ATTUALITÀ
Valditara, il ministro che piace ai conservatori
dal Numero 18 del 7 maggio 2023
di Riccardo Pedrizzi

Per le numerose iniziative che esaltano il merito, e per le sue proposte innovative che, tuttavia, si muovono nel solco della migliore tradizione della cultura del nostro paese, il ministro Valditara piace alla maggioranza degli italiani.

È sempre estremamente compassato nei modi ed elegante nel porsi, parla con toni bassi e utilizzando sempre la “consecutio temporum”. Quanta differenza con Luigi Di Maio e i ministri che abbiamo conosciuto negli ultimi tempi! Veste sobriamente, in maniera classica, ricorda il mio preside del liceo classico, che solo a incontrarlo nei corridoi ispirava rispetto e ti faceva respirare cultura e sapienza. Il ministro Giuseppe Valditara si comporta però come un centravanti di sfondamento, non si piega ai “valori” della modernità, accetta e lancia sfide, senza curarsi del risultato, ma solo se ritiene che sia giusto e nobile farlo. È lontano mille miglia dal pensiero unico e dal politicamente corretto. L’ultima sua “uscita” è stata il commento, con critica, alla lettera della preside antifascista del liceo “Leonardo da Vinci” di Firenze, Annalisa Savino, sul fascismo che sarebbe nato dalla violenza e dall’indifferenza, considerata un’iniziativa “strumentale”, espressione di «una politicizzazione che auspico che non abbia più posto nelle scuole», ha detto giustamente il ministro. Si tratta di una «lettera del tutto impropria», perché «non compete a una preside lanciare messaggi di questo tipo [...]. Se l’atteggiamento dovesse persistere vedremo se sarà necessario prendere misure». Le parole di Valditara hanno provocato, naturalmente – e ci mancava! –, una valanga di polemiche. Ad iniziare da quella del presidente dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani di Italia), Gianfranco Pagliarulo. Da qui minacce di morte al ministro a più non posso, che non hanno suscitato alcun segno di solidarietà, nemmeno formale, da parte della sinistra. 
Ma proprio per questo suo comportamento, se a distanza di mesi dalle ultime elezioni politiche, che hanno visto ampiamente vincente la coalizione di centro-destra, si tenesse un referendum o, come si usa ai nostri giorni, un sondaggio per sapere qual è il ministro che sta rappresentando meglio la voglia di cambiamento, dopo governi di sinistra o tecnocratici, e che più sta interpretando lo spirito “conservatore” della maggior parte degli italiani, certamente la risposta sarebbe una sola: il ministro della “pubblica istruzione e del merito”, Giuseppe Valditara.
Mai come nel suo caso si può affermare, infatti, che Giorgia Meloni ha fatto centro, scegliendo, anche su suggerimento di Matteo Salvini, l’uomo giusto per il posto giusto. 
Docente di diritto romano a Torino, il prof. Valditara è cresciuto alla scuola di Gianfranco Miglio, è stato senatore dal 2001 al 2013, eletto in AN. È stato uno degli interpreti del sogno gollista di Pinuccio Tatarella, ha scritto libri come Sovranismo. Una speranza per la democrazia. È stato, inoltre, capo dipartimento del Miur.
Se si tiene conto dello stato della nostra scuola, il suo compito non è dei più semplici, poiché viene dopo una stagione non troppo esaltante che ha visto a viale Trastevere personaggi che quantomeno per la loro “statura” hanno reso ridicolo quel dicastero che era stato guidato da personalità della cultura come Benedetto Croce e Giovanni Gentile, filosofi di respiro storico e internazionale; Antonio Segni, giurista di fama, docente presso università prestigiose, Magnifico Rettore a Sassari, tanto per citarne qualcuno. E poi Aldo Moro, anch’egli fine giurista e statista martire delle Br, Giuseppe Medici, illustre economista, titolare di cattedra di politica economica e finanziaria presso la facoltà di scienze politiche dell’università di Roma “La Sapienza” e presidente dell’Accademia Nazionale di Agricoltura.
Riccardo Misasi, docente di fama; Oscar Luigi Scalfaro, poi diventato presidente della Repubblica; Franco M. Malfatti, che fu anche presidente della Commissione europea; Giovanni Spadolini, studioso formatosi sulle riviste fasciste; l’attuale capo dello Stato Sergio Mattarella; il massimo linguista italiano Tullio De Mauro...
Poi i grillini portarono in quel tempio della nostra istruzione nazionale la “mitica” Lucia Azzolina, il ministro “dei banchi a rotelle”, come si faceva chiamare, o anche la “copiona”, diplomata al liceo scientifico “Leonardo Da Vinci” di Floridia (SR), che fa carriera nel sindacato della scuola.
Valditara, diciamo subito che è partito con il buon viatico, aggiungendo, d’intesa con il suo premier, al suo dicastero il termine “merito” (“ministro dell’istruzione e del merito”) che subito scatenò gli studenti nelle piazze. E non solo, ma anche una parte della sinistra più ottusa. Si pensava fino a poco tempo fa che fosse solamente la “filosofia politica” (si fa per dire “filosofia”) dei grillini a sostenere che “uno vale uno” e che la competenza, la preparazione, lo studio e il sapere non servissero per ricoprire ruoli di responsabilità. E così larghi settori della sinistra si sono indignati e hanno protestato perché alla intestazione del ministro dell’istruzione è stato aggiunto il termine “merito”. Si tratta evidentemente degli ultimi rigurgiti dell’aria avvelenata del ’68, di quel movimento cioè che introdusse il voto politico agli esami dei contestatori.
«La meritocrazia fu sciolta nell’acido del ’68 come un retaggio di una società classista, selettiva, reazionaria. La tesi di fondo era che il merito non risaliva a differenze naturali e a capacità differenti, ma era il frutto di condizioni economiche e sociali privilegiate e comunque segno di un divario sociale da rimuovere, che non considerava le problematiche psicologiche e sociologiche della società. Veniva così contestata la stessa Costituzione che riconosceva “i capaci e i meritevoli” e veniva confermato l’odio ideologico per ogni differenza fondata sulla qualità e la capacità», come scriveva Marcello Veneziani nel suo libro 68 tesi contro il ’68. 
Subito dopo arrivò la demagogia egalitaria: ero assistente all’Università di Salerno, in una seduta di esami vennero da me, che avevo la fama di esaminatore severo – così alcune studentesse riferirono ad una loro collega, diventata poi mia moglie –, alcuni studenti e mi chiesero di essere promossi “perché figli di operai”. Risposi loro che non se ne parlava proprio, perché non era finita la stagione dei “figli dei baroni” perché iniziasse quella “dei figli operai”, senza meriti.
Tutti noi di una certa età abbiamo sperimentato come una buona scuola rappresentasse un vero e proprio ascensore sociale proprio per le classi sociali meno abbienti economicamente e culturalmente. Nelle mie classi del liceo classico del Sannazzano, a Napoli, e poi, al “Tasso” di Salerno c’erano figli di braccianti agricoli, di piccoli commercianti, di operai; erano proprio loro che emergevano e si distinguevano nello studio; sono diventati tutti professori universitari, manager, professionisti di successo. Lo ha ricordato anche Antonio Polito sul supplemento del Corriere della Sera. «Quando ero ragazzo io – lo ammetto, troppi decenni fa – il merito era di sinistra – scrive il giornalista –, nel senso che andar bene a scuola veniva considerato il modo migliore per uscire dalla propria condizione sociale, e avere un destino migliore dei genitori». A lui si è aggiunto Angelo Panebianco, che, sempre sul Corriere, ha sostenuto che laddove il merito individuale non conta, nessuno è incentivato a studiare duramente e le possibilità del famoso “ascensore sociale” si bloccano. Accanto al perseguimento di una scuola che continui a promuovere l’inclusione dei più deboli, vanno quindi coltivati meccanismi premianti che incentivino capacità individuale, motivazione, impegno.
Proprio per questo il ministro Valditara ha voluto chiudere la questione del merito, affermando: «Lavoreremo per una scuola che torni a essere un ascensore sociale e che non lasci indietro nessuno».
Le acque qualche tempo dopo si sono di nuovo agitate, in occasione del varo della circolare con cui il ministro ha decretato lo stop dei cellulari in classe, pur consentendo che potranno essere utilizzati per finalità didattiche. «Siamo arrabbiatissimi – ha urlato l’Unione degli Studenti – perché non possiamo più accettare modelli calati dall’alto che ignorino le nostre necessità». Ma – ha risposto ovviamente il ministro – «a scuola si va per studiare, non per chattare», trovando il consenso di associazioni come il Codacons, che si è dichiarato addirittura pronto «a denunciare gli istituti che continueranno a consentire l’uso dei telefonini in classe». «Per evitare distrazioni ai ragazzi, ma pure per prevenire abusi o usi distorti come casi di bullismo, riprese non autorizzate, ecc.».
Naturalmente l’intellighenzia radical chic, con la solita spocchia e la puzza sotto il naso, non ha perso l’occasione per tacere. Il giornalista Massimo Gramellini, ad esempio, ha così ironizzato sul Corriere della Sera: «La circolare con cui il Ministro Valditare, vieta l’uso dei telefonini a scuola durante le lezioni mi ha fatto tenerezza, e non solo perché è identica a quella che emise quindici anni fa il suo predecessore Fioroni. È che non si ferma il vento con le mani (lo disse Seneca, come ho appena letto sul cellulare). Platone proibiva agli studenti di prendere appunti, avendo della scrittura la stessa pessima considerazione che lei ha degli smartphone. Però questo non gli impedì di arrendersi all’evidenza e di mettersi a scrivere (benissimo) anche lui». Bravo Gramellini che non perde occasione per sputare sentenze, come ha fatto pure sulla vicenda della preside già candidata del PD.
Poi è arrivata, finalmente, dopo i frequenti casi di insegnanti vittime di studenti violenti, la decisione di Valditara di attivare la tutela di questo personale da parte dell’avvocatura dello Stato, riscuotendo il largo consenso dei sindacati perché «è giusto che in qualità di pubblici dipendenti siano sollevati almeno dalle spese legali [...]. Sarò sempre dalla parte degli insegnanti aggrediti. La nostra priorità è riportare responsabilità, serenità e rispetto nelle scuole», ha affermato Valditara.
Negli ultimi tempi, infatti, episodi di violenza si sono fatti sempre più frequenti e con conseguenze sempre più gravi; spesso nell’indifferenza nella complicità, se non addirittura con il sostegno delle famiglie: ragazzi bullizzati, professori scherniti, genitori maneschi, vandalismi, professori umiliati davanti agli studenti, addirittura impallinati: «Mi hanno sparato i pallini, ora ho paura dei ragazzi. I genitori? Sono assenti».
Poi è arrivata la lettera agli studenti per “il giorno della libertà”, in ricordo dei martiri delle foibe e degli esuli giuliano-dalmati. Apriti cielo, ancora proteste. Così come c’è stata sollevazione per la proposta di sospendere il reddito di cittadinanza a chi non frequenta la scuola e abbandona gli studi. Infine il suggerimento di valutare «la possibilità di introdurre integrazioni differenziate per gli stipendi dei professori, partendo dal presupposto che in alcune città – soprattutto al Nord – il costo della vita è più alto». L’intenzione del ministro sarebbe quella di battere «nuove strade, anche sperimentali, di sinergia tra il sistema produttivo, la società civile e la scuola, per finanziare l’istruzione, oltre allo sforzo del governo, perché chi vive e lavora in una regione d’Italia in cui più alto è il costo della vita potrebbe guadagnare di più». Riprendendo così un’idea – per chi non lo sapesse – di una personalità che di economia si intende: il governatore emerito della Banca d’Italia, Antonio Fazio.
Ultima ma non ultima, le polemiche scatenatesi per aver protestato (questa volta è il ministro) contro la lettera della preside della quale abbiamo parlato all’inizio, che potrebbe innescare una spirale di violenza come quella che abbiamo conosciuto al tempo degli anni di piombo.
Ecco, per tutte queste iniziative, che esaltano il merito, e per queste proposte innovative ma che si muovono nel solco della migliore tradizione della cultura italiana, il ministro Valditara piace alla maggioranza degli italiani ed a chi scrive.  

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