«Ogni volta che ci penso, ogni volta che torno con la memoria a quel lontano 23 settembre 1968, mi commuovo. È passato tanto tempo, eppure è tutto così vivido dentro di me. Sento ancora sotto le dita il saio di padre Pio, il suo peso tra le mie braccia mentre lo sostenevo e gli somministravo l’ossigeno. Mi pare di sentire ancora le sue ultime parole. Sono cose impossibili da dimenticare».
A parlare è il dottor Giovanni Scarale, 84 anni, l’unico testimone vivente della morte di padre Pio. «Lo conoscevo da quando ero un bambino e una volta diventato medico ero entrato a lavorare nell’ospedale che lui aveva fondato, la Casa Sollievo della Sofferenza», prosegue. «La notte in cui morì, ero l’unico anestesista rianimatore disponibile. Mi chiamarono nella sua cella e rimasi con lui fino all’ultimo istante».
Il dottor Scarale è originario di San Giovanni Rotondo e da ragazzino frequentava il convento dei cappuccini. «Ricordo che al convento c’era un circolo giovanile e ogni tanto padre Pio veniva a trovarci. Ci sorrideva, ci dava la sua benedizione. Era molto paterno, si informava su quello che ci piaceva fare, sulla nostra famiglia. Però ricordo che il suo sguardo ci metteva un po’ di paura. Era profondo, magnetico, sembrava potesse farti la radiografia. Era uno sguardo che diceva: “Non dire bugie perché io so già tutto”.
Ho sempre lavorato in Casa Sollievo della Sofferenza. Mi sono laureato nel 1960 e nel ’62 venni assunto nell’ospedale di padre Pio come medico di guardia. In seguito mi specializzai in cardiologia e quindi in anestesia e rianimazione. Era un periodo bellissimo. A quei tempi, noi medici dell’ospedale eravamo soltanto in diciotto. Ricordo che andavamo spesso, nelle pause, a trovare Padre Pio al convento. Lui ci accoglieva sulla verandina che stava al primo piano. Si interessava dei pazienti e voleva sapere come stavano, se miglioravano ma soprattutto se venivano accuditi con amore. Gli chiedevano una benedizione ed erano soprattutto i chirurghi a chiedergli una preghiera speciale in vista delle operazioni che dovevano svolgere. Lui ascoltava tutti. Ai medici più giovani suggeriva: “Dovete mangiare. E bere ‘lu vino buono’, che dovete crescere!”. Poi mi guardava e sorridendo mi diceva: “E tu, ‘addormentatore’, che mi dici?”. Io gli rispondevo: “Padre, ad addormentare i pazienti ci penso io ma a svegliarli ci dovete pensare voi!”. Il suo sguardo allora valeva mille risposte. Sapevo che vegliava sul nostro operato. Tutti noi eravamo tranquilli in sua presenza. Ci sentivamo amati e protetti. Avevamo la netta impressione che una cappa ci proteggesse, ci accorgevamo che un “qualcosa” di speciale ci era sempre accanto, specie appunto in sala operatoria.
La notte tra il 22 e il 23 settembre del ’68, in ospedale eravamo solo in due anestesisti rianimatori, ma il mio collega, il dottor Angelo Cavalluzzo, aveva avuto un piccolo incidente ed era ingessato. Così, quello a disposizione ero io. Verso le due ricevetti una telefonata. Era il dottor Sala, il medico curante di padre Pio. “Giovanni – mi disse –,
prendi l’occorrente e vieni subito al convento perché il Padre sta male. Ma sbrigati altrimenti rischi di non vederlo più in vita”.
Quelle parole mi raggelarono. Padre Pio aveva 81 anni e da tempo non stava bene. Ma tutti, non so come, avevamo l’idea fissa che potesse restare con noi per sempre. Per un istante rimasi senza parole, poi mi ripresi, chiesi a Sala di avvisare il direttore sanitario, saltai in macchina e andai in ospedale a prendere il necessario per un’eventuale intubazione. Mi ricordo bene che era una notte limpidissima. Guardai in su e vidi il cielo che era tutto una meravigliosa stellata. Corsi al convento e salii le scale verso la cella del Padre come volando. Lì trovai il dottor Sala e il frate guardiano, padre Carmelo. Mi fecero cenno di entrare. Padre Pio era seduto sulla sua poltrona. Era molto pallido, aveva i gomiti appoggiati sui braccioli e la testa china di lato. Nella mano destra teneva la corona del Rosario. Bisbigliava parole che in un primo momento non riuscii a capire ma poi, avvicinandomi, mi resi conto che ripeteva in continuazione: “Gesù, Maria. Gesù, Maria”.
Aveva il sondino nasale collegato ad una bombola di ossigeno poggiata a terra, accanto alla poltrona. Mi misi subito all’opera. Per prima cosa, gli tolsi il sondino, scollegai il tubo che aveva e agganciai il “va’ e vieni”, un apparecchietto che porta l’ossigeno al paziente attraverso una mascherina. Poi mi misi alle spalle del Padre e gli tenni la mascherina sul viso per farlo respirare. In genere, quando si compie una simile operazione su un paziente, questo cerca per riflesso di allontanare la maschera. Padre Pio invece non si mosse. Era come se fosse estraneo a tutto quello che gli stava accadendo. Io lo incitavo dolcemente dicendo: “Padre, respiri. Padre, respiri”. Intanto erano entrate anche altre persone e anche loro lo incoraggiavano a respirare. Come ho detto, ero alle sue spalle. Con la mano sinistra tenevo la mascherina sul suo viso e con la destra sentivo il polso sulla carotide. Nel frattempo, si avvicinò anche padre Paolo Covino e impartì l’estrema unzione. Non so dire quanto tempo durò l’assistenza. A pensarci, sembra un’eternità. Adesso che sto ricordando quei momenti, sento ancora l’emozione e anche la paura che avevo. Sì, ero molto spaventato ma nello stesso tempo freddo. Cercavo di compiere tutto con calma e decisione. Poi, all’improvviso, il polso carotideo scomparve. Allora, padre Pio adagiò lentamente la testa sul mio avambraccio sinistro. E morì».
A questo punto del racconto, la voce del dottor Scarale si incrina. Una lacrima scende sul suo viso. «Ci fu un attimo di agitazione – continua –. Arrivarono altri frati e si inginocchiarono a pregare. Io e gli altri medici presenti tentammo le solite manovre di rianimazione, ma ormai erano inutili. Allora, sollevammo il Padre e lo mettemmo sul letto. Eravamo tutti come svuotati, commossi, schiacciati da una immane tristezza. Ma dovemmo riprenderci in fretta perché c’erano moltissime cose da organizzare: bisognava avvisare la questura, il prefetto, preparare la salma, stabilire dove mettere la bara, capire come rendere pubblica la notizia. La gente infatti stava cominciando ad arrivare al convento perché padre Pio diceva la prima Messa alle cinque del mattino.
Quando poi arrivò la bara, lo adagiammo all’interno e ci caricammo la bara sulle spalle per portarla in chiesa. Però, il posto dove sistemarla non era ancora pronto e così momentaneamente la mettemmo in una stanzetta accanto alla sacrestia. E lì, lo confesso, non seppi resistere alla tentazione di “spiare” le stigmate. Padre Pio portava sempre i mezzi guanti e solo durante la Messa, quando li toglieva, si intravedevano le ferite. Ma ora, in quel momento, avevo l’occasione di vederle da vicino. Senza farmi vedere entrai nella stanza e mi chiusi dentro. Mi tremavano le mani dall’emozione mentre sfilavo i guanti. Gli tolsi anche le calze e infine guardai il costato, sollevando un lembo della veste. Delle stigmate però non c’era più alcuna traccia. Non solo, ma dove erano state presenti le ferite, la pelle era liscia, perfetta, senza nemmeno l’ombra di una cicatrice. Come ho detto, moltissime persone avevano visto le stigmate sulle mani del Padre durante la Messa e diversi medici le avevano potute esaminare da vicino. Ma ora, quei segni erano svaniti. Ero confuso. Ma in seguito, compresi la profondità di ciò che era accaduto e di cui ero stato testimone. Le stigmate infatti sono segni di sofferenza che vengono dati in vita e rimangono fino alla morte, momento in cui la sofferenza finisce. Mi resi conto che la loro scomparsa, così come la totale assenza di qualsiasi cicatrice, era un altro grande mistero».
di Roberto Allegri, Il Settimanale di Padre Pio, N. 35/2023