Dovremmo considerarla una tragedia, quella accaduta di recente in Emilia-Romagna. Ma un piccolo segno si erge quale faro di speranza, per chi sa coglierlo...
Tonnellate e tonnellate di fango si sono riversate su persone, animali e cose e hanno sepolto tutto quanto la forza devastatrice della natura poteva travolgere quando si ribella all’uomo, mettendo a nudo tutta la sua impotenza.
La pioggia ha trasformato le strade in fiumi e i fiumi sono diventati corsi d’acqua impazziti che hanno abbattuto alcuni pilastri dei ponti, trascinato auto come barche e spazzato via steccati in legno, come farebbe una folle corsa di elefanti verso una meta ignota.
La tragedia che ha travolto l’Emilia-Romagna si è impressa nella mente di tutti. Video e foto raccapriccianti della regione ferita, ad alto rischio idrogeologico, hanno immortalato il disorientamento dei volti, la disperazione di alcuni, la paura, lo spettro della precarietà, la rabbia, il disagio di interi paesi senza acqua potabile, luce e gas.
Il bilancio del disastro, a pochi giorni dall’evento calamitoso, è stato subito di 15 vittime, alcuni dispersi, 25.000 sfollati, 42 comuni coinvolti, 22 fiumi esondati e altri 10 a rischio straripamento, più di 250 frane segnalate e 500 strade chiuse. E questo solo per fermarci ai primi dati. I danni per gli allevatori, l’agricoltura e per la filiera industriale che lavora alla trasformazione dei prodotti della terra di quelle zone sono ingenti. Se i terreni allagati non saranno prosciugati in tempi brevi, c’è il rischio che tutte le piantagioni esistenti dovranno essere divelte e ripiantate, con la conseguenza che i nuovi alberi cominceranno a dare frutti non prima di quattro anni. Poco più di 5.000 sono le aziende agricole danneggiate nella zona che per la sua economia copriva il 9% del Prodotto Interno Lordo dell’Italia; circa 15.000 saranno i lavoratori stagionali che resteranno senza lavoro. E poi ancora case, scuole e strade da ricostruire. Tutto fa rivivere l’amaro ricordo del terremoto che devastò l’Emilia nel 2012, ancora vivo specialmente nella mente delle 750.000 vite dei territori di Modena, Ferrara, Bologna e Reggio scompigliate da quel sisma.
Eppure, in mezzo a tanta desolazione, cogliamo un delicato segno di speranza nella zona Della Rotta, a Cà di Lugo, uno dei comuni di Ravenna colpiti dalla tracimazione delle acque. Un segno che potrebbe sembrare finanche puerile a coloro che non riescono a staccare gli occhi dal fango riversato su ogni cosa, addirittura insolente a quanti hanno perso familiari; ma chi sa che anche nelle sciagure possiamo, e direi dobbiamo, sollevare lo sguardo verso l’Alto, può cogliere in un piccolo segno una grande speranza. Non si tratta semplicemente di un meccanismo psicologico di compensazione, di un esagerato tentativo di ricerca di consolazione, frutto di una proiezione esterna dei nostri bisogni, ma della certezza di una realtà oggettiva, soprannaturale che ci sovrasta e, nonostante sia infinitamente immensa, ama manifestarsi in piccole cose, talmente piccole da sembrare quasi insignificanti. Ma questo vale solo per chi sa coglierle.
Si può affermare una cosa del genere quando la rovina ha messo in ginocchio interi paesi? Sì, si può, anzi bisogna farlo. Perché quando succedono queste cose non è certo per colpa di Dio. Non è Lui ad essere cattivo, ma è cattiva la gestione del nostro patrimonio comune, la nostra terra, la mancanza di interventi preventivi volti a tentare di evitare situazioni di emergenza. Non è certo colpa del clima, come vorrebbero farci credere per giustificare la politica ambientalista, ma la mancanza di interventi assennati quando si potevano e si dovevano fare.
Ebbene, in questa frazione di Cà di Lugo, vediamo una piccola edicola in mattoni rossi in cui è incavato uno spazio protetto da una piccola inferriata azzurra e un catenaccio, alla cui parete, che fa da sfondo, è attaccato un gesso che riproduce il volto della Madonna. Due piantine in plastica sembrano voler conferire una parvenza di decorazione e di rispetto, e un lumino pare dirci che Maria è luce e guida per noi comuni mortali e pertanto non saremo mai soli. Tutt’intorno una pianta rampicante con fiori bianchi, e in basso, sulla sinistra, due rose con sfumature di arancione più o meno carico. A 5 metri di distanza solo fango, legno accatastato in ricordo della violenta calamità, viti divelte dallo smottamento del terreno e ruspe che hanno appena terminato il lavoro di pulizia, per dare una parvenza di ripristino della vita quotidiana, come quelle donne che si truccano per coprire le occhiaie causate da una notte insonne.
Certo, da un punto di vista puramente umano, l’edicola sacra è il prodotto della devozione popolare di qualche fedele della zona e nulla più. Eppure, in mezzo a tali rovine, come un’isola che si erge, è molto più di un semplice atto di devozione. Essa sembra voler richiamare il cuore degli uomini alle realtà soprannaturali, alla fede in Dio; ci ricorda che la vita terrena è solo un passaggio per tutti e che non si esaurisce nella banalità dello scorrere del tempo, come se il ticchettio dell’orologio suonasse continuamente un canto funebre che ci ricorda che un futuro, prossimo o remoto, finirà tutto e noi non saremo più niente, o nient’altro che un cumulo di ossa scarnite.
Quell’edicola può essere molto di più di un’edicola, se sappiamo alzare lo sguardo dalle nostre miserie: essa ci richiama al vero senso della nostra esistenza e a riscoprire l’insostituibile valore della presenza di Dio.