MODELLI DI VITA
La fede nella presenza di Dio. Sant’Elisabetta della Trinità
dal Numero 41 del 6 novembre 2022
di Aurora De Victoria

La viva fede nella presenza di Dio nell’anima in grazia ha alimentato la vita di sant’Elisabetta della Trinità. Ella ha promesso di aiutare dal Cielo quanti ricorreranno alla sua intercessione per ottenere la grazia di vivere, come lei, una vita tutta orientata a Dio, all’adesione di mente e di volontà a Lui, alla sua divina Parola, alla sua volontà.

Elisabetta Catez nacque il 18 luglio 1880 nella provincia francese di Bourges. Quel giorno era domenica, forse presagio della speciale devozione alla Santissima Trinità che avrebbe di lì a poco permeato l’intera sua vita spirituale. 
Ragazza piena di doti di natura e di grazia, era comprensibilmente portata alla fierezza. Aveva un carattere piuttosto collerico, ma anche raffinatamente sensibile e affettuoso. Pose tutto il suo impegno a dominare quel carattere impetuoso quando la mamma le spiegò che per ricevere la prima Comunione bisognava offrire a Gesù un cuore docile e buono. 
Quello che colpiva della piccola Elisabetta all’età di soli 7 anni era il profondo raccoglimento, la purezza del suo sguardo penetrante, l’energia non comune nel dominare le sue impressioni. Già ella sapeva farsi violenza ed evitare alla madre i più piccoli dispiaceri. 
Sentì presto la chiamata divina a “seppellirsi” nell’intimità di Dio fra le mura del Carmelo di Digione, e benché dapprima ostacolata dalla madre, riuscì a ottenerne il consenso raggiunta la maggiore età. L’ingresso al Carmelo avvenne il 2 agosto 1901. E qui soprattutto, fra queste mura austere e dolci insieme, si svolge tutta la misteriosa missione di Elisabetta, ora divenuta suor Elisabetta della Trinità.

Elisabetta della Trinità
«Io credo che in Cielo la mia missione sarà quella di attirare le anime al raccoglimento interno, aiutandole a uscire da loro stesse per aderire a Dio con un movimento semplicissimo e tutto amoroso, mantenendole in quel grande silenzio interno, che permette a Dio di imprimersi in esse e di trasformarle in sé».
“Elisabetta” significa “casa di Dio”. Ella non poteva non vivere la sua vocazione ad essere in modo particolare “dimora” della Trinità santa che abita dentro di noi, nelle nostre anime in grazia, in forza del Battesimo. Vivamente compenetrata da questa realtà di grazia, suor Elisabetta s’impegnò talmente nell’acquistare la virtù del raccoglimento, da aver raggiunto un tale stato di unione con Dio che catturava gli sguardi e lasciava nell’animo di chi la avvicinava una profonda sensazione della divina presenza. Una volta una consorella doveva chiederle la cortesia di dispiegare un servizio per la comunità; non appena la incrociò nel corridoio, però, al vederla camminare così composta e raccolta, quel portamento regale e maestoso, pur così umile e semplice, la compenetrò di un tale sentimento di sacralità, che ella non riuscì a trovare il coraggio di distoglierla da quel raccoglimento celestiale. 
«Quando rifletto sul mio nome – scrive la Santa – l’anima mia è trasportata dalla grande visione del mistero dei misteri, in quella Triade che fin dalla terra è nostro chiostro, nostra dimora, l’infinito nel quale possiamo muoverci sempre in ogni circostanza, nonostante tutte le difficoltà. Sto leggendo attualmente le stupende pagine del nostro beato Padre san Giovanni della Croce sulla trasformazione dell’anima nelle tre Persone divine. A quale abisso di gloria siamo noi chiamati! Ben comprendo adesso i silenzi e i raccoglimenti dei santi che più non potevano uscire dalla loro contemplazione, sicché Dio poteva condurli su quella sommità divina ove si compie l’unione fra Lui e l’anima, divenuta sposa nel senso mistico della parola».
La sua appartenenza alle tre divine Persone accresceva in lei la devozione alla Santissima Vergine: «I movimenti dell’anima di Maria sono così profondi – si compiaceva di dire – che non si possono afferrare; pare che Essa riproduca sulla terra la vita dell’Essere divino, dell’Essere semplice; perciò ella è così trasparente da confonderla con la luce: eppure non è che lo “specchio del Sole di giustizia”. La sua vita era così semplice, che mi pare più imitabile di quella di qualsiasi altro santo: il solo guardarla mi quieta». 
E per questo il tempo di Avvento la attraeva mirabilmente. «Nessuno sforzo mi è necessario – diceva – per entrare in questo mistero che ci ricorda la divina abitazione della Vergine, poiché mi pare di trovarvi il mio abituale movimento d’anima che fu ancora il suo: l’adorare cioè in me il Dio nascosto».
Elisabetta della Trinità... un nome che tutta la rivelava.

Presenza che sorregge
Fu presto colta da una malattia allo stomaco che era destinata a progredire senza più rimedio, e difatti la consumò giorno per giorno fino a toglierle la vita. Da allora cominciò a soffrire dolori atroci allo stomaco e anche desolazioni e aridità di spirito, alle quali, peraltro, era già piuttosto “allenata”. Il suo vivo raccoglimento, difatti, non era frutto di consolazioni sensibili e magnifiche estasi dilettevoli, come si potrebbe pensare. La sua era una vita di fede, che si nutriva alle sorgenti dell’amore. 
Questa presenza di Dio intensamente vissuta era per suor Elisabetta fonte di ogni grazia. «Ciò che Egli m’insegna in fondo all’anima mia – diceva – senza bisogno di parole, è ineffabile: Egli tutto illumina, e risponde a tutti i bisogni». 
«La preghiera – lei stessa rivela – continuava ad essere il rimedio migliore ai miei mali». Per questo raccomandava ad un’amica: «Io le lascio la mia fede nella presenza di Dio, del Dio tutto amore che abita nelle anime nostre. Glielo confido: è stata questa intimità con Lui “nel mio interno” il bel sole che ha irradiato la mia vita, e l’ha resa come un paradiso anticipato; è essa che mi sostiene oggi nel dolore; non ho paura della mia debolezza che accresce la mia fiducia, perché il Forte (cf Is 9,6) è in me; e la sua virtù onnipotente opera, dice l’Apostolo [san Paolo], al di là di ciò che possiamo sperare». 
«Una notte – aveva confidato ad una sua consorella – poiché i miei dolori erano opprimenti, sentii la natura prendere il sopravvento; risvegliai allora la mia fede, e dissi a me stessa: “Non è così che deve soffrire una carmelitana”; guardando poi Gesù agonizzante, gli offrii quei dolori per consolarlo, e mi sentii fortificata. E così ho fatto sempre nella mia vita; a ogni prova, grande o piccola, guardo ciò che di somigliante ha tollerato Nostro Signore, affine di perdere la mia sofferenza nella sua e me stessa in Lui».

Tutta trasformata
Elisabetta non aveva paura della morte, anzi, sembrava a lei un giorno di festa tanto atteso. Chi ama, infatti, brama stare con la persona amata, ed ella voleva finalmente congiungersi senza più veli a Colui che amava in modo sviscerale sulla terra e al quale era unita intimamente, ma in modo non ancora perfetto come in Paradiso. Così scriveva: «A Dio! Tutto mi parla della mia partenza per il Paradiso. Se sapesse con quale gioia serena aspetto il faccia a faccia!». 
Anche nei dolori più acerbi, suor Elisabetta serbava ininterrottamente la sua unione con Dio. Gli ultimi nove giorni prima della sua morte lasciarono una viva impressione della sua santità in ciascuna delle consorelle che la assistettero. Una suora, vedendola un giorno in una specie di prostrazione, volle dirle una parola d’incoraggiamento; ma grande fu la sua meraviglia nell’udirle mormorare alcune parole, la profondità delle quali le rivelò quanto ella – benché apparentemente morta – vivesse in Dio. 
La piccola ostia d’amore lasciò questa terra il 9 novembre 1905, festa della Dedicazione della Basilica del Santo Salvatore. Appena la notizia della sua morte si sparse per la città, la gente affluì al Carmelo per contemplare la salma di colei che tutti chiamavano la “piccola Santa”. 
Pochi giorni prima della morte, le monache chiesero a santa Elisabetta di lasciare loro un pensiero, come un testamento spirituale. Così ella rispose: «Tutto passa! Al tramonto della vita non rimane che il solo amore... bisogna dimenticarsi senza posa: il mio buon Dio brama tanto che ci dimentichiamo... Oh, se l’avessi fatto sempre!».
Suor Elisabetta si è in verità sempre dimenticata, e in tal modo da scomparire quasi nei suoi “Tre”, tutta trasformata in creatura più di Cielo che di terra. Ha promesso che dal Cielo avrebbe continuato ad adempiere la sua missione nei confronti di noi poveri viandanti sulla terra: quella di aiutarci a dimenticare noi stessi per lasciarci possedere da Dio. Saremo cristiani saggi se ci avvarremo di questo aiuto prezioso, facendo nostro quest’altro piccolo “testamento” che la Santa lasciò alla sorella Margherita: «Ti lascio la mia devozione ai “Tre”; vivi con essi nel tuo interno, nel cielo dell’anima tua; il Padre ti coprirà della sua ombra, ponendo come una nube fra te e le cose terrene, per serbarti tutta per sé; Egli ti comunicherà la sua potenza perché tu lo ami di un amore forte come la morte. Il Verbo scolpirà nell’anima tua come un cristallo l’immagine della sua propria bellezza, affinché tu sia pura della sua purezza, luminosa della sua luce. Lo Spirito Santo ti trasformerà in una mistica lira; il silenzio, sotto il suo tocco divino, produrrà un cantico magnifico all’Amore, e tu sarai allora la “lode della sua gloria”, ciò che avevo sognato di essere io sulla terra... Credi sempre all’amore; se avrai da soffrire, ciò accadrà perché sarai amata ancor di più; ama, e canta sempre “grazie”». 

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