Bosco, fondata su tre colonne – ragione, religione e amorevolezza – è stata sostituita, perlopiù, dai sistemi rivoluzionari inaugurati da Maria Montessori (1870-1952) da un lato, e da don Lorenzo Milani (1923-1967) dall’altro, la cui amalgama si è trasformata in una caotica e deleteria cultura della diseducazione, priva dei connotati autorevoli della sana gerarchia dei ruoli: il maestro zelante (non l’amico) e l’allievo (fatto di anima e di corpo).
Come già accennato, il metodo preventivo della vincente pedagogia di don Bosco era fondato su tre colonne: la ragione, la religione, l’amorevolezza. La ragione era basata sul diritto naturale e sul diritto divino e, dunque, ricca di buon senso, di armonia e di ferma consapevolezza del creato e della sfera trascendente; la religione era cattolica, unita, quindi, alle verità evangeliche, trasmesse da Santa Madre Chiesa, senza contaminazioni ateiste, liberali, massoniche, socialiste, relativiste... L’amorevolezza che il fondatore dei Salesiani esigeva dai suoi educatori era determinante per capire al meglio l’alunno, quanto quest’ultimo, come persona fatta di anima e di corpo, fosse importante per Dio e, dunque, per la missione educativa dell’insegnante.
San Giovanni Bosco desiderava il bene totale dei suoi ragazzi, destinati alla salvezza eterna grazie al Sacrificio in Croce di Nostro Signore Gesù Cristo e per questo voleva liberarli dai peccati. Non c’era competizione con il mondo né lotta di classe nella metodologia preventiva, che, dunque, non provocava stati di odio, invidie, rancori, ma soltanto solida preparazione spirituale e istruttiva per permettere ai giovani di diventare «buoni cristiani e buoni cittadini» – sintesi mirabile dell’essere persona, rispettata e stimata – qualsiasi mestiere avrebbero poi esercitato.
La gioventù, emigrata nell’Ottocento dalle campagne in cerca di fortuna a Torino, era per la maggior parte in balia della strada e della delinquenza. Fu così che il sacerdote piemontese ne salvò a migliaia, presentando loro la “Via, la Verità, la Vita” di Cristo; preparandoli a vivere nel mondo istruiti e professionalmente competenti; consegnando loro le armi della preghiera e dei sacramenti. La moltitudine dei suoi figli, sia sacerdoti che laici, diedero così nel mondo intero la possibilità di costruire, generazione dopo generazione, innumerevoli famiglie cattoliche.
Scrisse l’Autore ne Il sistema preventivo nella educazione della gioventù, testo fondamentale per gli educatori salesiani, pubblicato per la prima volta nell’agosto 1877: «Esso [il sistema preventivo] consiste nel far conoscere le prescrizioni e i regolamenti di un Istituto e poi sorvegliare in guisa che gli allievi abbiano sempre sopra di loro l’occhio vigile del direttore o degli assistenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida ad ogni evento, diano consigli e amorevolmente correggano, che è quanto dire: mettere gli allievi nella impossibilità di commettere mancanze [...]. Il sistema preventivo rende avvisato l’allievo in modo che l’educatore potrà parlare con il linguaggio del cuore sia nel periodo dell’educazione, sia dopo di essa. L’educatore, guadagnato il cuore del suo protetto, potrà esercitare sopra di lui un grande impero, avvisarlo, consigliarlo, e anche correggerlo allora eziandio che si troverà negli impieghi, negli uffici civili e nel commercio».
Ben diverso il pensiero massonico, laico e femminista della Montessori, che percepisce l’educazione come libera spontaneità del bambino, concepito come un agente dell’evoluzione cosmica dell’umanità, e non come fragile creatura di Dio, limitata dopo il peccato originale e, dunque, sempre in lotta, dentro e fuori di sé, fra ciò che è bene e ciò che è male. La pedagogia montessoriana si prefigge di stimolare l’energia del minore, considerata particella del fuoco della vita universale, idee acquisite quando Maria Montessori aderì al femminismo e all’esoterismo della “Theosophical Society”, fondata da Helena Blavatsky (1831-1891), filosofa, teosofa, saggista occultista e medium russa, naturalizzata statunitense, e dal colonnello Henry Steel Olcott (1832-1907).
Don Lorenzo Milani, che si può ascrivere a buon diritto nell’alveo della teologia della liberazione, forgiò una pedagogia di carattere squisitamente socio-politico. Le sue polemiche inerenti alla lotta di classe, di impostazione marxiana, diedero vita a un sistema incentrato sulla cosiddetta “presa di coscienza” da parte dei ragazzi della loro disagiata condizione proletaria. I suoi giovani dovevano vivere a scuola 365 giorni all’anno: erano bandite le ricreazioni – tanto care a don Bosco e tanto proficue per la proverbiale gioia dei suoi ragazzi – e persino l’attività fisica perché non dovevano distrarsi dalle attività intellettive, le uniche a poterli salvare dalla loro vessata condizione. E dalle aule, dove si indottrinavano le fresche menti, si parlava in circolo ed erano assolutamente prive di immagini sacre, perché la fede era una questione di “cuore”, come per l’abate Ferrante Aporti (1791-1858), falsamente proclamato fondatore degli asili in Italia mentre in realtà a fondarli fu il cattolico Marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo (1782-1838). Don Milani era disposto, come provano le testimonianze, a umiliare pubblicamente coloro che non pensavano esclusivamente a formarsi per poter competere con le forze del potere. Gli studenti non erano da Milani considerati degli scolari, bensì dei pari agli altri e, dunque, dovevano confrontarsi con gli intellettuali. Non a caso la concezione milaniana verrà presa a modello dal pensiero sessantottino: ogni settimana il prete classista invitava a tenere conferenze oratori come i magistrati Gian Paolo Meucci e Marco Ramat, il direttore del Giornale del mattino Ettore Bernabei, lo storico Gaetano Arfé. Era necessaria, perciò, un’educazione finalizzata a trasmettere gli strumenti per sovvertire il modello dei valori tradizionali in vista di un’emancipazione incisiva nella società italiana in sviluppo. Il suo libro Esperienze Pastorali, inizialmente dotato dell’imprimatur ecclesiastico, fu oggetto di un decreto del Sant’Uffizio del 1958 contenente la proibizione di stampa e di diffusione, direttive che decaddero solo nel 2014. Il testo, spalleggiato all’epoca da Giorgio La Pira (1904-1977) e da don Primo Mazzolari (1890-1959), venne con decisione contrastato da La Civiltà Cattolica (20 settembre 1958), dove il gesuita Angelo Perego commentò in termini negativi l’opera, ritenuta carica di ossessioni e di contraddizioni.
Le testate giornalistiche laiche di quel tempo vedevano di buon occhio le proposte di don Milani e ne presero a parlare in lungo e largo sulle loro colonne. Don Milani disseminava malessere e turbamenti, senza contare che ebbe deleteri rapporti con i suoi studenti (lui stesso denunciò di provare attrazione fisica nei loro confronti) e scrisse di aver tolto la pace, di aver portato contrasti, dissapori e “zizzania”. Il maestro della famosa scuola di Barbiana, che divenne punto di riferimento della Rivoluzione culturale sessantottina, nemica di tutto ciò che era tradizione, delle gerarchie, dei doveri di stato, dei valori cattolici, e che abbracciò mortalmente la libertà di impronta illuminista, rivoluzionaria e secolarizzatrice, è totalmente all’opposto di ciò che beneficamente ha rappresentato, in ogni continente, il santo missionario e mistico Giovanni Bosco, protetto di Maria Ausiliatrice, per la quale fece erigere il magnifico Santuario di Valdocco.