Con una bella immagine agreste potremmo paragonare la fede ad un maestoso albero di cui la speranza è il frutto più saporito. Infatti se la fede ci fa conoscere il vero valore dei beni celesti e dei beni terreni, la speranza ci spinge a desiderare il possesso dei primi, veri ed eterni, e a disprezzare i secondi, effimeri e passeggeri. La virtù teologale della speranza, quindi, pur non escludendo la ricerca dei beni terreni, accende nel cristiano il desiderio di Dio come supremo bene e fortifica l’attesa della beatitudine eterna e dei mezzi per conseguirla. E mentre chi pone la propria speranza nelle cose del mondo prima o poi sperimenterà il famoso detto popolare: “Chi di speranza vive disperato muore!”, chi spera in Dio, invece, non sarà mai deluso, perché in tal caso la speranza è certezza.
L’anima che vive di speranza, allora, pur usando di questo mondo non attaccherà ad esso il cuore e non troverà quiete fino a quando non sarà giunta a possedere Dio, oggetto delle sue brame. Ecco, allora, spiegata l’ansia dei santi, come san Francesco e santa Chiara d’Assisi, santa Veronica Giuliani, san Massimiliano M. Kolbe... e il nostro san Pio da Pietrelcina, i quali bruciavano dal desiderio di Dio, e sulle ali di questo desiderio, sorretti dalla grazia, hanno dato la scalata verso il Cielo, di tappa in tappa, dalla creatura al Creatore, fino all’amplesso beatificante del sommo Bene.
In una società come quella odierna tutta proiettata verso la materia, il piacere, il denaro, il successo, gli onori, ecc., tutte cose che non potendo dare all’uomo la vera e duratura felicità lo portano inesorabilmente verso il baratro della disperazione, San Pio da Pietrelcina si erge come luminoso modello di vera speranza, di quella speranza che fa alzare lo sguardo verso il Cielo, da dove solo può venire la consolazione. Chi ha conosciuto padre Pio può ben testimoniare che egli è vissuto con gli occhi sempre rivolti al Cielo e con un desiderio così forte del Paradiso che per quarant’anni fece la novena alla Madonna di Pompei perché gli concedesse la grazia di andarvi presto. La brama di Dio lo distaccò così totalmente dal mondo che nulla poteva turbarlo o distrarlo dall’amore di Dio.
La virtù della speranza lo portò a riporre tutta la sua fiducia nel suo Signore, da cui attendeva il “premio delle anime forti” e i mezzi per conseguirlo, e lo rese forte nelle tribolazioni che la vita gli riserbò e nelle quali conservò sempre una pace inalterabile, primizia di questa virtù. Cosa lo sostenne quando si ritennero le stigmate frutto di isterismo, quando si arrivò a sospettare della sua esattezza nell’amministrazione e destinazione delle offerte che riceveva, quando lo si accusò di essere turbatore della pace del convento per le manifestazioni di fanatismo che si creava intorno alla sua persona, quando s’intaccarono la sua moralità e il suo ministero accusandolo di aver introdotto di notte delle donne in convento e in chiesa, quando gli fu proibito di svolgere il suo ministero sacerdotale, quando gli fu tolta Casa Sollievo della Sofferenza, da lui creata? La speranza, sempre e soltanto la speranza poté dargli tanto coraggio da rimanere saldo come una roccia in mezzo a prove così terribili, tanto che padre Agostino scrisse di lui nel suo diario: «Vive di pura fede, è sostenuto dalla speranza, sente la fiamma della carità verso Dio e verso le anime». E Gesù stesso un giorno «con tonalità sì dolce, sì penetrante, sì autoritaria», precisa il Padre, rafforzò la sua speranza assicurandogli: «Quietati, non ti dimenare io sono con te», In tal modo gli insuccessi, le incomprensioni, le calunnie, le malattie, la stessa morte non gli facevano paura, non lo scoraggiavano ma accendevano ancor più nella sua anima il desiderio dell’eternità.
E tutto questo diventa ancor più strabiliante se si pensa che fu afflitto quasi di continuo da tentazioni contro la speranza. Il 20 aprile 1921 scriveva a padre Benedetto: «La tentazione assidua è la disperazione di dovere andar perduto e per sempre. Il non voler sperare mi spaventa e mi terrorizza» (Ep. I, p. 1222) e nel gennaio del 1922 riconfermava: «Non voglio disperarmi, perché non voglio far torto alla pietà divina» (Ep. I, p. 1255). In una lettera del 18 settembre 1915 a padre Agostino, scriveva: «La speranza e il silenzio saranno la fortezza mia» (Ep. I, p. 650) e veramente silenzio e speranza lo resero invincibile!
E a noi, che come deboli uccellini ci lasciamo spaventare dal più lieve venticello preferendo così rimanere attaccati al fango della terra piuttosto che volare in alto verso il cielo sereno, padre Pio conceda le potenti ali della speranza, «virtù sì necessaria per l’abbandono in Dio, specialmente quando il colmo della tempesta imperversa» (Ep. I, p. 1036).
di Suor M. Eucaristica Lopez, Il Settimanale di Padre Pio, N. 27/2023